Berenice Cyberpunk

di Fernando Fazzari, 01/10/2011

Il mash-up è una tecnica impiegata soprattutto in ambito musicale e video (un Frankenstein sonoro e di frame derivato da brandelli di diversa provenienza) o informatico (un sito o un’applicazione web ibridati, tanto da inglobare contenuti di diversa origine) che ha come scopo quello di giungere a un nuovo prodotto riducendo in “poltiglia” le fonti d’origine. Un’operazione d’ibridazione e riciclo usata anche in letteratura e giunta alla ribalta grazie a scrittori come Seth Grahame-Smith, autore di Orgoglio e pregiudizio e zombie (Nord, 2009), in cui la vittima del non-morto è la carne testuale del classico di Jane Austen, letteralmente fatto a pezzi sul piano della trama e dei personaggi, costretti non solo a combattere i loro istinti amorosi ma a lottare contro le orde dei morti che camminano nelle campagne inglesi. L’esperimento di Grahame-Smith ha riscosso un grande successo editoriale, inserendosi in un vero e proprio filone (Abraham Lincoln Vampire Hunter, sempre dello stesso autore, Shakespeare Undead di Lori Handeland e diversi altri, per la maggior parte pubblicati dalla casa editrice statunitense Quirk Books). Il risultato del mash-up è divertente e trasgressivo, senza ombra di dubbio. Quello che mi sono chiesto è se è una tecnica narrativa che ha utilità e futuro. Si è fatto così un tentativo con il raccontoBerenice di Edgar Allan Poe, spostandolo dal gotico alla fantascienza cyberpunk. Quello che segue è il risultato dell’esperimento letterario fatto sulla classica traduzione di Maria Gallone, corredato da una sorta di “diario della riscrittura”, stilato nel corso della lavorazione, di cui questa nota introduttiva è l’inizio…

La miseria è molteplice. L'infelicità della Rete-Mondo è multiforme.
Ne abbraccio l’orizzonte come un arcobaleno le cui sfumature sono varie come i colori di quell’arco, e altrettanto distinte, e al tempo stesso intimamente fuse: un’immagine di pace da cui riesco solo a splittare un frame di sofferenza.
Il ricordo della felicità di ieri è – oggi, domani e sempre – il nostro trip quotidiano: Silver-K, la chiamano, la chiave d’argento che dispiega un mondo onirico in cui l’uomo crede ancora di essere libero. Una molecola psicotropa.
Berenice, che tu sia maledetta.
Berenice, la mia ossessione di sintesi.
Il mio nome è E-Geo; non rivelerò quello della mia famiglia, sarebbe inutile: vi basti sapere che è uno dei pochi, anonimi cognomi col numero seriale che distinguono i quattro spettri in carne e ossa che sono rimasti sul pianeta. La gran parte della popolazione s’è fatta risucchiare il cervello – o l’anima, se preferite – in qualche IA che pulsa in un bunker seppellito nel silenzio, alimentata ad aeternum da batterie nucleari.
Il Grande Panico.
Neanche tanto lontano nel nostro recente passato – o almeno così si legge nelle smagliature dei firewall della Rete-Mondo – una violenta ondata di paranoia collettiva ha spinto le persone a cercare l’immortalità in scatolette contenenti intelligenze artificiali a basso costo.
Non esiste in tutto il globo surriscaldato del quale ci ostiniamo ad abitare la superficie, buco più mefitico della mia tetra e grigia stamberga. Tutto quello che m’hanno lasciato i vecchi. Tutto quello che, quando tirerò le cuoia, getterò nel fluire corrosivo del tempo. La finestra che ho di fronte non fa altro che confermare queste mie due convinzioni: oltre, vedo Frisco ridotta ai minimi termini, il Bay Bridge schiantato in montagne di ruggine, le strade deserte percorse solo da folate di vento pesante e polvere di metallo e – spostando la messa fuoco – riflesso sui suoi vetri crepati, me stesso, arginato in questa infoteca, i cavi della macchina per la dialisi totale, la Total-D, che mi entrano nelle budella e quelli d’interfaccia che escono dal cranio.
I ricordi dei miei primi anni sono legati a questa stanza e ai suoi supporti di archiviazione, di ogni argomento, capacità e hardware. Qui morì mia madre. Qui io nacqui. È superfluo dire che io non ero mai vissuto prima, che l’anima non ha un’esistenza precedente. Potete negarlo? Discuterne è inutile. Io ne sono convinto, e non cercherò di farvene persuasi. Ma c’è un bug: una reminiscenza di forme aeree, di occhi spirituali carichi di significato, di suoni musicali e pur tristi, una reminiscenza che non può essere negata; è una memoria simile a un’ombra vaga, oscillante, indefinita, incerta; e simile a un’ombra pure è la mia impossibilità a liberarmene finché la luce solare della mia ragione esisterà.
I miei occhi sondano i confini del mio campo visivo e ripeto, ossessivo come una key-word errata davanti a un cluster della Rete-Mondo, il mio mantra: qui.
Qui.
Qui e solo qui, io nacqui, risvegliandomi così dalla lunga notte di quel che sembrava, ma non era, il non essere, per trovarmi subito nelle regioni stesse della fiaba, in un palazzo dell’immaginazione, negli sconfinati domini dell’erudizione e della disciplina anarchica degli stalker della Rete-Mondo. Non è strano che io mi guardassi attorno con occhio ardente, meravigliato, che trascorressi la mia infanzia in mezzo agli hardware dell’infoteca, che disperdessi la mia giovinezza in fantasticherie; ma è strano, mentre gli anni passavano e a trent’anni mi trovavo ancora nella casa di famiglia, è stupefacente il ristagno che rapprese le fonti della mia esistenza, è inspiegabile l’inversione totale che si operò nel corso dei miei anche più semplici pensieri. Le realtà della Rete-Mondo mi colpivano come visioni, e come visioni soltanto, mentre le svagate idee del Paese dei Sogni divenivano a loro volta, non l’elemento materiale della mia vita quotidiana, ma veramente e propriamente la mia sola unica vera vita.
In quegli anni anticipavo solo una tendenza, senza per questo digitalizzarmi in un’IA; ero già malato: per me, quel disagio nero che con il nome di Grande Panico si prese il mondo, non fu altro che una malattia congenita.
La mia malattia, nient’altro che la mia malattia.
Ma non ero rimasto solo insieme al vecchio Pa’, no. Con noi c’era Berenice, la cugina lasciata sola dagli zii Bern e Grace, ora rispettivamente B3rn-348 e Gr4c3-109, tra le più vecchie IA di matrice umana che siano mai state registrate nei database della Rete-Mondo.
Crescemmo insieme entro le mura paterne. Tanto vicini nelle catene di Dna quanto lontano nello sviluppo della comune matrice genetica: io malaticcio, sempre immerso in tetraggini, lei agile, graziosa, traboccante d’energia; sue erano le incursioni al market all’incrocio tra Main e Bryant per rubare le caramelle che divideva con le sue amiche di giochi all’angolo, miei gli studi della Rete-Mondo; vivevo richiuso nella cerchia della mia corteccia allargata, dedicandomi anima e corpo alla meditazione più intensa e più dolorosa, lei si aggirava spensierata attraverso l’esistenza senza il più lieve timore di ombre che potessero frapporsi sul suo cammino.
Berenice! Il suo nome risorge dalle grigie rovine della memoria e smanio come un tossico giù nel Tenderloin al solo pensiero di poter riavere la sua immagine dinanzi a me, viva ancora, come lo era nei primi anni della sua spensieratezza e della sua gioia…
Ci rivedremo, Ber, prestissimo e via SK.
Silver-Key: la molecola cui è appesa la sanità mentale dei pochi uomini in carne e ossa rimasti sul suolo terrestre. Uno sparuto gruppo di fantasmi devoti ai ricordi pre-Panico. Un mondo come quello attuale non è sopportabile, nemmeno immobili su una sedia, sfamati ventiquattro ore su ventiquattro da una macchina Total-D, che provvede a ripulire il corpo e a nutrirlo di proteine e carboidrati sintetizzati da molecole endogene. Meglio i ricordi di una superficie terrestre ancora calpestata da miliardi di uomini. Meglio vivere attraverso la chimica della Silver-Key. Anche se a volte fa brutti scherzi. La mia burla omicida si chiama Berenice.
Piccola Berenice, sfarzosa e fantastica bellezza.
Il tuo ricordo, cuginetta, è un dente che fa male.
È dolore, e per scacciarlo, al dolore aggiungo dolore.
Invio al Total-D i comandi per un paio di stringhe di Silver-Key. La finestra di fronte poco a poco sfuma. Il Bay Bridge si alza dalla polvere. Il mondo risorge dalla tomba. Le strade si animano di vita.
Sono da te, Ber.
Ai giorni in cui tutto divenne mistero e terrore, quando un male, un male fatale, si prese il tuo corpo e, ancor mentre ti contemplavo, lo spirito della dissoluzione ti prese, permeando la tua mente, le tue abitudini, il tuo carattere, e in modo così sottile e spaventoso da alterare persino la tua identità.

Nel loop infernale di mali prodotti da quel primo e fatale disordine che provocò un mutamento di natura così orrenda nella struttura fisica e sottocorticale di mia cugina, citerò come il più doloroso e ostinato una specie di epilessia che spesso si concludeva con una vera e propria trance, assai simile a una effettiva dissoluzione, e dalla quale il modo con cui lei si riprendeva era nella maggior parte dei casi spaventosamente brusco.
Intanto, la malattia che mi torturava – e già ho detto che non la chiamerò con altro appellativo – la mia malattia dunque si diffuse rapidamente nel mio organismo, assumendo alla fine un aspetto monomaniaco di carattere ignoto e straordinario, guadagnando d’intensità a ogni secondo, sino a esercitare su di me il più incomprensibile ascendente. Questa monomania consisteva in un’irritabilità morbosa di quelle facoltà mentali che la scienza metafisica delle matrici della Rete-Mondo definisce attente. È assai probabile che non riuscirò a farmi intendere, ma temo che non mi sarà in alcun modo possibile, in verità, comunicarvi (voi, o chiunque s’imbatterà in questo testamento fatto di codici e parole) un’idea adeguata di quella nervosa intensità d’interesse per la quale, nel mio caso, i poteri di meditazione si torturavano e si fossilizzavano nella contemplazione anche dei più semplici oggetti della Rete-Mondo.
Fantasticare, senza cedere mai per lunghe ore, con l’attenzione fissa su qualche frivolo fregio marginale di un cluster di Rete, o su qualche anomalia d’archivio di un database; incantarmi durante quasi un’intera giornata estiva nello studio di un’ombra insolita – proiettata di sghimbescio dal mio subconscio connesso – sulla tappezzeria o sulla porta; perdermi per lunghe notti a contemplare un neon, o le ragnatele formatesi tra gli elementi del riscaldamento domestico; sognare per giorni e giorni intorno al profumo proveniente dalla una strada qualsiasi nella Rete o nel mondo reale; ripetere monotonamente parole comuni e stringhe di sistema sinché il loro suono, a forza di essere ripetuto, cessava di rappresentare alla mente un’idea qualsiasi; perdere ogni sensazione di movimento o di esistenza fisica, grazie a una totale rilassatezza del corpo mantenuta a lungo e ostinatamente; queste tra le tante erano le più comuni e meno perniciose divagazioni prodotte da uno stato delle mie facoltà mentali non ancora in verità del tutto ineguagliato da alcuni eccessi del Grande P., ma che certo sfidava una qualunque possibile analisi o spiegazione.
Atteggiamenti e abitudini che niente avevano a che fare con l’inclinazione a rimuginare comune a tutta l’umanità, e nella quale si compiacciono soprattutto le persone dall’immaginazione fuori misura. Non era neppure, come si potrebbe supporre, una condizione estrema, o un’esagerazione di tale inclinazione, ma era distinta, diversa. Nel primo caso, il sognatore o folle entusiasta, sentendosi attratto da un oggetto solitamente non frivolo, lo perde a poco a poco di vista in un pelago di deduzioni e d’ipotesi scaturite dallo stesso oggetto, sino a che al termine di un sogno a occhi aperti si accorge che la causa prima del suo fantasticare è del tutto svanita e dimenticata. Nel mio caso, l’oggetto primario era sempre frivolo, pur assumendo, attraverso il mezzo della mia fantasia malata, un’importanza irreale e rifratta. Le mie deduzioni erano sempre scarse e queste, poche e sparute, ritornavano sempre con ostinazione all’oggetto originale come fulcro.
Queste mie meditazioni non erano mai piacevoli, e al termine della visione la causa prima, lungi dall’essere stata persa di vista, aveva raggiunto quell’interesse, eccessivo fino alla frontiera della follia, che costituiva il carattere prevalente della malattia.
In quel periodo della mia esistenza le info, se non servivano propriamente a irritare il mio male, influivano almeno per larga parte, grazie alla loro natura immaginativa e illogica, sugli aspetti caratteristici del male stesso. Citerò tra i tanti il De Carne Christi di Tertulliano, in cui la frase paradossale “Mortuus est Dei filius; credibile est quia ineptum est: et sepultus resurrexit; certum est quia impossibile est”, occupò senza tregua il mio tempo durante una settimana di faticosa e infruttuosa meditazione assieme, tra l’altro, a biografie illustri come quella di Jackie Kennedy e Barack Obama, ai romanzi di Ballard e Gibson e all’ascolto compulsivo di vecchie tracce musicali come quelle dei Beatles di Sgt. Pepper’s.
Certum est quia impossibile est.
È certo perché impossibile.
Vero, Ber?

Dall’incipit fino a questa parte, ho proceduto sull’onda dell’entusiasmo e del divertimento (un lungo giro di giostra lungo più di 10.000 battute), innestando, tagliando a man bassa, cambiando e stravolgendo il testo di Poe. Superata la vertigine letteraria, s’è palesata l’esigenza della caratterizzazione dell’ambiente e del protagonista. Mentre sull’ambientazione l’intervento è stato massiccio – e necessario: questo tipo di fantascienza, per sua natura, ha bisogno di punti fermi che disegnino necessariamente uno scenario sociale. Sta qui infatti il sense of wonder del cyberpunk – sul protagonista è stato leggerissimo: poche pennellate, l’Egeo dell’era post-digitale non è troppo diverso dal suo antenato: misantropo, maniacale e metafisico. Dal punto di vista lessicale, l’intervento è stato importante, come quello sui punti di partenza delle peregrinazioni metafisiche e dei viaggi nella Rete del protagonista (Rete e metafisica: il nodo tematico della versione è nato spontaneamente; e questo è senz’altro un successo). Il registro gotico di Poe ha subito un’alterazione non indifferente: uno stalker di Rete parlerà una lingua meno arzigogolata e più contaminata dal linguaggio informatico (“splittare” per “dividere”, “bug” per “falla”) di uno studioso del XIX secolo, così come i suoi riferimenti saranno necessariamente diversi: William Gibson contro Tertulliano. Chiuso qui, l’esperimento di mash-up potrebbe dichiararsi fallito: più che a una contaminazione, si è assistito a una consistente riscrittura, uno stereotipo del racconto postmoderno. È evidente che, da questo punto in poi, si cercherà di rendere gli interventi meno invasivi (se non dettati dalle premesse), se non altro per cercare di ascoltare la voce di Poe.

Apparirà così che, scossa nel suo equilibrio soltanto da elementi comuni, la mia ragione assomigliava a quel picco oceanico di cui parla Tolomeo Efestione, il quale, mentre resisteva incrollabile agli attacchi dell'umana violenza e all'ancor più selvaggia furia delle acque e dei venti, tremava al solo tocco del fiore chiamato asfodelo; e per quanto a un ragionatore superficiale potrebbe sembrare una questione fuor di dubbio che il mutamento prodotto dal suo disastroso male nelle condizioni morali di Berenice avesse a procurarmi infiniti argomenti per l'esercizio di quella meditazione intensa e abnorme intorno alla cui natura ho avuto tanta difficoltà a spiegarmi, questo non era invece affatto il caso.

Elucubrazione, questa di Poe, che qualsiasi editor moderno avrebbe tagliato senza pietà. Il grande scrittore del passato qui rimarca il carattere meditativo-ossessivo del suo protagonista.

Il Silver-Key brucia fibre mieliniche e ricordi. Dall’esterno, sento il frastuono di un palazzo che crolla. Potrebbe essere quello accanto al mio, ma non m’importa. Le tracce codificate me la riportano davanti, risalendo il flusso del tempo.
Berenice.
Negli intervalli lucidi della mia infermità la sua disgrazia mi addolorava, è vero, e prendendomi vivamente a cuore la rovina totale della sua bella e dolce vita, non mancavo di riflettere spesso e con amarezza ai mostruosi lavorii che avevano provocato così all’improvviso una tanto strana mutazione. Ma queste riflessioni non facevano parte dell’idiosincrasia del mio male, ed erano tali che avrebbero potuto presentarsi in circostanze analoghe alla massa comune dei mortali. Fedele al proprio carattere distintivo, il mio disordine indugiava nei mutamenti meno importanti ma più sorprendenti operatisi nella struttura fisica di Berenice, nella singolare e terrificante distorsione della sua identità esteriore.
Durante i giorni luminosi della sua ineguagliata bellezza io certamente non l’avevo mai amata. Nella misteriosa anomalia della mia esistenza i miei sentimenti non erano mai stati del cuore, e le mie passioni erano sempre state della mente. Nel grigiore del primo mattino, tra le ombre dello sprawl a mezzogiorno, nel silenzio della mia infoteca la notte, lei aveva aleggiato dinanzi ai miei occhi, e io l’avevo veduta come la Berenice di un sogno, non come un essere della terra, terreno, ma come l’astrazione di un tale essere, non come una cosa da ammirare, ma da analizzare, non come un oggetto d’amore, ma come il tema di una speculazione estremamente astrusa per quanto sconnessa. E ora, ora io rabbrividivo alla sua presenza, impallidivo al suo avvicinarsi; e pur compiangendo amaramente le sue condizioni miserevoli di decadimento, mi rammentai che da tempo lei mi amava e in un istante malaugurato le parlai di matrimonio.

Qui mi sono limitato all’innesto di un periodo all'inizio della sequenza e alla sostituzione di un paio di termini (“sprawl” per “foresta”, “infoteca” per “biblioteca”); il rimanente del testo è quello originale. È interessante notare come, una volta gettate le premesse per la virata tematica e d’ambientazione nella prima metà del racconto, il testo origninale aderisca alla nuova veste quasi senza problemi. Scegliere un autore affine, oltre a rendere il mash-up più verosimile, spazza il campo da ogni tentazione parodistica e ironica. Teorema semplice (più lontano sarà il testo originale dai temi e dagli interventi del mash-up, tanto più l’effetto sarà straniante e ironico) ma utile, come chiave di volta, per cercare vie meno uniformate alla paralisi narrativa della semplice parodia.

Ed ecco che finalmente il momento delle nostre nozze si stava approssimando: durante un pomeriggio, nell’inverno di quell'anno – una di quelle giornate fuor di stagione, calde, calme, piene di foschia, che ricorrono di rado nella tetra Frisco – io sedevo in un angolo remoto dell’infoteca. Alzando gli occhi mi accorsi che Berenice mi stava di fronte.
Era frutto della mia immaginazione eccitata, o dell’influenza nebbiosa dell’atmosfera, o del crepuscolo incerto della stanza, o erano forse i grigi panneggi che cadevano in pieghe attorno alla sua figura, che provocavano in questa un aspetto così vacillante e vago? Non saprei dire. Non diceva nulla e io... neppure con uno sforzo sovrumano sarei riuscito a pronunciare una sola sillaba.
Un brivido di ghiaccio mi corse per le ossa; mi sentii oppresso da una sensazione d'insopportabile angoscia; una curiosità divorante mi pervase l’anima e, nello scollegarmi dal terminale, ricaddi all’indietro sulla sedia rimanendo per qualche tempo immobile e senza fiato, gli occhi fissi sulla sua persona: appariva così emaciata che in tutto il suo aspetto non c’era più neppure una lontana traccia dell’antica creatura.
Alla fine il mio sguardo bruciante si posò sul suo viso.
La fronte era alta, pallidissima, stranamente serena; e i capelli scuri ricadevano parzialmente su di lei adombrando le tempie cave. Gli occhi erano senza vita, opachi, apparentemente privi di pupille, e io mi ritrassi involontariamente dalla loro vitrea fissità per contemplare le labbra sottili, affilate. Queste si aprirono, e in un sorriso di particolare significato i denti della mutata Berenice si dischiusero lentamente ai miei occhi.
Avrei voluto non vederli mai.
Il rinchiudersi di una porta mi disturbò. Alzai lo sguardo mi accorsi che mia cugina era uscita dalla stanza. Ma dai recessi del mio cervello saturo di Silver-Key non era uscito, né mai ne sarebbe stato scacciato, il bianco, terrificante spectrum dei denti. Non una macchiolina sulla loro superficie, non un’ombra sul loro smalto, non un’intaccatura nei loro orli.
Denti.
Denti.
Denti.
Quei denti erano qui e lì e dovunque, visibili e palpabili davanti a me; lunghi, stretti, innaturalmente bianchi, con le pallide labbra arricciatesi su di essi, come nel momento stesso del loro primo spaventoso sviluppo. Allora sopravvenne la furia totale della mia monomania, e invano io lottai contro la sua strana irresistibile influenza. Negli oggetti moltiplicati della Rete Mondo io non avevo pensieri che per quei denti. Li consideravo con una cupidigia frenetica; ogni altra cosa, ogni altro diverso interesse si astraeva nella loro contemplazione singola.
I denti: loro soltanto, erano presenti all’occhio della mia mente. Nella loro unica individualità, diventarono l’essenza della mia vita mentale.
Li contemplavo in qualsiasi luce: li volgevo in ogni atteggiamento; ne studiavo le caratteristiche, indugiavo a studiarne le particolarità. Meditavo sulla loro conformazione e fantasticavo sulla trasformazione della loro natura: rabbrividivo nell’attribuire a essi con l’immaginazione un potere sensitivo e sensorio, e anche senza l’ausilio delle labbra una capacità di espressione morale.
I suoi denti, immaginati, studiati ed esplosi in una miriade di ricerche di info nella Rete. Frugai fra la miriade di denti reperibili nella Rete-Mondo: entrai nei database di studi dentistici trafugando panoramiche e scansioni d’impronte, visionai centinaia di fotografie e filmati – su tutti, m’impressionò il sorriso perfetto di Claudia Cardinale, così simile a quello di Berenice – riuscendo a linkare le connessioni più strane.
Un giorno, naufrago nella Rete-Mondo, m’imbattei in Marie Sallé, una danzatrice francese del XVIII secolo, di cui si diceva che “tutti i suoi passi erano sentimenti”. Da mademoiselle Sallé a Berenice il passo fu breve: “tutti i suoi denti erano idee”. Questo fu il pensiero allucinante che mi distrusse.
Ogni dente, una banca dati di idee. Il viaggio ultimo nella Rete-Mondo.
Ecco perché li desideravo con così pazza cupidigia! Sentivo che soltanto il loro possesso poteva ridonarmi la pace, restituirmi la ragione.
E così la sera si chiuse su di me, e poi scesero le tenebre, e indugiarono, e si dileguarono, e il giorno spuntò di nuovo, e i veli di una seconda notte nuovamente si addensarono, e sempre io sedevo immobile in quella stanza solitaria; e seguitavo a sedere sprofondato in meditazione, e sempre il fantasma di quei denti esercitava il suo terribile influsso aleggiando con nitidezza sfolgorante, paurosa, tra le luci mutevoli e le ombre della camera, tra l’accesso e la disconnessione della Rete-Mondo.
Alla fine i miei sogni furono interrotti da un grido come di orrore e di sgomento, al quale, dopo una pausa, seguì un suono di voci turbate misto a gemiti di dolore o di pena. Mi levai dal mio sedile e, spalancando la porta dell’infoteca, vidi in piedi nell’anticamera mio padre.
Aveva gli occhi gonfi di lacrime: – Berenice è morta.
Era stata colta da un attacco di epilessia durante le prime ore del mattino, e adesso che la notte si avvicinava già la tomba era pronta ad accoglierla, e i preparativi delle esequie già erano terminati.

Pochi e piccoli interventi: un ritocco all’ambientazione (San Francisco, un omaggio a Philip Dick), qualche passata di editing (“allorché”, “ahimè!”, “essa”, “ella”, “dinanzi”, “lagrime”) e un paio di tagli (i “capelli un tempo color del giaietto”, diventano semplicemente “scuri”) di revisione mirata al registro della traduzione italiana. In questa parte, ho lavorato sul ritmo di alcuni periodi, cercando di modernizzare lo stile lirico-classicheggiante di Poe farcito d’incisi, vocativi e intere frasi esclamative, sostituendole con ripetizioni (Denti, denti, denti) altrettanto retoriche ma più affini all'orecchio del lettore moderno, o condensandone il significato (“Avrei voluto non vederli mai” in luogo di “Volesse il cielo che io mai li avessi veduti, o che dopo quell'attimo in cui io li vidi fossi morto!”). Con lo stesso intento, di scuotere il ritmo narrativo di Poe, ho riscritto il paragrafo in cui Poe fa entrare Egeo nel nucleo della sua follia, ragionando direttamente in lingua d’oltralpe sui passi di danza di mademoiselle Sallé e sui denti della cugina (que tous ses pas étaient des sentiments / que toutes ses dents étaient des idées). Ho infine praticato una sostituzione di personaggi – il domestico che annuncia nell’originale la morte di Beatrice qui diventa il padre del protagonista – dettata unicamente dall’esigenza di non lasciare nessun personaggio “a incrociarsi le dita”; per lo stesso principio di coerenza, entro la fine del racconto andranno inseriti gli “zii-artificiali” di Egeo, B3rn-348 e Gr4c3-109.

Mi ritrovai seduto nell’infoteca e ancora una volta solo. Sembrava che mi fossi da poco svegliato da un sogno eccitante e confuso. Sapevo che era ormai mezzanotte, ed ero perfettamente consapevole che Berenice era stata seppellita sin dal calar del sole, ma di quel tetro periodo intermedio non avevo alcuna coscienza esatta, o per lo meno non definita. Nondimeno il suo ricordo era pieno di orrore... di un orrore tanto più orribile in quanto vago, di un terrore reso ancor più terribile dalla ambiguità.
Era un file danneggiato del sistema operativo della mia vita, gonfio di upload di ricordi confusi, orrendi, incomprensibili. Tentai di decifrarli, ma invano; mentre a intervalli, ripetuti, simile allo spirito di un suono fuggente, l’urlo acuto lacerante di una voce femminile sembrava rintronare entro le mie orecchie. Io avevo fatto qualcosa... ma che cosa? Mi ripetevo la domanda ad alta voce, e gli echi bisbiglianti della stanza mi rispondevano: – Che cosa?
Sul tavolo accanto a me bruciava una lampada, e accanto a questa era posata una piccola scatola. Non rappresentava alcuna caratteristica particolare e già io l’avevo veduta molte altre volte; ma come era venuta a finire lì, sul mio tavolo, e perché rabbrividivo nel guardarla? Non sapevo in alcun modo spiegarmi questo mio stato d’animo, finché non emerse dalla mia memoria una frase rubata al poeta Ebn Zaiat in uno dei miei vagabondaggi per la Rete-Mondo: “Mi dicevano i compagni che se avessi visitato il sepolcro dell’amica, le mie pene sarebbero state alquanto mitigate”.
Perché ripassando mentalmente quella frase mi si gelò il sangue nelle vene?
In quell’istante un bussare sommesso, e pallido come l’abitante di una tomba Pa’ entrò in punta di piedi. Aveva lo sguardo alterato dalla paura, e si rivolse a me, con voce tremante, soffocata, bassissima. Che cosa mi disse? Non afferrai che alcune frasi rotte: un grido forsennato che aveva squarciato il silenzio della notte, che i familiari si erano radunati, che ricerche erano state fatte in direzione del grido, e a questo punto i suoi accenti divennero paurosamente distinti mentre egli mi sussurrava di una tomba violata, di un corpo avvolto nel sudario sfigurato, eppure ancora respirante, ancora palpitante, ancora vivo.
Parlando, mio padre appuntò l’indice contro i miei abiti; erano coperti di fango e tutti ingrommati di sangue. Io non parlai, mentre lui mi prese dolcemente la mano: era tutta segnata dall’impronta di unghie umane. Rivolse quindi la mia attenzione a un oggetto appoggiato contro la parete; lo fissai per alcuni minuti: era una vanga. Con un urlo balzai verso il tavolo, afferrai la scatola che vi era posata sopra. Non ebbi però la forza di aprirla; tremavo tanto che essa mi scivolò di mano e cadde pesantemente frantumandosi in mille pezzi. Da essa, con un rumore secco, crepitante, uscirono rotolando alcuni strumenti di chirurgia dentaria, mescolati a trentadue piccole cose bianche, eburnee, che si sparsero qua e là sul pavimento.

Testo quasi conforme all’originale; solo “La pagina paurosa del libro della mia esistenza” diventa un “file danneggiato”. Per il resto ho cercato di procedere a rendere uniformi e coerenti gli interventi già praticati in altre parti, per facilitare la comprensione al lettore moderno, di sicuro meno avvezzo al latino dei contemporanei fruitori di Poe, traducendo direttamente la citazione del poeta Ebn Zaiat “Dicebant mihi sodales si sepulchrum amicae visitarem, curas meas aliquantulum fore levatas" (“Mi dicevano i compagni che se avessi visitato il sepolcro dell'amica, le mie pene sarebbero state alquanto mitigate”). Da notare come Poe nascondesse alcuni “nodi” cruciali della narrazione sotto forma di citazioni in lingua originale: probabilmente, un semplice sfoggio di eruzione piuttosto che un tentativo di rendere ermetica la comprensione delle motivazioni delle azioni sconsiderate di Egeo. Le citazioni in lingua potevano essere lasciate tali e quali, magari inserendo delle note di traduzione; ma con un testo ormai chirurgicamente aperto e sanguinante e col “paziente” in anestesia, non ho esitato a cambiare anche questa componente del testo originale. Qui finisce il racconto di Edgar Allan Poe. Tuttavia, per completare il mash-up e portare a termine le premesse gettate nella prima parte – dove l’intervento sulla struttura, il tema, l’ambientazione e la trama è stato più consistente – è necessario scrivere ex novo il finale di questa versione che, alla fine, è diventata altro rispetto all’originale. In questo, forse, sto scegliendo una strada diversa da quella, più legata al calcolo di mercato, della filosofia di composizione di Grahame-Smith et al.

Riapro gli occhi risvegliato dal gracchiare del Total-D. Passo un’ora immerso nel silenzio e nello sgomento. Là fuori, Frisco è silenziosa come una tomba. È già troppo. Ho subito bisogno di una nuova dose di Silver-K, minima questa volta, abbastanza per affrontare una sessione leggera di navigazione.
Ho sempre avuto la premura di criptare il mio account di accesso alla rete-Mondo per non essere riconosciuto da nessuna IA familiare; dopo quello che ho fatto a Berenice, ho sempre avuto paura a scoprirmi, temendo ritorsioni e vendette. Non mi sono mai sentito neanche con mio padre che, dopo aver passato il resto della sua vita terrena a nascondere il proprio figlio alle autorità, aveva ceduto a farsi convertire in Intelligenza Artificiale a matrice umana.
Dopo l’ultimo viaggio nei miei ricordi digitali, ho deciso di non nascondermi più e rendermi riconoscibile a qualsiasi utente della Rete-Mondo.
E non è mio padre il primo che incontro tra i cluster, ma B3rn-348 e Gr4c3-109, i genitori di Berenice.
La loro voce è fredda. Parlano all’unisono: – Ti aspettavamo. Ma più di noi, ti aspettava lei.
Non ho mai chiesto a Pa’ se avevano fatto in tempo a digitalizzare Berenice.
Adesso lo so con certezza.
Sto per incontrarla di nuovo. Tra qualche istante sarò in contatto con la sua intima essenza.
Mentre una cascata di dati fluttua intorno alle mie sinapsi, cresce in me un sentimento più grande della paura, più nero della morte: ha la forma di un sorriso perfetto, in cui ogni dente è l’anticipo e la prosecuzione eterna del dolore di un morso al cuore.

Giunto alla conclusione di questo esperimento di mash-up, si può dire che la tecnica ha sicuramente una sua utilità – che in fondo è quella alla base di qualsiasi tipo di reinterpretazione di un’opera – e cioè quella di aggiungere o creare significati, idee, sfumature e punti di vista nuovi. Se il mash-up avrà un futuro, dipenderà in larga misura dal suo affrancamento da semplice tecnica parodistica. Gli strumenti per la buona riuscita, me ne sono definitivamente convinto, esistono. Agli autori, agli editori e, soprattutto, ai lettori l’ardua sentenza.

next-station.org 2006 - Tutti i contenuti, ove non diversamente specificato, sono di proprietà dei rispettivi autori.