New Thing: le radici del Movimento

di X, 02/08/2008

L'esordio da solista di Wu Ming 1 (2004) ci trascina in una straordinaria discesa nei sotterranei della storia del Novecento, per le strade di New York, nei giorni in cui tutto sembrava sul punto di cambiare.

Stokely Carmichael (Kwame Ture) e il ’66: la «Marcia contro la paura», da Memphis (Tennessee) a Jackson (Mississippi), 200 miglia di pacifici militanti neri che mordevano il freno sotto l’occhio vigile dei Deacons for Defense and Justice, le armi ben visibili; il Black Power, l’autodeterminazione, la riscoperta dell’Africa e del significato di comunità insito nell’essere neri. Il Black Panther Party e Malcolm X, i «Community Survival Programs» le manovre del Cointelpro finalizzate a infiltrare il movimento, destabilizzarlo e minarne la credibilità davanti all’opinione pubblica. E poi Brooklyn: Crown Heights e Bedford-Stuyvesant, le gare di signifying e dozens in cui i giovani di colore mettevano alla prova la propria abilità verbale e la propria fantasia; il Prospect Park, con la sua comunità aliena di lemuri telepatici; il Green-Wood Cemetery, dove “certi alberi avevano un nome”. E la musica: il jazz, anzi, il free jazz, gli ultimi colpi di coda della New Thing esplosa verso la fine degli anni Cinquanta e ancora osteggiata da nostalgici e conservatori.

Sembrava una rissa tra cani, anzi, gli istanti che precedono una rissa tra cani, li senti da dietro l’angolo e t’immagini la scena, i padroni che tirano i guinzagli e chiamano i cani, e questi due che azzannano l’aria, cercano di avventarsi l’uno sull’altro, strattonano, ringhiano, latrano, sbavano, e le voci dei padroni che ordinano di smetterla, fanno lavorare i bicipiti, parlano ai cani manco fossero cristiani ma in fondo non ci credono, recitano, la verità è che sono fieri della forza e dei coglioni delle loro bestie, ridono sotto i baffi…

E nei racconti ora lucidi, ora digressivi, ora sconclusionati dei superstiti di quell’epoca riviviamo l’atmosfera dei club e delle strade, il sentimento che strisciava sottoterra e come un cavo elettrico sembrava raccogliere e condurre la forza di chi, da spettatore, da comprimario o da primo attore, partecipava al Movimento.

Era il ’57. Le serate più belle della mia vita. Quell’anno tenevo il mondo appeso a un filo, come dice la canzone, e stavo seduto su un arcobaleno. […] Cominciava il «disgelo», dopo anni di musica liscia, liscia da sciacquarsi le palle. Io venivo dal Sud, cresciuto a cori di chiesa e Rhythm & Blues, mi piacevano quei sassofonisti vestiti di rosso che partivano con l’assolo, si chinavano all’indietro che quasi si sdraiavano e facevano muggire lo strumento, muuuuuuuu, lo facevano ragliare, braaaaaaaa, anche tre o quattro battute di fila, un suono lungo e rauco e denso che lo sentivi nel basso ventre. Lo honking. Figurarsi se potevo digerirlo, il cool.
[…] Dopo il cool vennero i nuovi boppers, quelli «duri», e loro non avevano problemi, lo facevano lo honking, anche Trane, che il Rhythm & Blues l’aveva suonato. I muggiti di Trane spazzarono via il jazz fighetto della West Coast, gente come Stan Getz, Shorty Rogers… Per me quello è il suono della Creazione. È primordiale. Se Dio c’è, me lo figuro come uno honker vecchia maniera, tipo Bull Moose Jackson, Eddie Chamblee, Jim Conley, Wild Bill Moore… Ne sono certo, ha un completo bianco splendente e suona un sax tenore.

E questo è solo un assaggio. Wu Ming 1, al secolo Roberto Bui, ci conduce in un viaggio nel tempo e nello spazio a ritrovare lo spirito di un’epoca perduta, forse per sempre, e a riscoprire l’essenza di un luogo che non esiste più, quando Manhattan era il ventre del mondo e il Five Spot il suo ombelico. Ondate di rinnovamento si irradiavano da New York su un tappeto di note e tutto sembrava sul punto di cambiare. Magari davvero.
New Thing è la storia (le storie, viste con gli occhi di chi c’era) di quei giorni, sospesa tra slancio epico e rimpianto: un romanzo in forma di inchiesta, che raccoglie le testimonianze di un variegato spaccato dell’avanguardia musicale di quegli anni e del microcosmo urbano che vi orbitava attorno. Nemmeno un romanzo bensì, come lo definisce Wu Ming 1, un oggetto narrativo poiché “la definizione di romanzo gli sta troppo stretta o, chissà, forse troppo larga. È a tratti la simulazione di un lavoro di giornalismo, un documentario su carta, solo che anche questa definizione non regge dato che eventi veri e immaginari vengono raccontati da personaggi che ho inventato io” (cfr. intervista a Intercom).

Primavera ‘67. Un anno prima del fantomatico Sessantotto, nubi oscure si addensano all’orizzonte. Qualcosa nella magia s’infrange e le schegge sono destinate ad affondare nelle nostre carni, lasciando un segno più profondo e duraturo delle cicatrici. E siamo già intrappolati nel meccanismo narrativo mitopoietico, ovvero generatore di miti. O forse no, perché da sempre i miti racchiudono un nucleo di meditazione su una condizione storica o uno slancio che si sforza di trascendere il contesto dell’epoca, anelando a una prospettiva universale.
Nell’America percorsa dall’agitazione desegregazionista e dalla protesta contro la guerra in Vietnam, le morti improvvise di alcuni musicisti dell’avanguardia jazz alimentano la leggenda di un assassino ectoplasmico, un incubo forse partorito dalla cattiva coscienza di qualcuno o forse congegnato dalle manovre occulte dell’establishment. Ma il bogeyman che imperversa nelle notti di New York non può essere l’«uomo nero» che nella nostra cultura minaccia i bambini che non vogliono addentrarsi nelle spire di Morfeo, oltre la soglia del sonno. Questo babau i neri li divora, divora i loro sogni di emancipazione, le loro istanze di riscatto, colpendo le personalità che con il loro lavoro stanno “compromettendo” il predominio culturale dell’uomo bianco: il Figlio di Whiteman viene così “plasmato dai brutti sogni e dalle dicerie di una comunità sotto assedio” (continuando a usare le parole dell’autore nell’intervista citata). La sua azione non risparmia nessuno, anche chi non è colpito direttamente dalle sue armi: New York è il fronte di una battaglia epocale, uno scontro sotterraneo che lascerà solo ceneri, propizie però per una rinascita.
Sonia Langmut percorre le strade della New Thing, incrocia il percorso del Figlio di Whiteman, e a ogni passo registra confessioni e jam session sul suo registratore portatile. Anni dopo, in uno scenario geopolitico stravolto ma in fondo sempre uguale, in una New York ancora lacerata dall’eco dell’11 settembre, qualcun altro (l’autore, il lettore) ripercorrerà il suo stesso sentiero alla ri-scoperta della verità. Le numerose voci da cui apprendiamo la storia di quei giorni e di quelle notte spiccano sulla pagina: ciascuna espressione perfettamente credibile di una individualità unica eppure coinvolta nel Movimento, esito perfettamente riuscito di un lavoro meticoloso che non a caso ha tenuto l’autore impegnato per quasi tre anni. Ricreano l’atmosfera e ci restituiscono sfumature, odori, rumori e musica di quel ’67 eclissato. Pezzi orali di una storia condivisa, trascinano il lettore in una regressione temporale inesorabile. Alla fine, è impossibile resistere alle suggestioni evocate da Wu Ming 1, desta perfino stupore che a riuscirci non siano note ma parole, e nemmeno le parole di un racconto carpito nell’atmosfera fumosa di un club ma la parola scritta, incisa sulla pagina, che dovrebbe essere immobile e invece suggerisce riga dopo riga, pagina dopo pagina, il senso di un movimento inarrestabile.

Nella regressione, arriviamo a vivere i pensieri stessi della leggenda che in quei giorni si andava spegnendo: il grande John Coltrane, che con la sua dedizione assoluta, spirituale, alla musica, fu il protagonista delle ondate di rivoluzione che si susseguirono in seno all’ambiente jazz a partire dagli anni Cinquanta.

Bomba atomica esplosa non ricordi quando. Fall-out: dolore dappertutto, non sai dove è cominciato, non sai dove finirà.

La stazione è ancora lontana ma c’è tempo, tempo, tanto che non sai che fartene. […]

Bomba scoppiata non ricordi quando. Meno di un anno fa, più di vent’anni prima, più o meno la notte dei tempi.
In tour: Hiroshima e Nagasaki, luglio ’66.
Pensavo: diversi modi di morire. Andarsene una cellula alla volta è come essere in due posti. È un travaso.
Invece, cancellati dalla faccia della Terra, pelle che si stacca e prende il volo, corpo che si disfa. Corpo che smette di essere te. Se mai lo è stato.
[…]
C’è ancora tanto da suonare, da dire. Ma sto perdendo il treno. Ho atteso l’ultimo momento prima di andare alla stazione. E tutto il tuo amore è invano.
[…]
Non so come riempire le ore che rimangono. Mi sfuggono dal pugno. Esercitarsi non ha più senso. L’ho fatto otto, dieci ore al giorno, fin da quand’ero ragazzino.
Alice. John jr. Ravi. Oran.
Non voglio vedervi scivolare tra le dita.

La voce di Coltrane, nume tutelare di New Thing, è l’unica a non essere registrata sul Butoba MT5 di Sonia Langmut ed è questo, a compendio del suo lungo percorso interiore, a renderlo “l’uomo dei fantasmi”. Forse Coltrane è solo musica, la sua essenza, e il suo spirito vitale è un ordito di linee di penetrazione psichica e assolo di sax. Magari è per questo che il lettore riesce a “viverne” gli ultimi pensieri, le ultime riflessioni.

Ben poco tempo fa, l’elettricità di queste notti l’inseguivo sul tapis roulant, trasformando in accordo ogni sinapsi della città.
Ben poco tempo fa, mi orientavo a New York contando i fuochi fatui, la città era passato e futuro, il suono evocava gli spettri e li faceva muovere, serpenti incantati usciti da una cesta.
Ora il futuro s’inarca sul passato, la notte è attesa dell’alba, la vita è attesa di morte.

Parole che colpiscono per la loro lucidità analitica, metanarrativa. Come nel ricordo di Trane, il futuro s’inarca sul passato anche nell’oggetto narrativo di Wu Ming 1, che descrive le agitazioni e i tumulti di una stagione epica ma che in fondo ci parla del presente, magari attraverso le ripercussioni che la stagione del BPP e del Black Power ha avuto sul nostro immaginario, sulla maturazione delle nostre coscienze, sul movimento rigeneratosi altrove, ovunque abbia finito per spostarsi il Fronte. Ed è un lavoro che solo un italiano – per i privilegi insiti nella nostra lingua – avrebbe potuto scrivere, cogliendo nella loro pienezza sfumature e ambiguità della lingua inglese e ricamandoci attorno vere e proprie storie nella storia.

Letto oggi, dopo la folgorante presa di coscienza del New Italian Epic per opera dello stesso Wu Ming 1 e a seguito del lungo dibattito critico che ne è seguito, New Thing riluce ancora più accecante. Se non possiamo parlare di ruolo premonitore in quanto, per ammissione dello stesso autore, il New Italian Epic è una sensibilità sulla scena già da un decennio al momento dell’uscita del libro, è lecito tuttavia riconoscere la legittima appartenenza di New Thing a quella sensibilità: la contaminazione (inchiesta, noir, ricostruzione storica, interludi fantastici, divagazioni nell’assurdo), il punto di vista (lo “sguardo obliquo”, che qui è frammentato, esploso e mediato dalle registrazioni delle testimonianze raccolte dai reporter che si succedono nell’inchiesta), la convivenza di ambizioni letterarie e cultura pop, la rilettura di un momento storico cruciale, lo stile sovversivo e lo scrupoloso lavoro sulla lingua (ritmata, con molteplici concessioni allo slang, al parlato della strada, e l’autore ha confessato di avere originariamente concepito in inglese – afroamericano – ogni frase del libro), sono tutte caratteristiche che New Thing ha in comune con il profilo del New Italian Epic.
Se da un lato la riflessione critica getta una nuova luce sulla lettura, dall’altro non ne penalizza affatto l’assimilazione da parte del lettore interessato al puro e semplice contenuto del libro. Che poi è una storia che trascende i suoi confini temporali e, risalendo il canale radio attraverso cui l’America ha colonizzato la nostra cultura, suggerisce senza timore di ardire nuove chiavi di lettura per i tempi che corrono.

New Thing può essere scaricato gratuitamente dal sito di Wu Ming, consultato sulle pagine di Google Libri o acquistato in libreria in edizione Einaudi.

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