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The Mission live, Roma 9 marzo 1987

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Terza tappa nel cammino di riscoperta degli eventi live in un periodo di transizione dalla New Wave verso il Gothic e l'Industrial. Questa volta Sandro Battisti ci riporta indietro al 1987, quando a Roma approdò la band The Mission...

Roma, marzo del 1987. I Mission suonavano per la prima volta nella Capitale.
Preceduti da un battage pubblicitario che li etichettava come il gruppo che rinnovava le sonorità dark (era vero, ma quante altre volte avrei sentito questo slogan!) i Mission si presentavano con all’attivo alcuni singoli accattivanti – i primi vagiti del pop oscuro – e un album, God’s Own Medicine, indubbiamente splendido.

La band nasceva dalle ceneri dei Sisters of Mercy, creatura seminale di Andrew Eldritch dei primi ‘80 che, anche ai giorni nostri, fa proseliti sonori, nel senso che molte band si rifanno proprio alle loro sonorità.
Dopo un disco epico (First and Last and Always) e singoli precedenti devastanti, i Sisters of Mercy si sciolsero per manifesti eccessi di noia (Eldritch non si divertiva più ad andare in giro a suonare coi suoi tre compagni). Due degli ex componenti (Wayne Hussey e Craig Adams) si risolsero a formare i Mission, cambiando anche qualche sonorità. Laddove i Sisters si contraddistinguevano per la voce gutturale di Eldritch e le sonorità oscure, costituite da una via di mezzo tra l’elettrico e l’elettronico (un approccio lungimirante), i Mission propendevano per gusti neoromantici, decadenti, andando a scavare proprio laddove la sensibilità del secolo passato dava il meglio. Quindi nei testi atmosfere alla Poe, alla Maupassant, alla Keats; scenografie floreali, cimiteriali, ma senza calcare troppo la mano sull’aspetto macabro, una serie di continui rimandi a un decadentismo oscuro e quasi etereo, comunque grondante di nero. Accanto a tutto ciò c’era la sensazione di una svolta (che sarebbe diventata) pop per tutto il popolo dark dell’epoca, che in Europa si rifaceva a pietre miliari varie che partivano dai Joy Division per approdare ai Cure, fino a giungere agli stessi Sisters, mentre negli States abbondavano canoni estetici diversi, uno dei quali era dato dai Christian Death di Rozz Williams, assai ruvidi nei suoni ed essenzialmente intrisi di quel modo di intendere le cose molto americano, più pratico e scevro da tutti i romanticismi europei. Ecco, i Mission rappresentarono un po’ il punto di rottura dell’underground oscuro, come se tutto quel variegato movimento nero mondiale si affacciasse verso il resto del mondo e cercasse di accattivarselo con suoni più abbordabili; certo non furono i primi (molta della new wave precedente aveva cercato di ingraziarsi il grande pubblico con sonorità paracule e al contempo oscure o d’avanguardia), ma il fatto che un ambiente da setta, quale quello dei dark o dei successivi gothic, facesse carte un bel po’ false per scalare la popolarità s’insinuò pian piano in ogni amante di quella cultura dell’epoca; personalmente feci un po’ spallucce a tutto ciò, la band mi piaceva e piace tuttora, certo era che con i Mission non si parlava di sperimentalismi tetri e inossidabili quali quelli, per esempio, dei Cindytalk: tutto appariva e si percepiva un po’ più easy.

La parte musicale dei Mission era un gotico depurato dalla sezione elettronica dei Sisters, molto arpeggiato di chitarra e basso, tastiere pressoché assenti, l’idea del crepuscolo era ben presente e la freschezza dei suoni tutto sommato può dirsi mantenuta, se nel computo non mettiamo la moderna musica elettronica in tutte le sue forme e declinazioni. Ecco, forse il peccato originale dei Mission è stato quello di non aver continuato a sviluppare le idee avveniristiche di Eldritch ma di averle cassate a favore di un ritorno al passato, giusto perché romantico ma errato perché l’operazione ha, agli occhi di adesso, il sapore di un rifacimento di qualcosa già morto, un cliché che sì, forse serviva più che altro a vendere. I Mission incisero, infatti, cose buone soltanto nel disco successivo (alcuni brani, non tutti) mentre nel terzo il loro pop era già notevolmente evidente e preponderante.
Un po’ di discografia, quindi. First and Last and Always dei Sisters uscì nel 1985, e nell’86 i Mission diedero alle stampe il loro primo lavoro in LP, God’s Own Medicine, preceduto da una manciata di singoli davvero esaltanti usciti poi nella raccolta dal titolo The First Chapter.

Con tutte queste premesse, l’attesa per il 9 marzo ‘87, la prima dei Mission a Roma, era notevole perché c’era la netta sensazione che la serata sarebbe stata indimenticabile.
I Mission salirono sul palco dopo il gruppo di spalla (talmente anonimi da non aver lasciato in me alcun ricordo) con un buon ritardo; li osservai bene, lontano dalla prima linea essendo seduto sulle gradinate del teatro tenda di via Cristoforo Colombo (ora scomparso). La band era alquanto statica, probabilmente erano chi più, chi meno, tutti ubriachi, e il suono ricercato e raffinato del loro lavoro in studio era diventato rude ma ancora più oscuro, essenzialmente gothic. Hussey, in tenuta da Zorro senza maschera, urlava con potenza le sue litanie romantiche e tentava di scaldarci meglio che poteva; noi del pubblico apprezzavamo, ma eravamo disorientati dagli arrangiamenti, a volte notevolmente diversi, come nel caso del brano Garden of Delight.
Il gruppo snocciolò in sequenza, dopo un’introduzione eterea, Tomorrow Never Knows, Stay with Me, Garden of Delight, Like a Hurricane (sì, la cover di Neil Young), Let the Sleeping Dog Die, Serpent’s Kiss (delirio), Sacrilege, Wake, Blood Brothers, 1969 (altra cover di Young), Wishing Well, Wasteland (qui il delirio era finalmente palpabile, essendo il brano che apriva il loro primo LP), Gimme Shelter (cover dei Rolling Stones e cover della cover dei Sisters), Love Me to Death e Satisfaction (ancora Stones).
I Mission non riuscirono a essere soddisfatti e quindi se ne andarono, dopo appena un’ora di concerto, con la staticità conferita dall’alcol. Noi del pubblico avevamo appena cominciato a essere coinvolti dal mood che veniva dal palco, chi pogando chi seguendo a modo suo le sonorità comunque trascinanti del gruppo, e ci ritrovammo spiazzati, a corto di sfoghi per l’adrenalina che ci stava scorrendo dentro, quando realizzammo che tutto era già finito. Alcuni del pubblico andarono, poco dopo, al Uonna Club (storico locale underground di Roma, sulla via Cassia, anch’esso scomparso) a bruciare le energie al party che era stato organizzato in onore della band da Radio Rock, sapendo che prima o poi sarebbero giunti lì anche Hussey e compagni; che infatti arrivarono a notte fonda, recandosi però subito all’angolo bar.

Io preferii andarmene subito a casa, un po’ deluso e non proprio convinto della levatura artistica dei Mission: avevo, quanto meno, bisogno di dar loro una prova d’appello. Che diedi successivamente più volte: credo di averli visti almeno in altre due occasioni in quegli anni, e un’ultima al concerto di addio che fecero a Roma nel 2008, con il solo Hussey della formazione originale. Il 22 ottobre 2011 si è tenuto a Londra il gig del venticinquennale, in una situazione irripetibile perché i Mission si sono esibiti con la formazione originale assieme ai Fields of the Nephilim di Carl McCoy, l’unica vera band che ormai manca al mio archivio. Gothic di mezzo mondo, siete avvisati.

Il sito ufficiale della band è qui. Mentre questa è la relativa voce di Wikipedia.