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Trilobiti: la memoria fossile di Breece D'J Pancake

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Una scrittura sofferta e diretta, sincera e per questo dolente. Parole che hanno il sapore della cenere e del fumo, della polvere di carbone e della rugiada. L’odore dei boschi, delle montagne, della legna, dei cervi e dei cani. Il profumo della vita vissuta come condanna ed espiazione. Tutto questo è stato Pancake. E oltre.

È impossibile resistere alla pagina di Breece D’J Pancake senza provare un brivido o un sussulto. Le sue parole riescono sempre ad afferrare qualcosa sepolto dentro di noi, che magari credevamo dimenticato, e a portarlo a galla dal profondo. La sua è stata l’elegia dei reietti e dei vinti, un canto in grado di regalare ai protagonisti delle sue storie (una variegata galleria di braccianti, pugili, marinai, minatori e delle loro donne, da bar oppure da strada) un’eternità letteraria in cui si sublima la loro dignità.

Apprezzato da autori del calibro di Joyce Carol Oates, Kurt Vonnegut e Chuck Palahniuk, per capire cosa abbia significato Pancake occorre leggere le sue storie. Non è indispensabile metterle in relazione a quanto venuto dopo, perché la sua opera racchiude e codifica una sensibilità ben definita, personalissima, eppure comune al retaggio di tanti altri grandi autori figli del Sud, non ultimo quel William Gibson che nella trilogia dello Sprawl riserverà brevi ma significativi scorci alle terre crepuscolari e autunnali immobili ai margini del BAMA.

Di racconti ce ne restano 12, tutti scritti tra la metà degli anni ’70 e il 1979, data della sua morte prematura. Il primo uscì nel 1976 sulla prestigiosa rivista letteraria The Atlantic Monthly: si tratta del celeberrimo Trilobiti, una sorta di manifesto letterario della sua scrittura. In esso vive un distillato dell’ispirazione del giovane cantore degli Appalachi. Una terra depressa, condannata alla miseria: “Il West Virginia desolato e indurito; povero di una povertà che non è più rurale e non ancora industrializzata. Un nucleo oscuro di cave e foreste”, per adottare le efficaci parole usate da Claudia Bonadonna in “About a boy”, il suo vivido ritratto di Pancake sospeso tra finzione e rievocazione. I suoi fiumi, la memoria fossile depositata in essi sottoforma di reperti mineralizzati. E la sua gente, gli slanci di riscatto cristallizzati in un’immobilità senza via di fuga e, per questo, senza speranza di riuscita. Proprio come nelle canzoni di Phil Ochs, il cantautore amato da Pancake (la cui canzone preferita si tramanda fosse la struggente Jim Dean of Indiana) e significativamente morto suicida proprio nell’anno dell’esordio letterario dell’autore appalachiano.

La poetessa Irene McKinney, curatrice del volume Backcountry: Contemporary Writing in West Virginia, ha scritto: “Tutti i protagonisti maschili di Breece Pancake hanno una profonda connessione con la terra. E quando la società stessa li respinge, loro se ne allontanano e si rifugiano nei boschi. Vanno a caccia. Scrutano il tempo. Sparano ai cervi. Questo li riporta a un rapporto primordiale con la terra. Posso capire il loro voltare le spalle all’indifferenza della società, il loro rifugiarsi in qualcosa di naturale”. E a testimonianza dello stesso legame che avvinceva Pancake alla sua terra possiamo riportare questo breve estratto da una delle sue lettere alla madre, scritta mentre frequentava i corsi all’università di Charlottesville (Virginia): “Quando avrò finito qua tornerò nel West Virginia. C’è qualcosa di antico e profondamente radicato nella mia anima. Mi piace pensare di aver lasciato la mia anima su una di quelle colline, e non sarò mai davvero capace di partire finché non l’avrò trovata. E io non voglio cercarla, perché potrebbe capitare che la trovi e così sarei costretto a partire davvero”.

Pancake si suicidò con un colpo di fucile alla testa all’età di 27 anni non ancora compiuti, la sera dell’8 aprile di trent’anni fa. A lui va il nostro ricordo in questa data triste non solo per le radici sopite della primavera, attraverso la rilettura del suo capolavoro: Trilobites, .

Guardo ancora una volta Company Hill, tutta consumata e logora. Molto tempo fa era davvero scoscesa e stava come un’isola nel fiume Teays. C’è voluto più di un milione di anni per fare questa piccola collina liscia e ho cercato dappertutto trilobiti. Penso a com’è sempre stata lì e a come ci starà sempre, almeno per tutto il tempo che importerà qualcosa.
[Trilobiti, pag. 13]

Il tempo scorre attorno a Colly, il narratore della storia. E giorno dopo giorno le insidie della realtà logorano il suo mondo: la distanza della ragazza che ha amato, la difficile situazione economica della sua famiglia dopo la morte prematura del padre, l’imminente cessione della fattoria a un’agenzia di assicurazioni. Foschi presagi si addensano all’orizzonte.
Ma mentre il tempo scorre anche in questo remoto angolo rurale alle propaggini degli Appalachi, Pancake/Colly ne contempla gli effetti sul proprio microcosmo. Spazio e natura ne avvolgono i tratti in un abbraccio sinestetico: colori, suoni e odori di un mondo che sente ormai già perduto rivivono sulla pagina attraverso le sue sensazioni. Nitide, crudeli.

Vedo campi e bestiame dove ora stanno gli edifici, me li immagino in qualche epoca passata, molto, tanto tempo fa.
[Trilobiti, pag. 17]

La collinetta alla fine della loro terra ha sempre rappresentato per Colly il confine di questo spazio familiare, domestico, il territorio privato della sua anima. Pochi punti fermi: Company Hill, il greto disseccato del fiume Teays, le miniere intorno al paese, la strada che scorre in fondo alla valle, il caffè, la ferrovia, il vecchio scalo in corso di dismissione. L’imminente perdita di un ambiente secolare costruito attorno a questa manciata di riferimenti mette in crisi la sua percezione dell’universo e lo scaraventa in balia di un panorama di probabilità.

Mi siedo lì, fumo, guardo ancora una volta le canne da zucchero. I filari curvano stretti, ma attorno c’è una specie di cicatrice d’argilla e sulle foglie c’è una ruggine violacea. Non mi faccio domande sulla ruggine. So che le canne sono troppo andate per preoccuparsi della ruggine. Lontano, qualcuno spacca la legna e i colpi d’ascia ritornano come un’eco verso di me. Qui i fianchi della collina sono cotti e circondati da uno spettro di calore.
[Trilobiti, pag. 17]

Quell’ultima collina ha però anche una valenza simbolica e affettiva per il protagonista. Ai confini con il mondo esterno, si è consumato il suo incontro con Ginny, divenuta una sua ossessione da quando – due anni prima, finita la high school – la ragazza è partita per la Florida, lasciandoselo dietro insieme al suo passato.
Il distacco da lei ha rinforzato l’urgenza per Colly di confrontarsi con il passato, che comincia a configurarsi per lui come un asilo, un porto al riparo dalle miserie e meschinità quotidiane.

Guardo lungo la collina. La mia prima volta con Ginny è stata nei boschi di quella collina. Penso a quanto potevamo essere vicini allora e forse anche adesso, non so.
[Trilobiti, pag. 21]

Mi piace tenere piccole pietre che hanno vissuto tanto tempo fa. Ma la geologia non fa per me. Non riesco neanche a trovare un trilobite.
[Ibidem, pag. 23]

La memoria del passato è tanto forte da trascinare Colly in un vortice di fantasie dalle sfumature malinconiche. Ma a esercitare un richiamo ancora più forte delle persone, sono i luoghi: la loro essenza lo richiama a scenari preistorici che rimandano all’immagine di un pianeta incontaminato e ancora vergine. E l’idea della separazione da essi innesca un meccanismo di rimozione che lo spinge a cercare rifugio oltre la barriera del tempo.
Il passato e le fantasticherie che vi matura attorno rappresentano la sua strategia escapista. Da questa prospettiva Colly contempla la propria, personale età dell’innocenza, interrotta tra il ricordo del padre compianto e la perdita di Ginny.

Butto la testa all’indietro, provo a dimenticare questi campi e le colline attorno. Molto prima di me e di questi arnesi, il Teays scorreva qui. Posso quasi sentire le acque fredde e il solletico che fanno i trilobiti quando strisciano. Tutta l’acqua che veniva dalle vecchie montagne scorreva verso ovest. Ma la terra si è sollevata. Mi restano solo il letto del torrente e gli animali di pietra che colleziono. Sbatto le palpebre e respiro. Mio padre è una nuvola color kaki tra i cespugli di canne e Ginny nient’altro che un odore amaro tra i rovi di more su per il crinale.
[Trilobiti, pag. 18]

Ma nel frattempo i presagi ostili si susseguono nel mondo di tutti i giorni. La ruggine, la siccità, sono segnali che non lasciano presagire esiti clementi per il raccolto. E questo convince la madre di Colly sull’opportunità di vendere la fattoria. Quando il conflitto abbraccia anche Ginny, mostrandogli quanto si siano allontanate col tempo le loro rispettive strade, a Colly non resta ancora una volta altro da fare che accelerare in una scorribanda a ritroso attraverso le epoche, cercando una via di fuga temporale dall’insostenibile gravità degli affetti.
Ancora una volta dalla contemplazione dei luoghi e dei segnali di decadenza che li sfigurano nasce il suo sfasamento temporale:

Mi sento troppo male per dire qualcosa. Guardo dall’altra parte della ferrovia verso un campo piantato a coda di topo. Ci sono dei pozzi là, pompano per estrarre gli antichi fluidi. Il gas è blu quando brucia e mi chiedo se il sole antico fosse blu. I binari corrono finché non diventano un punto nella foschia marrone. Si sente il rumore degli scambi che scattano. Alcuni vagoni cisterna stanno fermi sul binario di raccordo. Le ruote si stanno arrugginendo. Mi chiedo che cosa diavolo abbia voluto con i trilobiti.
[Trilobiti, pag. 27]

E mentre si approssima l’ennesimo, forse l’ultimo, effimero avvicinamento tra i due, l’illusione del futuro si combina con l’incertezza dello spazio e le insidie ignote del mondo esterno. Alle prese con la necessità di escogitare una via d’uscita, Colly azzarda un tentativo di sostituzione.
È quando i corpi di Colly e di Ginny si incontrano senza riconoscersi che si consuma forse la consapevolezza terminale sull’assenza di una soluzione.

Company Hill sembra più grande nella luce del crepuscolo e penso a tutte quelle colline attorno al paese dove non ho mai messo piede. Ginny viene dietro di me e con i suoi passi c’è un rumore di vetro. […] La faccio scivolare sul pavimento. Il suo profumo sale verso di me e sposto delle casse per fare spazio. Non aspetto. Non sta facendo l’amore, sta scopando. Va bene, penso, va bene. Scopiamo. Le tiro giù i pantaloni fino alle caviglie, la scopo. Penso alla sorella di Tinker. Ginny non è qui. La sorella di Tinker è sotto di me. Una scia di luce blu passa sopra di me… Apro gli occhi sul pavimento, sento quell’aroma di pioggia e legno bagnato.
[Trilobiti, pag. 29-30]

Un tentativo fuori tempo limite e del tutto inutile, questo di Colly di trovare riparo in un mondo popolato dai surrogati dei nostri sogni. L’ultimo sforzo, prima dello scacco finale. Dal sapore definitivo.
Colly accetta lo scacco. Lo fa proprio, lo metabolizza.
L’epilogo è da antologia, con la sua prospettiva che improvvisamente si arrampica dall’individuo a un’altezza da vertigini cosmiche, in grado di abbracciare il tempo, l’universo intero e le generazioni che lo hanno preceduto sulla Terra in un’immagine di rara potenza evocativa.

Passerò la notte a casa. Devo chiudere gli occhi nel Michigan, forse anche in Germania o in Cina, non lo so ancora. Cammino, ma non ho paura. Sento che la mia paura si allontana in cerchi concentrici attraverso il tempo, per un milione di anni.
[Trilobiti, pag. 31]

Dove vivono, cristallizzati o mutati in fossili, i sogni interrotti dei nostri padri. Terribilmente simili a quelli che ancora ci sforziamo di difendere.

Note: Trilobiti è stato pubblicato nell’omonima raccolta edita da ISBN Edizioni nel 2005. La traduzione usata è quella di Ivan Tassi, adottata per la medesima edizione. Qui la pagina ufficiale dell'editore.
Alle suggestioni di Pancake è dedicato il sito Trilobiti, già tra i nostri preferiti.
Lo scorso anno ho voluto omaggiare Pancake con il racconto Orfani della connessione, pubblicato da Delos SF e accompagnato dalla bella elaborazione di Giorgio Raffaelli che abbiamo riprodotto in questo articolo. Quest'anno, in occasione del trentennale della scomparsa, Fernando Fazzari ha voluto commemorare Pancake con un racconto scritto appositamente per Next Station: Il miraggio esploso.

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