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Graffiti, un excursus storico
di 7di9

Le pareti di cemento erano ricoperte di graffiti, anni di graffiti, che si intersecavano in un’unica metafora caotica di rabbia e frustrazione. William Gibson, Johnny Mnemonico, 1981

1. Kilroy was here

Si racconta che il primo graffito moderno sia stato lo scarabocchio Kilroy, un omuncolo che si sporge timidamente da un muro, accompagnato dalla scritta “Kilroy was here”, e che i soldati americani, durante il secondo conflitto mondiale, avevano l’abitudine di disegnare un po’ dappertutto.

Nel 1946, il New York Times riportò sulle proprie pagine la teoria secondo la quale la leggenda di Kilroy sarebbe nata per via di un certo James J. Kilroy, ispettore navale che era solito contrassegnare i rivetti che non avevano passato il suo controllo proprio con quello che in seguito sarebbe diventato lo scarabocchio Kilroy. Di lì in poi l’abitudine tra le truppe di riutilizzare il simbolo per indicare scarsità di qualcosa, di viveri, di munizioni ecc.

2. Cos’altro, se non vandalismo imbecille?

Dopo la fine della seconda guerra mondiale, l’arte graffitica viene prima legittimata e assunta a rango di arte da Asger Jorn, membro del gruppo CoBra e fondatore dell’Istituto Scandinavo del Vandalismo Comparato, poi avallata dalla critica di un grande interprete del pensiero artistico, Roland Barthes, il quale, nel saggio Cy Twombly o “Non multa sed multum”, confessa: “La sventura dello scrittore […] consiste nel fatto che il graffito gli è proibito”.

Il graffito urbano emerge quindi come un gesto creativo settoriale, delimitato a una definita cerchia di persone, in primis a coloro che poco o nulla hanno a che fare con il sistema dell’arte ufficiale. Certamente di acqua sotto i ponti ne è passata da quando Luois Réau, nella sua Histoire du vandalisme, definiva la “grafitomania” come un’espressione nociva di “vandalismo imbecille”.

Agli albori delle riflessione sul tema, la frattura tra il mondo dell’arte e quello dei graffiti appariva insanabile, vedendo più fronti schierati su posizioni spesso agli antipodi. Eppure, le prime forme di cucitura tra le due realtà giungono proprio dall’universo dell’arte, in particolare da quei pittori che, attratti dalla carica esplicitamente anarchica nonché ermeticamente politica del graffiti writing, si lasciano andare alla realizzazione di opere graffitare nelle strade oppure direttamente nelle gallerie, che lentamente si aprono alla nuova corrente.

3. Arte non arte

Gérard Zlotykamien, con i suoi Ephémerès, cominciò improvvisamente a esprimere la propria arte sui muri delle città d’Europa, saldando così il divario che da sempre aveva tenuto separati ambiente urbano e arte ufficiale. Nel 1984, lo stesso Zlotykamien verrà poi condannato a un’ammenda (modesta) da parte di un tribunale parigino, reo di aver dipinto un graffito sulla parete esterna della Fondation Nationale des Arts Plastiques, istituzione che, qualche anno prima, aveva esposto sue opere, a dimostrazione che labili e sottili sono i confini tra arte lecita e arte proibita. Ma la vera esplosione del movimento graffitaro giunge negli Stati Uniti degli anni settanta, periodo durante il quale i giovani, fuggendo gli ambienti asfittici dei ghetti, cominciano a lasciare le proprie firme, sotto forma di pseudonimo. Nasce così la tag.

A un certo punto si sarebbe potuto credere che i graffiti si espandessero nel mondo intero, quando questo movimento – che venne alla luce come espressione di gruppi di esiliati dei Tropici condannati a vivere in un degrado urbano dai colori opachi e sporchi, in un grigiore monotono e ferroso, affondati nell’asfalto, nel cemento e nel frastuono metallico – esplose all’improvviso con la forza di un’eruzione biologica, come per salvaguardare la carnalità e la sensualità di una generazione di diversi dal rischio della cementificazione della psiche, salvare i loro cervelli malnutriti dai muri vuoti della città ricoprendo questi stessi muri con alberi giganti o piccole piante di una foresta tropicale.

Sono le parole dello scrittore beat statunitense Norman Mailer, che si schiera così, nel suo saggio La religion des graffiti, dalla parte dei graffitari, riconoscendone a un tempo la carica ideologica e le profonde motivazioni artistiche.

In seguito, la tag diviene graph, una complessa elaborazione grafica di dimensioni più ampie, il cui obiettivo primario è ricoprire ampi squarci urbani, ora riproducendo opere celebri, adesso mettendo in atto uno stile espressivo assolutamente nuovo. Celebre l’opera del graffitista americano Chris Pape, noto soprattutto con il nome di Freedom, il quale riproduce su una carrozza della metropolitana di New York il gesto della creazione di Michelangelo, accompagnato da una scritta significativa: “What Is Art? What Is Art?”.

Nella street art troveranno modo di esprimersi autori di strada come Jenny Holzer, Barbara Kruger o Charles Simonds, artisti oggi pienamente assimilati dal cosiddetto establishment. Sulla scia dell’ormai consolidata arte di strada, emerge soprattutto il nome di Jean-Michel Basquiat, di madre portoricana e di padre haitiano, che, nel 1978, fonderà un gruppo artistico informale denominato SAMO©, che inizierà letteralmente a inondare Manhattan di scritte firmate SAMO©. Messaggi critici, ma mai sovversivi:

SAMO© (…) per farla finita con / lo stupido / il nuovo a cinque stelle / lo sciupare la propria vita / il congiungere le due estremità / il rientrare a casa / la sera davanti alla televisione a colori”.

Morto nel 1986 a ventisei anni, l’eclettico Basquiat figura oggi nelle collezioni dei più importanti musei del mondo. Intanto, i fenomeni dei tag e del graffiti writing si sono allargati e continuano a espandersi a macchia d’olio, occupando strade, edifici, veicoli, spezzettandosi in molteplici derive, sfiorando argomenti comuni e di facile comprensione, come le emozioni quotidiane, ma soprattutto tematiche politiche, che si riconnettono a quelle non troppo lontane radici antropologiche dei primi graffiti; senza dimenticare i graffiti di matrice vandalica, a riprova di un flusso creativo e contenutistico complesso, che va analizzato secondo canoni morali ed estetici per nulla convenzionali, assoluti, e con la mente sempre sintonizzata sul senso che ne legittima l’esistenza, al di fuori di sentenze pregiudizievoli e di valutazioni affrettate.

FONTI:

DENYS RIOUT, Qu’est-ce que l’art moderne?, Editions Gallimard, Paris 2000; trad. it. L’arte del ventesimo secolo, Einaudi, Torino, 2002, pp. 214 – 219

WIKIPEDIA: Graffiti writing; Kilroy

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