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I racconti di Ballard: una lettera e altri frammenti
di Alessandro Fambrini

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Fambrini è nato nel 1960. Docente di letteratura tedesca a Trento, è un esperto di fantascienza nordeuropea e anche italiana. Al di fuori delle pubblicazioni accademiche, i suoi interventi critici sono apparsi sulle riviste Studi nordici, Futuro Europa e Nova SF*. Il suo racconto lungo "Perimeni" è uscito su Robot numero 43 nel 2004, mentre nel 2005 la Perseo Libri ha raccolto i suoi racconti nell'antologia Le strade che non esistono. In questi giorni è in edicola il n. 50 del Millemondi Urania, da cui attingiamo per queste note, con il romanzo Ascensore per l'ignoto, scritto a quattro mani da Fambrini e Stefano Carducci e giunto finalista all'edizione 2006 del Premio Urania.

Caro Salvatore, per risolvere l’impasse (e la tirannia del tempo), mi sono arrangiato così. Ti mando alcuni frammenti di parte di un mio saggio (inedito, uscirà un giorno su Anarres) su Ballard, rivisto e corretto per l’occasione.
Di più personale, posso aggiungere che Ballard, con Dick e Vonnegut, ha formato il triumvirato dei miei vent’anni, quando iniziavo a sviluppare un gusto e una coscienza critica e a uscire dal solipsismo fantascientifico adolescenziale. Vi trovavo una riflessione che mi sembrava insieme originale e profonda sugli effetti di un mondo sempre più tecnologicamente alienato (dell’era spaziale, credo avrebbe detto lui), in cui la vita di ogni giorno sfuggiva alla comprensione istintuale, immediata, e i meccanismi della psiche dovevano ricalibrarsi su altre coordinate, di cui le sue storie sembravano possedere il segreto.
Del resto Ballard è l’unico che, scrivendo in re propria, ho osato imitare consapevolmente (con “Infinito”, che da sempre considero il mio racconto preferito anche se non il migliore). Non so se questa sua imitabilità – che mi sembra un dato oggettivo – sia una debolezza o una forza (una volta io e te abbiamo avuto una discussione su questo argomento a proposito di Stella variabile di Heinlein/Spider Robinson). Direi piuttosto una debolezza – la maniera che s’impone al di là dei contenuti – ma la questione rimane aperta.

Di Ballard colpisce soprattutto l’arditezza sperimentativa. Sono poche le innovazioni memorabili, pochi gli escamotage. Invece, come ha scritto David Pringle, la sua opera appare piena di oggetti, di cose che straripano e si sostituiscono alla trama. La tensione simbolica tende a concentrare nelle singole immagini l’intera intensità di una storia, e si addice meno alla dimensione del romanzo.
Le trame sono generalmente scarne, parabole che non si esauriscono in un destino individuale in contesti alterati ma formano il riflesso di leggi più vaste, su cui sembrano ripercuotersi gli echi di corrispondenze remote che trascendono quei destini. In questo senso è da registrare un’assenza quasi completa dei cliché del genere. Raramente l’ambientazione è spaziale, ed è escluso il ricorso a robot o alieni, il cui ruolo è essenziale praticamente solo in uno dei primi racconti, “The Waiting Grounds” (“Le Terre di attesa”, 1959), dove comunque servono da detonatori per processi cosmico-psichici. Mentre un altro racconto (il suo primissimo tentativo di scrivere fantascienza, disse l’autore), “Passport to Eternity” (“Passaporto per l'eternità”, 1962), pullula di mostruosità e astronavi al punto da non lasciare dubbi sulla sua natura di divertissement, parodia di una science fiction alla Sheckley (anche se Ballard chiama in causa Vance), ammassamento di luoghi comuni che, nel citarlo, si confonde con il modello.
Pur tutt’altro che tradizionale tanto nella scrittura quanto nei plot, è indubitabile l’appartenenza di Ballard all’ambito della science fiction, a cui l’autore inglese rivendicò anzi, e ripetutamente, la prerogativa di letteratura forte e addirittura unica del ventesimo secolo. Oltre che il tentativo di segnare nuove vie alla fantascienza, intesa come movimento e implicitamente accostata alle avanguardie artistiche novecentesche (è indicativo anche il ricorso allo strumento del “manifesto”), l’iniziativa di Ballard corrisponde al ritagliarsi di un universo personale dalle coordinate precise, frequentato con coerenza persino ossessiva. Ma in cosa consiste lo specifico fantascientifico della sua letteratura? Soprattutto nel punto di partenza scientifico. Scrive Ballard in Which Way to Inner Space?: “in passato la SF ha propeso verso le scienze fisiche - astronautica, elettronica, cibernetica - ma l’enfasi dovrebbe slittare verso le scienze biologiche, soprattutto sulle loro manipolazioni narrative e creative”. Ancora più caratteristico e innovativo è l’inedito coniugare SF e scienze della psiche, estratte dalla dimensione impalpabile dell’intimità e portate fuori, elette a matrice di realtà.
I suoi racconti mettono in scena alla lettera l’universo esplorato da tali scienze, investendo scenari come la clinica psichiatrica di “Minus One” (“Paziente perduto”, 1963) e “addetti ai lavori” come protagonisti. Analisti, psichiatri e pazienti prendono il posto di astronauti, astronomi e fisici, come in “The Man on the 99th Floor” (“L'uomo al 99° piano”, 1962) e “Zone of Terror” (“Zona di terrore”, 1960). In “The Insane Ones” (“I pazzi”, 1962) lo scenario è un mondo dickiano nel quale un plumbeo governo mondiale ha messo al bando la psicanalisi, con conseguenze funeste, e perseguita chi tenta di esercitarla nel tentativo di sottrarre alla disperazione una popolazione sempre più squilibrata e percorsa da pulsioni di morte.
Più spesso i sommovimenti dell’inconscio emergono dal piano del simbolico e acquistano piena concretezza. La realtà così raffigurata funziona con ogni evidenza secondo regole nuove e tuttavia familiari, spesso diverse in maniera sottile, ma abbastanza per dare un senso di vertigine, per mettere in discussione la nostra percezione del mondo. Lo scarto si riduce spesso all’esplicitazione di un impulso psichico che è autentica matrice di realtà e non alterazione della percezione, in un universo in cui l’inconscio ha dato corpo reale ai propri fantasmi.
Così, in “The Drowned Giant” (“Il gigante annegato”, 1964) il mastodontico corpo umano rinvenuto sulla spiaggia – incongruente irruzione di un irrazionale che non concede appigli alle categorie della logica – viene metabolizzato senza sforzo e riportato nell’indifferenza totale entro gli schemi assimilati, profanato, ridotto a pezzi e trasformato in cibo per animali, mentre della sua presenza si perde il ricordo e le sue ossa spolpate restano alla riva, da tutti riguardate come comuni ossa di balena. In “Zone of Terror” il protagonista è letteralmente ucciso dai fantasmi che si materializzano nella sua psiche. In “The Venus Hunters” (“UFO da Venere”, 1963) il disco volante non è una proiezione di uno squilibrio psichico, ma è l’esperienza vissuta che diffonde intorno al protagonista, agli occhi degli scettici concittadini, un’aura di follia, in un racconto in cui la stessa SF è decodificata come letteratura di metafora per i sommovimenti psichici della nostra epoca. In “Mr. F is Mr. F” (“Il signor F. è il signor F.”, 1961) il complesso di regressione che si sviluppa in un uomo che sta per diventare padre, ma non ne sopporta la responsabilità, assume connotati di esperienza autentica: l’uomo decresce poco a poco, diviene davvero il bambino da cui non vorrebbe essere scalzato, e la moglie sostituisce davvero quel piccolo essere al marito non più accettato come tale. In “The Watch-Towers” (“Essi ci guardano dalle torri”, 1962) le inibizioni sessuali e le frustrazioni accumulate dall’insegnante che si ritiene escluso, oppresso dalla società, al limite della paranoia, si estrinsecano nelle onnipresenti torri rovesciate, abitate forse da muti, distaccati osservatori: il processo di conoscenza di sé non è terapia ma progressivo manifestarsi della condizione, e culmine della crisi.
Allo stesso modo i primi racconti della degenerazione urbana, le cui città sovraffollate sono estreme deformazioni della società contemporanea (“Build Up” [o “The Concentration City”, “Città di concentramento”, 1957], “Billennium” [“C'è posto per tutti”, 1961]), anticipano la fase inaugurata a metà degli anni Settanta e raffigurano in maniera parossistica l’incalzare tecnologico di cui la raffigurazione del deserto psichico è complemento speculare. La fuga, il ripiegamento nell’isolamento dell’inconscio, è reazione alle costrizioni insopportabili di una convivenza impossibile. Entrambi gli scenari preludono all’estinzione e alla catastrofe: la disgregazione psichica non meno reale del mondo disumanizzato, avvelenato e frenetico.
Il procedimento narrativo di Ballard è di sintesi estrema, pur nella barocca preziosità del linguaggio. Spariscono dagli scenari i particolari non significativi. Tutto ciò che appare ha di conseguenza rilievo smisurato. Tutto è simbolo di qualcos’altro, e tutto riporta generalmente, per ogni racconto, a un principio, a un’idea. L’economia della scrittura si regge su questa sobrietà estrema: un’idea per ogni storia e il racconto è l'architettura che le dà corpo, in un moto del narrare che obbedisce a una legge centripeta, all’esatto opposto del moto centrifugo del cyberpunk.
L’ideogramma di Whitby in “The Voices of Time” (“Le voci del tempo”, 1960) è l’emblema della narrativa di Ballard: una straordinaria ed enigmatica concentrazione di significato in un oggetto conchiuso, che proprio nella sua finitezza e in quella dei suoi pochi elementi rimanda al tutto: innanzitutto al racconto stesso e poi al moltiplicarsi di corrispondenze che si levano in cerchi concentrici fino a comprendere l'intero universo. Lo spazio stilizzato di “The Voices of Time” si estende fino a divenire, nel ciclo di Vermilion Sands, sfondo stabilizzato in cui una logica narrativa di tipo mimetico copre un territorio che risponde al principio del simbolico.