The Mist e l'odierno bisogno di orrore

di X, 29/10/2008

L’ultimo appuntamento cinematografico dell’anno con la Fine del Mondo fornisce il pretesto per tracciare un punto della Situazione.

C’è bisogno di orrore, negli ultimi tempi. Di questi tempi, abbiamo un disperato bisogno di essere terrorizzati. Non si spiegherebbe altrimenti la comune reazione di fronte a lavori come Cloverfield, di cui abbiamo già parlato e che segna una pietra miliare nel percorso culturale di metabolizzazione dei tempi ultramoderni, o del kinghiano The Mist, portato sullo schermo da un Frank Darabont forse un po’ sottotono, finalmente approdato in Italia a quasi un anno dalla release americana. La sostanza dei commenti, come dimostrano le recensioni di Andrea Bonazzi ed Elvezio Sciallis, si equivale.

Dopo aver celebrato l’esaltante precisione dei meccanismi narrativi di Stephen King ne Le ali della libertà (1994) e Il miglio verde (1999) e dopo il mezzo buco nell’acqua di The Majestic con Jim Carrey (costato ben 72 milioni di dollari, alla prova dei botteghini non è riuscito nemmeno a ripagarsi), The Mist segna il ritorno dell’autore al grande schermo. Con un budget di soli 18 milioni di dollari e un copione da lui stesso ricavato sulla base dell’omonima novella di King (1980, rieditato nel 1985 e incluso nella raccolta Scheletri), Darabont si sforza di accompagnare lo spettatore attraverso un tempo e mezzo di assedio che combina il non-luogo per eccellenza del nostro immaginario postmoderno (l’ipermercato di George Romero) con le più viscerali paure innestate nel nostro inconscio da quasi un secolo di orrore cosmico (anche stavolta, il riferimento fondamentale è dato dagli ibridi interdimensionali di H.P. Lovecraft). Il risultato non è purtroppo univoco. Penalizzato da alcune cadute di tono della sceneggiatura e da una direzione attoriale non sempre impeccabile, il film trova però il suo riscatto nella mezzora finale.

Passata una violenta tempesta, un paesino in riva al mare si ritrova invaso da una strana nebbia. Il fenomeno, già di per sé storicamente inconsueto, non tarda a rivelare i risvolti più inquietanti, cominciando a mietere le prime vittime. Strane presenze si muovono nella bruma: la comunità eterogenea che si trovava nel locale supermarket al momento della calata della nebbia si ritrova presto assediata, costretta a fare i conti con l’orrore più crudo. Da questa parte e dall’altra delle sue mura.

L’orrore portato dalla nebbia è del tipo più classico: orrore metafisico, contro cui sembra impossibile lottare. Ben presto il focus si sposta quindi sull’interno, con ciò che accade nelle persone e nelle dinamiche sociali della comunità sotto assedio. E qui il film rischia più volte di impantanarsi, degenerando in momenti che rasentano la banalità didascalica, vanificando le ottime premesse. A un certo punto la stasi è tale per cui sembrerebbe che non ci sia più niente da aspettarsi dal film, avviata sui confortevoli binari di un B-movie come mille altri. Che poi è quello che purtroppo accade in una delle grandi occasioni mancate della corrente stagione cinematografica: 30 giorni di buio, adattamento per il cinema della graphic novel di Steve Niles e Ben Templesmith, a firma di David Slade. Ma Darabont conosce il fatto suo e si riserva le cartucce migliori per il finale.

La svolta coincide con il ritrovamento di due militari impiccati. Più che il senso di colpa, è praticamente certo che a spingerli sia stata la disperazione, la certezza dell’impossibilità di arginare l’orrore dilagante, la constatazione che nel nuovo ordine delle cose emerso dalla nebbia l’uomo occuperà l’ultimo anello della catena alimentare, come il plancton in quella che noi tutti conosciamo. Il terzo, l’unico sopravvissuto, diventa subito oggetto di ben poco amichevoli attenzioni. La massa lo costringe a confessare l’inconfessabile. Voci, indiscrezioni, niente di ufficiale. Si dice che… nella base segreta tra le montagne fosse in corso un esperimento top secret. Nome in codice: Arrowhead. L’intento: aprire una finestra su altre dimensioni, gettare uno sguardo oltre la soglia di un altro mondo. Il rischio: spalancare le porte dell’inferno, cosa che sembrerebbe essere successa davvero. Nella cattività della situazione la colpa, come un peccato originale, si estende a chiunque vesta una divisa. Inutile attendersi barlumi di pietà. A partire dal sacrificio rituale che lenisce temporaneamente l’irrazionale della tribù, alimentato dai sermoni millenaristi della fanatica predicatrice, è un crescendo che trova degna conclusione in un epilogo drammatico, magari un po’ facile ma definitivo e, in questo, a suo modo efficace.

E forse è dal confronto diretto con quanto visto e sentito in precedenza che, proprio grazie alle serrate battute conclusive, The Mist scopre una sua dimensione capace di giustificarne la visione. Le creature che prima sono state mostrate con generosità (dalle plastiche mostruosità tentacolari in CGI agli insetti-giganti che sembrano evocati dall’Isola del Teschio del King Kong jacksoniano) si fanno progressivamente più sfuggenti, al punto che dopo un’ulteriore mattanza del gruppo di fuggiaschi le ultime vittime non saranno destinate alle loro tremende fauci. In parallelo, le battute si spogliano della retorica che impazza per tre quarti di pellicola, paradossalmente proprio nel momento in cui lo scontro tra volontà raziocinante e irrazionalità oscurantista si fa più elementare e schematico (con il tentativo di spiccare il salto di qualità dal sacrificio del presunto connivente a quello dell’innocente del tutto estraneo ai fatti), ed evolvono verso limiti sempre più rarefatti (di fronte all’inesplicabilità degli eventi, la parola si scopre merce sopravvalutata). La recitazione, dapprima incerta tra i toni più gravi della retorica spiccia e alcuni momenti di alleggerimento e disimpegno, si assesta su una chiave di pessimismo senza possibilità di redenzione, e lo spettatore matura la certezza che da questo punto in avanti, superato il limite di non ritorno, le cose potranno andare solo peggio.

Gli ultimi disperati sopravvissuti alle mandibole degli invasori e alla regressione fondamentalista verso i fumi di una religiosità d’emergenza decidono di tentare una via di fuga: tra gli orrori invisibili che si nascondono nella nebbia all’esterno del supermercato assediato e le folli tragedie che si consumano tra queste mura, capiscono che non corre più molta differenza. La sopravvivenza esige la sconfitta di entrambi: una prospettiva in cui nessuno crede davvero, ma morire nel tentativo si profila ormai come la sola alternativa all’immolazione volontaria. Mentre le lugubri note dei Dead Can Dance (The Host of Seraphim) accompagnano questo tentativo estremo di rimettersi in pista (nel senso più letterale dell’on the road), a passo di lumaca attraverso un paesaggio ignoto di cui si intravedono solo rovine e rottami, il film tocca il suo culmine. La scoperta della casa devastata del protagonista, con il cadavere della moglie esposto in bella mostra secondo l’uso delle creature che già fu degli xenomorfi di James Cameron (Aliens, dal 1986 inimitabile pietra di paragone per qualsiasi branco alieno chiamato ad invadere il grande schermo), prelude all’arrivo della scena madre. L’eternità in un battito di ciglia, perché si tratta davvero di una manciata di secondi, ma talmente intensi nell’evocare un terrore atavico da restare per sempre codificati nei nostri incubi più atroci.

Si trattiene il fiato. Della gigantesca creatura avvertiamo dapprima i passi, poi i barriti, rumori disumani che si perdono in lontananza nella nebbia. Una schiarita improvvisa ne rivela infine le dimensioni: un ciclope brulicante di tentacoli che torreggia come un colosso di Goya. Pochi passi e il mostro svanisce, riassorbito nella nebbia che lo ha partorito. È la ricomposizione della frattura con la realtà, una realtà che mostra definitivamente la pienezza del suo nuovo volto: la fine delle certezze, un requiem per le possibilità di dominio dell’uomo.

Sorvoliamo sul colpo di scena conclusivo, perché non mi sembra poi così decisivo. Può essere tanto posticcio (imposto dalla produzione, nella persona dei fratelli Weinstein) quanto parto intenzionale del regista-sceneggiatore, ma può essere inteso sotto una molteplicità di angolazioni, quindi inutile soffermarsi sulle ambiguità di prospettiva che ogni spettatore avrà modo di interpretare a seconda della propria attitudine al pessimismo. Rimane tuttavia la sensazione che tutto il film viva in funzione del finale. Come dicevamo, Darabont tiene da parte le cartucce migliori per l’ultima mezzora e quando si decide a sparare è un tripudio di fuochi d’artificio. Ma purtroppo non è abbastanza per cancellare tutta la scialba prima parte.

Il primo accostamento che viene spontaneo nel corso della visione è con il già menzionato Cloverfield. I due film sono usciti a distanza di un paio di mesi l’uno dall’altro, prodotti con budget dello stesso ordine di grandezza e improntati a un approccio al terrore molto simile tra loro. L’ombra di Lovecraft aleggia su entrambe e, malgrado tutte le differenze (qui abbiamo un autore dietro la macchina da presa, la creatura di J.J. Abrams si riscattava tuttavia per l’efficacia naturale degli attori), tanto Cloverfield quanto The Mist appaiono celebrare la medesima concezione dell’orrore. Diversificandosi categoricamente, in questo, da un’altra grande delusione stagionale come il Night Shyamalan dello sconclusionato e ridicolo E venne il giorno (The Happening, 2008). Il Solitario di Providence cavalca la cresta dello tsunami dell’inquietudine postmoderna? La familiarità delle suggestioni, la matrice degli incubi, impone una riflessione in questo senso. Forse il cinema sta riscoprendo con i suoi prodotti di genere la funzione catartica che già fu del teatro antico. Forse siamo solo noi ad aver bisogno di orrore cosmico, qualcosa che sappia annientare – almeno nello spazio di una proiezione – le prospettive cupe del quotidiano.

The Mist, 127 minuti, USA 2007, Scritto e diretto da Frank Darabont - Tratto dal racconto omonimo di Stephen King - Produzione: Darkwoods Productions, Dimension Films

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