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La vita al servizio della riproducibilità tecnica
di 7di9

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Prestando attenzione ad alcuni recenti sviluppi della tecnologia applicata, emerge un’interessante tendenza alla manipolazione del materiale biologico, nel tentativo complesso di veicolarne le potenzialità innate su canali non convenzionali. Il processo spalanca grandi prospettive, ma pone anche dubbi e quesiti di non facile soluzione, dovendo fare i conti con i reflussi di un rigetto oscuro sempre in agguato (gli imprevedibili effetti della nascita di una singolarità) e con i tentacoli onnipresenti di poteri forti agenti su scala globale (la sempre incombente longa manus del potere delle multinazionali). Nell’articolo che segue analizzeremo due casi in apparenza distanti, ma in realtà legati da una sottile quanto complessa stringa di connessione, evidenziandone la (possibile) carica innovativa e l’impatto che potrebbero produrre sul nostro presente.

Come riportato da un articolo apparso su Repubblica.it, per il sesto anno consecutivo, il Massachusetts Institute of Technology di Boston ha organizzato l’International Genetically Engineered Machine Competition. A partire da giugno, e per un tempo massimo di tre mesi, i cento team partecipanti saranno chiamati a progettare un meccanismo funzionante costituito da materiale biologico. I “mattoncini” dell’operazione dovranno essere esclusivamente selezionati da un registro predisposto dallo stesso Mit, al momento contenente circa 3.200 “pezzi di ricambio” biologici. L’intento principale è di realizzare meccanismi in grado di rigenerarsi e a impatto ambientale minimo.

Tra i pionieri di questa branca della tecnologia figura sicuramente Craig Venter, lo scienziato che per primo al mondo ha sequenziato il genoma umano. Servendosi di batteri, Venter è infatti riuscito a sintetizzare microgranismi capaci di convertire in via del tutto naturale la CO2 in biocarburanti come il gasolio o la benzina, aprendo di fatto la via alla produzione domestica di combustibile. Come premio per il team vincente, il concorso indetto dal Mit di Boston prevede poi la consegna di un mattoncino Lego grande come una scatola di scarpe. Per il resto, solo il futuro potrà dirci se, oltre alla gloria accademica, le creazioni vincitrici (e non) sapranno rivelarsi realmente utili per la comunità civile. Chissà, poi, se non proprio da una di queste moderne chimere nate in laboratorio non dovesse emergere la prima singolarità del terzo millennio.

Scenario parimenti suggestivo ci giunge dal settore della sperimentazione medica, dove la terapia genica prosegue nel suo cammino di rinnovazione dei metodi di cura a cui siamo abituati. In dettaglio, per terapia genica si intende il processo di inserimento di materiale genico sano all’interno di cellule malate al fine di ingenerare una risposta curativa. Tra le differenti metodologie di terapia genica possibili, il trasferimento virale occupa una posizione di indubbio interesse. In quanto organismi altamente specializzati nell’infezione di cellule, gli organismi virali, opportunamente addomesticati, privati cioè del loro potenziale offensivo, rendono infatti possibile il trasferimento di materiale genico sano che, una volta integratosi con la cellula malata, spinge il DNA della stessa a produrre cellule utili alla cura della patologia. Oggigiorno, particolari attenzioni lo sta suscitando il famigerato virus HIV (Human Immunodeficiency Virus). Infatti, come dichiarato dal direttore dell’Istituto San Raffaele Telethon Luigi Naldini in una recente intervista apparsa sulla rivista Le Scienze (aprile 2009, pp. 16-17) a firma di Valentina Murelli, “L’HIV ha suscitato interesse perché si integra anche in cellule non proliferanti, come quelle del fegato o del cervello. ” In sintesi il processo è il seguente: le cellule staminali vengono prelevate dal sangue del paziente, per poi essere opportunamente trattate con il vettore lentivirale contenente la versione corretta del gene coinvolto nella malattia; infine, così modificate, le cellule sono nuovamente iniettate nel paziente. Trattasi di una terapia complessa e ancora lontana dalla perfezione, nonostante le ragioni della sua scarsa diffusione siano altre. La terapia genica, a differenza dei classici farmaci a cui tutti noi siamo abituati, non richiede un’assunzione costante di materiale curativo, ma, potenzialmente, un unico e personalizzato trattamento risolutivo. Per questo motivo, come nota il professor Naldini nella stessa intervista, “è stato fondamentale il ruolo di Telethon, che ha sopperito alla mancanza di finanziamenti”. È quindi chiaro come le prospettive di una simile procedura terapeutica non sono e non saranno mai appetibili per le industrie farmaceutiche, il cui potere economico si basa sulla dipendenza determinata dai propri prodotti, piuttosto che sulla creazione di cure definitive e immediate che possano finalmente liberare il paziente da terapie a lungo termine, costose e spesso psicologicamente frustranti.

Quale futuro si prospetta alla luce di questi eventi? È ragionevole augurarsi, a questo punto, accanto a un’esplosione di nuovi paradigmi scientifici, anche una rivoluzione dei flussi antropologico-istituzionali: economici, politici, ma soprattutto culturali. Poiché, senza una concreta convergenza tra progresso reale e progresso potenziale, le possibilità dell’uomo di avanzare verso livelli di benessere efficienti e soprattutto accessibili ai più, nonché rispettosi delle libertà fondamentali dell’individuo, sono destinate ad annaspare per un lungo periodo al di sotto della soglia di sopravvivenza.

COMMENTI

bellissimo articolo. titolo molto benjamiano :))))

evertrip, 15 ottobre 2009, 20:26

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