La frontiera del futuro, all'orizzonte

di X, 23/04/2008

Il dibattito finale della Astracon, che ha suggellato la tre-giorni di Villasanta con i contributi d’eccellenza di ospiti del calibro di Giuseppe Lippi, Sergio “Alan D.” Altieri, Silvio Sosio, Paolo Attivissimo e Gabriele Rossi, mi ha offerto lo spunto per questa riflessione sul futuro dell’uomo, e su quello che verrà dopo. I presenti hanno avuto la rara opportunità di confrontarsi con gli stimoli di un tema così complesso e affascinante, nel corso di un confronto teso e vivace. I punti di vista emersi dalla discussione rappresentano uno spaccato quanto mai variegato degli approcci che è possibile tenere verso il domani, più o meno remoto, della nostra civiltà. Questo mio intervento si propone di tenere accesa l’attenzione di chi c’era e di riprendere con loro il dibattito, arrivando magari a coinvolgere quanti, per ragioni logistiche o altri impegni, non hanno potuto partecipare alla serata.

Una delle aspirazioni più antiche della storia dell’uomo, probabilmente antica quanto l’uomo stesso, radicata così a fondo nel nostro immaginario da avere ispirato miti e dottrine, è il sogno dell’immortalità o, quanto meno, il surrogato dell’estensione della vita. Sull’argomento ho già espresso il mio personale punto di vista, intriso di diffidenza (Vita eterna? No grazie). Nel mio piccolo, di un’estensione illimitata del tempo a mia disposizione ribadisco che non saprei che farmene: la prospettiva di un futuro senza termine mi inquieta e mi lascia disorientato, arrivando a sembrarmi uno spreco e nient’altro. Questo è senza dubbio un limite connaturato alla mia indole: la consapevolezza di potere procrastinare a piacimento quanto ci sarebbe da fare proietterebbe la condizione dell’ipotetico immortale che sarei in un’illusione assolutoria, incastrandomi nel pericolo dell’ignavia e dell’ozio morale, due possibilità terrorizzanti. Ma questo, ne convengo, è un problema circoscritto esclusivamente alla mia sfera personale.

Non vedo nulla di male, al contrario, negli sforzi di quanti si adoperano per portare questo futuro senza limiti alla portata dell’uomo, laddove ci sia un’accettazione condivisa di cosa si intenda per condizione umana. Giuseppe Lippi fa giustamente notare quanto labile e sfuggente risulti tale concetto: qualsiasi tentativo di definizione azzardato fino ad oggi è sempre naufragato di fronte alle molteplici sfaccettature di questa dimensione per sua natura tanto complessa. È altrettanto vero che, se la vita è di così difficile definizione, arrivare a capire cosa sia l’intelligenza (e, per estensione, la coscienza) rappresenta forse l’impresa più ambiziosa in cui l’umanità e la ricerca si siano mai imbarcate (specie, parafrasando Paolo Attivissimo, se consideriamo la scarsità della sostanza prima…). Il rischio in cui possiamo incorrere con il progresso, laddove lo slancio e l’ossessione finiscano per oscurare le nostre facoltà di discernimento, è concreto. Possiamo cercare di evitare i tranelli confidando nelle ricadute benefiche della condivisione della conoscenza, come suggerisce Silvio Sosio, ma immaginando di potere interfacciare in tempo reale la nostra mente con un bacino di informazioni confrontabile con una enciclopedia, le nostre doti intellettive ne risulterebbero accresciute o saremmo semplicemente avanzati di un ultimo, pericolosissimo passo verso uno scenario di controllo globale?

La materia in esame espone ai flussi e ai riflussi della marea cognitiva come tutti gli argomenti eticamente di rilievo. Sarebbe senz’altro straordinario assistere alla conquista di tutti gli obiettivi oggi promessi dalle “magnifiche sorti e progressive” del genere umano e, ancor più, di quelle meraviglie che oggi sono confinate in un dominio puramente ipotetico. Ma, purtroppo, non posso fare a meno di scoprirmi in pieno accordo con il pessimismo di Sergio Altieri: la storia e ancor più le contingenze del nostro tempo mi hanno addestrato a diffidare dal positivismo e dalla sua incarnazione più recente, maggiormente adatta ai ritmi accelerati del progresso, che proprio Altieri ha brillantemente condensato nella definizione di metapositivismo. Autoalimentato dalla sua stessa spinta intrinseca, catturato nell’instabile spirale di una retroazione positiva che già prelude ai possibili esiti della legge dei ritorni accelerati, il progresso rivela sempre più il proprio carattere di fenomeno caotico, o meglio complesso. E la complessità, come ben sa chi vi si è trovato alle prese nel dimensionamento di un circuito attivo o in verifiche di stabilità strutturale, riesce sempre trovare il modo di dimostrarsi ingovernabile.

In uno scenario come quello contemporaneo, di profonda frattura sociale e culturale, dove l’ombra lunga degli apparati militari e delle lobby incombe sulla sperequazione tra l’Occidente e il Sud del mondo, è difficile non sposare la visione nichilista di un maestro in anticipo sull’era dell’informazione di trent’anni come William S. Burroughs: di fronte all’improvviso attecchimento di una qualsiasi tecnologia transumanizzante (nanotecnologie, ingegneria genetica, intelligenza artificiale, interfacce neurali e così via), eserciti e governi che già oggi controllano le redini del sapere sarebbero i primi a cercare di avvantaggiarsene. In una logica improntata alla competizione e alla rivalità, come quella inculcataci dal turbocapitalismo che ha imposto la sua legge in questi nostri tempi moderni, non ci sarebbe da aspettarsi altro.

L’esito più naturale sarebbe allora l’apocalisse denunciata da Altieri. Le argomentazioni ci stanno tutte: la limitatezza delle risorse da rapportare con il crescente fabbisogno imposto dallo stile di vita (il quale intuitivamente si presume diventerà sempre più esigente a seguito di una eventuale transizione postumana), i pericoli della deriva e della frammentazione insiti nella divergenza tra l’eventuale elite dei privilegiati (con accesso libero o legale alle tecnologie e alle conoscenze) e le masse relegate ai margini dello sviluppo, le pulsioni radicate nella natura animalesca – fino a prova contraria inalienabile – della condizione umana. Sono tutti fattori e prospettive che giocano contro la possibile sopravvivenza dell’umanità a un cambiamento – socio-culturale e politico-economico – radicale come potrebbe essere l’ipotetica Singolarità o una qualsiasi manifestazione in tono minore della Convergenza Tecnologica verso la Cuspide.

Le masse relegate in posizione subalterna nel gioco di potere di entità quasi divine richiamano alla mente il futuro delineato da Roger Zelazny nel suo Signore della Luce: un mondo da incubo, in cui superuomini depositari delle antiche conquiste tecnologiche dell’uomo costringono i discendenti dei coloni di un remoto pianeta all’illusione della magia. Una estrapolazione perfettamente in linea con le premesse capitalistiche da cui la prospettiva occidentale muove per proiettare la propria indagine nel futuro. Ma proprio il Signore della Luce impone, di questi tempi, una riflessione critica sul ruolo dell’Occidente e sulla sua tenuta nei prossimi decenni. I giganti asiatici che cominciano a stagliarsi sul nostro orizzonte non sono fantasmi sbucati da un sogno, ma rappresentano le possibilità ancora prive di forma del domani. E se la Repubblica Popolare Cinese, malgrado i vertiginosi tassi di crescita e la solidità della sua struttura militare, è pur sempre irrigidita dalla prassi burocratica di un regime autoritario, l’India rappresenta un caso più unico che raro nell’evoluzione delle strutture sociali e politiche dell’umanità. La più grande democrazia del pianeta, capace di esprimere come presidente un fisico nucleare appartenente a una minoranza (etnica e religiosa) e di preservare intatta a distanza di millenni l’impalcatura delle caste che ne sorregge l’organizzazione sociale, a incarnare un paradosso che forse solo il cambio di paradigma che potrebbe accompagnarsi ai prossimi decenni ci aiuterà a risolvere. Pur con tutte le sue contraddizioni, ci troviamo davanti a “un esempio di pluralismo e tolleranza unico”, come lo definisce Federico Rampini nel saggio L’impero di Cindia. L’immobilismo geologico delle caste trova infatti il suo contraltare in una fluidità perfino magmatica dei ruoli e delle occasioni concesse a tutti i membri della società, da qualsiasi strato essi provengano: le facoltà indiane sfornano ogni anno 200mila nuovi ingegneri e 300mila tra fisici, matematici, biologi, informatici, numeri che messi in relazione con le cifre dell’Occidente illustrano meglio di qualunque trattato o romanzo di fantascienza quale sarà la lingua parlata dal futuro.

Già oggi l’India è uno dei gangli planetari dell’economia dell’informazione e di anno in anno guadagna nuove preziose percentuali a scapito dei suoi concorrenti diretti. I nuovi produttori di ricchezza cognitiva si accontentano di un tenore di vita che per i costumi occidentali vorrebbe significare sacrifici e atroci rinunce. Ed è impossibile reprimere l’ammirazione dinanzi al modello di sviluppo alternativo che, inconsapevolmente, rappresentano: un modello che potrebbe essere – se non adottato – almeno preso a campione per elaborare un’alternativa di progresso sostenibile, volto a soddisfare il bisogno di tutti attraverso il ridimensionamento delle pretese di pochi.

Ovviamente, questa mia ipotesi denuncia la sua miserabile matrice ideologica, che si nutre di anarchismo e makhnovismo, che guarda all’autosussistenza come a un traguardo inevitabile nella transizione verso il glocalismo del futuro. Me ne rendo conto, il mio personale punto di vista tradisce la natura prettamente tautologica delle basi di questo ragionamento. Ma se varrà la pena di vivere un futuro, in un mondo che secondo la tendenza attuale del progresso avrà delle forti connotazioni postumane, questo futuro dovrà necessariamente essere fondato su premesse estranee alle logiche politico-economiche che oggi ci sembrano prevalere. Dovrà essere un futuro di occasioni e di scelte per tutti. O altrimenti nessuno avrà speranza di sottrarsi al vicolo cieco evolutivo della specie quando, lungi dal futuro di impalpabile incorporeità sognato dal compianto Arthur C. Clarke, donerà i suoi sogni di trascendenza alla custodia della pietra minerale.

Esseri umani e postumani, uniti insieme dalla mancanza di redenzione di un comune destino. Come trilobiti nel letto di un fiume in secca.

Immagine di John Picacio.

next-station.org 2006 - Tutti i contenuti, ove non diversamente specificato, sono di proprietà dei rispettivi autori.