Uomini di paglia: l’incubo postmoderno di Michael Marshall (Smith)

di Giovanni De Matteo, 21/12/2009

La visione di un'umanità senza scampo affonda salde radici nell'immaginario di fantascienza, in questo romanzo dello scrittore inglese Michael Marshall che dà inizio alla trilogia dedicata agli Straw Men.

Per un lungo periodo Michael Marshall Smith è stato il più “dickiano” tra gli autori emersi dalla fantascienza degli anni ’90, volendo riferire questo ingombrante attributo a una letteratura di stati paranoici, caratterizzata dall’intromissione di forze all’apparenza metafisiche sul piano della realtà fenomenica, a esercitare un’influenza oscura sulle vite dei protagonisti prima di risolversi in cause immanenti, benché sempre sfumate in una matrice torbida. La cosa è durata almeno finché l’autore britannico ha continuato a dedicarsi al genere, prima di cedere al richiamo del thriller e dei territori del cospirazionismo. I due romanzi più agevolmente riconducibili al genere pubblicati in Italia, Ricambi (Spares, 1996) e Uno di noi (One of Us, 1998), entrambi per i tipi di Garzanti, avvalorano questa sensazione. In essi Marshall Smith pone al centro dell’attenzione le questioni etiche, la sfera morale di individui coinvolti in dinamiche conflittuali e appunto i risvolti occulti di molte situazioni, chiaro indizio del suo debole per il sovrannaturale, oltre che per l’ignoto.
Negli ultimi anni Marshall Smith ha rinunciato al secondo cognome, con una tattica editoriale che si rifà a casi illustri come lo scozzese Iain [M.] Banks (che a differenza da Smith, continua ad alternare le due firme muovendosi tra la fantascienza e il mainstream), e ha sintonizzato la sua produzione su storie che si distanziano mano a mano da un immaginario di marca esclusivamente fantascientifica, a partire dal nero d’azione della trilogia iniziata con Uomini di paglia (The Straw Men, 2002). Ed è su questo titolo che vogliamo concentrarci, provando come gli elementi più peculiari del romanzo affondino le radici proprio in un background di ascendenza fantascientifica, riconducibile all’opera di Philip K. Dick e del suo erede dichiarato K.W. Jeter.

Do Humans Dream of Natural Sheep?
Uomini di paglia porta in scena una doppia indagine, che scava nel passato personale di Ward Hopkins e nei risvolti oscuri di un caso anomalo di omicidi seriali, seguito tempo addietro dallo specialista dell’FBI John Zandt. Dalla convergenza delle loro rispettive ricerche emergerà un quadro inquietante tanto per la storia privata di Hopkins, tanto per quel che concerne l’evoluzione della specie umana e delle sue basi sociali.
Nella folgorante intuizione di Dick, l’empatia è il tratto distintivo della condizione umana. I replicanti della serie Nexus-6 (nell’accezione invalsa nel nostro immaginario collettivo grazie a Blade Runner, sebbene il testo originale di Do Androids Dream of Electric Sheep? parlasse nel 1968 appunto di androidi, o al massimo di “robot umanoidi”) sono superiori agli umani in termini di intelligenza e di forza fisica. “In altre parole, gli androidi forniti di una unità cerebrale Nexus-6, secondo un punto di vista sia pure semplicistico, pragmatico, si erano evoluti oltre una rilevante […] porzione di umanità” (Cacciatore di androidi, Editrice Nord, ed. 1986/95, trad. Maria Teresa Guasta) e per individuarne l’effettiva natura artificiale si ricorre alla Scala dell’Empatia e al dispositivo Voigt/Kampff (reso celebre nell’originale visualizzazione concepita da Syd Mead per il capolavoro di Ridley Scott).

[Rick Deckard] si era sempre chiesto, e con lui se lo chiedeva molta altra gente, come mai un androide si trovasse senza difese davanti a un test per la misurazione dell’empatia. Evidentemente, l’empatia poteva esistere soltanto all’interno della comunità umana, mentre si poteva individuare l’intelligenza, almeno fino a un certo livello, in ogni ordine e phylum tra gli animali, inclusi gli aracnidi. Per prima cosa, la facoltà dell’empatia richiedeva probabilmente un istinto di gruppo, un organismo solitario come un ragno non avrebbe saputo che farsene. Infatti, esso avrebbe minato le capacità di sopravvivenza del ragno. Lo avrebbe reso cosciente del disperato desiderio di vivere della sua vittima. E come tutti i predatori, anche i mammiferi più sviluppati come i gatti, sarebbero morti di fame.
L’empatia, egli aveva concluso una volta, doveva essere limitata agli erbivori, o comunque agli onnivori, in grado di staccarsi da una dieta a base di carne. Perché, in ultima analisi, la facoltà dell’empatia confonde i confini tra cacciatore e vittima, tra il vincitore e lo sconfitto.
[ed. cit. pag. 30-31]

In Blade Runner 2 (Blade Runner 2: The Edge of Human, 1995), non il migliore dei tre seguiti da lui firmati per il fortunato e strettamente controllato franchising, K.W. Jeter aggiunge un ulteriore gradino alla scala della speculazione, introducendo l’idea della Curva di Wambaugh, “l’indice del disgusto di sé” (dall’ed. Sonzogno del 1999, tr. Sergio Mancini). “I cacciatori di replicanti lo raggiungono più malridotti, e più in fretta, degli altri poliziotti. Viene a furia di stare sul campo. […] Alla fine la Curva diventa ripida quanto basta e uno cade”. Ed è quello che capita al personaggio di Deckard, che nelle mani di Jeter diventa un personaggio decisamente più instabile di quanto già non fosse nella tormentata caratterizzazione di Philip K. Dick.
Michael Marshall ci offre il suo personale punto di vista sulla faccenda, portando in scena gli “Uomini di paglia” del titolo: individui legati a una misteriosa organizzazione, il cui potere pare sconfinato e la cui penetrazione si rivela ben presto interstiziale. La loro presenza è sfuggente e il modo raffinato in cui l’autore li introduce nel romanzo – attraverso un vecchio filmato casalingo, fitto di situazioni enigmatiche al limite dell’angosciante, un mood presto ribadito dal rapimento di una ragazzina a opera di un presunto serial killer – fa sì che i toni cupi si estendano sulla storia fin dalle prime pagine, per rivelarsi nel corso della lettura sempre più sinistri.
I due protagonisti, Ward Hopkins e John Zandt, scavano per ragioni diverse nei meandri delle loro storie personali, portando alla luce gli elementi di un credo sospeso tra ideologia e religione, fondato su basi tanto spietate quanto perverse e propagandato da uno psicopatico che si fa chiamare Homo Erectus. La guida dei seguaci è il “Manifesto dell’Uomo”, pubblicato su un sito web fantasma e unica traccia dei piani dell’organizzazione: un programma di emancipazione della Specie dalla corruzione (il Virus, la Malattia del comportamento sociale) che sarebbe stata propagata nel mondo ventimila anni fa dalle migrazioni dell’Homo Sapiens. Il motto con cui si conclude il documento ha la forza di un proclama: Noi ci ergiamo.
Ward Hopkins e John Zandt arrivano alla verità seguendo percorsi tortuosi, perché tortuoso è il modo di agire di questi “uomini nuovi”, in realtà emersi nuovamente dall’abisso del passato. Lo dimostra la stagione di paura del Ragazzo delle consegne, che tenne in scacco la polizia di Los Angeles e i federali tra il 1998 e il 1999, mentre Zandt era ancora in servizio. L’assassino era stato così battezzato per la sua consuetudine di recapitare ai familiari delle sue vittime (tutte ragazze giovani, di bell’aspetto e intelligenza superiore alla media) un maglioncino ricamato con il loro nome, confezionato con dei capelli; la sua azione mascherava in realtà l’identità di un nuovo profilo di assassino seriale, un omicida che segna il balzo evolutivo verso un nuovo ordine di atrocità, rifacendosi alle pratiche primitive dei cacciatori-raccoglitori: l’Homo Erectus, appunto. E Zandt, che per mano sua perse la sua unica figlia, era stato il primo a capirlo, pur non avendo potuto niente per fermare la scia di sangue.
In una stagione (letteraria e televisiva) come questa, dominata dal revisionismo sulla figura del serial killer, a un artigiano come Michael Marshall va riconosciuto il merito di avere esplorato un personalissimo sentiero verso le radici antropologiche del fenomeno.

Incubi dalla notte del tempo
L’Homo Erectus è la figura impenetrabile su cui vertono i due filoni narrativi che s’intrecciano nella storia di Michael Marshall. Uno psicopatico divorato dal sogno di ricreare una società immune alla debolezza della misericordia e votata a valori primordiali, gli stessi (come apprendiamo nel corso di una delle digressioni più appassionanti del romanzo) che alcuni studiosi avevano creduto di rinvenire in una comunità vissuta diecimila anni fa, forse una delle ultime a soccombere al dilagare dell’Homo Sapiens nell’Europa Centrale, battezzata “Società di Mittel-Baxter”.
I presupposti di questa comunità preistorica sono semplici al punto da rasentare l’essenziale: l’unico legame sociale è dato dal sangue; chiunque non appartenga al clan è un nemico o una potenziale vittima. Appropriatosi di queste premesse, l’Homo Erectus si è limitato a modulare su di esse il proprio comportamento. Le comunità da lui fondate, ascetiche e nazisteggianti nel loro odore di suprematismo, rappresentano le basi del ritorno a quell’ordine elementare e antico: calamitano top manager e imprenditori di successo ansiosi di esiliarsi da un’umanità che non ritengono all’altezza delle loro qualità, e si prestano a coprire le attività sotterranee dei fiancheggiatori dell’Homo Erectus, prima ancora forse di trasformarsi essi stessi in Uomini di paglia. Qualcosa che in profondità si dimostra ancora più sinistro e terribile di quanto non appaia dall’esterno.
Come scoprono i due investigatori, oltre la superficie dell’immaginabile si estende un mondo fatto di oscurità e di orrore, di fredda individualità e indifferenza al prossimo, in cui tutto ciò che conta è l’appagamento dei propri bisogni privati – siano essi di sofferenza, di piacere, semplicemente di morte, o di tutte queste cose messe assieme.
L’Homo Erectus arriva così a rappresentare la nuova frontiera della disumanizzazione, figlio del processo di progressivo allontanamento dalle basi sociali della civiltà che già Dick e Jeter avevano cominciato a delineare. L’effetto più inquietante nasce dalla constatazione che, a differenza dei cacciatori di androidi costretti a confrontarsi con una realtà artificiale, con gli Uomini di paglia ci ritroviamo a guardare il de-potenziamento dell’umanità da una prospettiva opposta. In Blade Runner, dopotutto, è una realtà sempre più snaturata, attraverso un’opera di rimozione e sostituzione dell’originale, a privare gli uomini stessi delle loro prerogative umane, asportandone le qualità ereditate dalla specie fino alla dissoluzione dell’istinto dell’empatia. La de-umanizzazione dell’Homo Erectus nasce invece per reazione al mondo, alla società e alla civiltà, e non è il semplice prodotto passivo di inediti fattori ambientali. Questo processo per Marshall assume i connotati di una “regressione”, come dimostra l’allontanamento dalle metropoli – luogo della modernità – e lo svolgimento della trama in larga parte tra le montagne e le vallate del Montana, luoghi selvaggi e primitivi.

Panorama di frontiere interne
In un romanzo incentrato sul rapporto dell’uomo con la modernità, l’ambientazione gioca senz’altro un ruolo preminente. L’autore ci trascina dalla periferia di Philadelphia ai suburbi di Los Angeles, passando per i panorami incontaminati del New England. Ma la tappa finale del viaggio, nonché luogo chiave nello svolgimento degli eventi, è una cittadina fittizia del Montana: Dyersburg, stretta parente della Missoula che rivive nei romanzi di James Crumley e nella filmografia di David Lynch, sospesa tra il granito delle Montagne Rocciose e la desolazione delle badlands, quintessenza della provincia selvaggia e degli orrori che si celano sotto la sua superficie di apparente tranquillità.
La scelta è sicuramente suggestiva e non proprio scontata per un autore inglese, per quanto abbia trascorso gli anni dell’infanzia in America (tra l’Illinois e la Florida). Per altro, un richiamo analogo agli angoli più remoti e meno popolari degli Stati Uniti si aveva già in Ricambi, con una memorabile ambientazione nella Richmond del futuro: una città del tutto cambiata dalla storica capitale della Virginia, snaturata e trasfigurata in chiave post-apocalittica in un megacentro commerciale. Uomini di paglia ci trasporta adesso nel cuore profondo del continente, la sua frontiera interna. E come spesso accade, è sulle frontiere che viene fuori il meglio e il peggio dell’animo umano.
Tra queste montagne, come già avevano imparato i suoi genitori prima di lui, anche Ward Hopkins apprende “la dura lezione che quando si tratta della lotta tra persone che credono nella vita e altre che credono nella morte, la battaglia deve essere combattuta secondo le regole di queste ultime” (pag. 374). La resa dei conti con l’Homo Erectus, che nel finale assurge alla statura di nemesi, si consuma a The Halls, l’esclusiva e quasi inaccessibile comunità di chalet di lusso edificata nell’alta valle del fiume Gallatin. Ma la rivelazione definitiva viene colta con lucidità solo da Robert “Bobby” Nygard, amico fedele e prezioso alleato di Ward nell’indagine, che negli ultimi istanti prima di morire:

[…] capì che questo costituiva una differenza, e anche che, se noi appartenevamo tutti alla stessa specie, allora c’erano poche speranze di salvezza: qualunque cosa avessimo realizzato durante il giorno, non avrebbe cancellato quello di cui alcuni erano capaci la notte. Certi aspetti del comportamento umano erano ineluttabili, ma questo non poteva esserlo. Pensare che lo fosse era come accettare che non avessimo nessun limite verso il basso. […] L’intelletto non indeboliva la violenza, ci rendeva più bravi nel compierla. La nostra specie era responsabile di tutto, e portava nascosto dentro di sé il suo lato oscuro.
[pag. 409]

Parole senza speranza, ma che non sollevano chi le ascolta e le legge dalle proprie responsabilità. Di fronte a questa consapevolezza, ai vivi si pone l’obbligo morale di rinsaldare i confini della sfera etica contro le terribili minacce che la prendono d’assalto. Dall’esterno e dall’interno. Un obbligo da perseguire a qualunque costo.

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