Una breve storia del viaggio nel tempo

di Giovanni De Matteo e Lanfranco Fabriani, 31/12/2011

Il 24 settembre 2010 siamo stati ospiti a Roma dell’evento Light – La notte dei ricercatori, dove abbiamo ripercorso il filone dei viaggi nel tempo, dimostratosi prolifico tanto in letteratura quanto al cinema e in televisione. Questo articolo è una rielaborazione del nostro intervento. Limitandoci ad alcuni classici e concentrandoci sulle novità, con una cavalcata veloce cercheremo di dare un’idea del vasto spettro di narrazioni che il tema del viaggio nel tempo è riuscito a generare in seno alla fantascienza e non solo.
Giovanni De Matteo e Lanfranco Fabriani

1895. Al contrario di altri elementi della fantascienza, la macchina del tempo ha una data di origine ben precisa. Cosa intendiamo dire? Rispondiamo con un controesempio. Quando inizia il volo spaziale? Quando abbiamo la prima astronave, con Verne e Wells? Forse potremmo considerare astronave anche la nave sollevata in volo da uno stormo di oche descritta da Cyrano de Bergerac nel 1600. Le origini si fanno sfumate… Invece per la macchina del tempo abbiamo una data inequivocabile: la pubblicazione del romanzo di Herbert George Wells La macchina del tempo per l’appunto nel 1895. È qui che fa la sua comparsa per la prima volta nella letteratura. Dobbiamo inoltre notare che il romanzo di Wells è intitolato The Time Machine, non “Il viaggiatore temporale” o “Una storia dei giorni futuri”, il titolo stesso ci suggerisce che sia la macchina del tempo a svolgere il ruolo di vera protagonista del romanzo.
In effetti, prima di esaminare il romanzo di Wells parleremo di altri due romanzi che si occupano di viaggio nel tempo, ma che avranno un influsso molto importante sugli sviluppi futuri del tema.

Origini: tre storie nel tempo
Il primo è il romanzo di Mark Twain del 1889, Un americano alla corte di Re Artù. Soltanto sei anni prima del romanzo di Wells, nella sua opera a carattere satirico Twain immagina che un americano, per l’esattezza uno yankee del Connecticut, venga sbalzato in modo misterioso alla corte di re Artù. Dobbiamo qui vedere una satira della moda del Medioevo, che stava prendendo piede in quegli anni, ma anche una satira della mentalità americana, infatti da buon americano intraprendente il protagonista inizia a sfruttare le sue conoscenze tecnologiche per perfezionare armature, costruire biciclette, istituire un servizio di telegrafo, coltivare tabacco, distillare alcool, progettare la costruzione di una ferrovia a Camelot e, naturalmente, una mitragliatrice. È interessante dal nostro punto di vista perché, anche se non c’è in lui una vera e propria intenzione di modificare il passato, è quello che effettivamente fa (per quanto Camelot sia un passato di fantasia, che materializza le nostalgie culturali messe in parodia da Twain). Altri viaggiatori temporali, dopo di lui, tenteranno invece di modificare coscientemente il passato, tentando di riscrivere la storia del mondo o la loro personale, valga per tutti il protagonista di Abisso del passato di L. Sprague De Camp del 1941 che, ritrovandosi nella Roma antica, cerca di impedire l’arrivo dei barbari o quanto meno di ridurre il periodo dei secoli bui.
Il secondo titolo che ci interessa è il Canto di Natale di Charles Dickens, del 1843. In realtà non possiamo nemmeno dire con assoluta certezza che il racconto tratti realmente di un viaggio nel tempo né che si tratti di una storia fantastica, ma per il nostro discorso va ugualmente bene ed è anzi essenziale.
Scrooge, il protagonista della storia, è un avaro misantropo – potremmo arrivare a definirlo uno strozzino, visto che presta soldi – che ha alle proprie dipendenze un giovane impiegato molto povero con un figlio malato. La vigilia di Natale Scrooge rifiuta stizzito gli auguri di Buon Natale che gli vengono fatti per strada e rifiuta anche l’invito a pranzo per l’indomani rivoltogli dall’unico nipote. Semplificando un poco la vicenda, quando si mette a letto, Scrooge riceve la visita (oppure sogna) di 3 fantasmi: lo Spettro dei Natali Passati, lo Spettro dei Natali Presenti e quello dei Natali Futuri. Lo Spettro dei Natali Passati lo porta indietro nel tempo, mostrandogli quando era una ragazzo felice e ricapitolando le occasioni che lo hanno fatto diventare ciò che è, un uomo anziano e disprezzato. Lo Spettro dei Natali Presenti gli mostra i Natali di altri uomini, felici malgrado la loro povertà. Infine Scrooge riceve la visita dello Spettro dei Natali Futuri che gli mostra la sua tristissima fine, solo come un cane, disprezzato da tutti.
Ripetiamolo, non è certo che si tratti di un reale viaggio nel tempo e non di un incubo; in ogni modo abbiamo un personaggio che pensa di viaggiare nel tempo e che apparentemente si sposta nel passato e nel futuro. Punto molto importante, abbiamo un personaggio che, muovendosi nel tempo, vede se stesso, prima giovane, poi vecchio; così, qui abbiamo il primo caso di doppio temporale, elemento che tanta fortuna avrà nella fantascienza successiva (l’incontro di un personaggio con se stesso diverrà un luogo comune, come diverrà anche un luogo comune, all’incontrario, che l’incontro non possa e non debba avvenire per alcun motivo, pena in qualche caso la distruzione dello stesso universo). Abbiamo poi, e anche questo è un punto importante, un viaggio nel futuro che serve come monito: il futuro è cupo e Scrooge, tornato nel proprio tempo, si adopera fattivamente diventando più generoso e disponibile verso gli altri perché quel futuro non si verifichi. Nella storia del sottogenere, il viaggio nel futuro – decisamente meno frequente rispetto ai viaggi nel passato, probabilmente perché questi offrono situazioni narrativamente più interessanti – è quasi sempre cupo. Capita molto di rado che un viaggiatore temporale arrivi nel futuro e trovi una situazione perfetta o quanto meno ampiamente accettabile.
Possiamo anche già vedere due diverse articolazioni del tema del viaggio: nel romanzo di Twain, il viaggio (non dimentichiamo che comunque stiamo parlando di viaggi involontari), che potremmo definire in qualche modo “pubblico”, vede l’arrivo del viaggiatore temporale in un’epoca che non ha nulla a che fare con lui; il viaggio descritto da Dickens è invece un viaggio “privato”, poiché riguarda strettamente il protagonista.
Ma torniamo a La macchina del tempo di Wells. Come abbiamo visto, è la macchina a dare il titolo al romanzo. Riflettiamo un attimo su questo dato. Noi oggi siamo circondati da macchine, ma nel 1895 a malapena si iniziavano a vedere i primi prototipi di automobili, per lo più piccoli motori a scoppio montati sul telaio di calessi. Le uniche macchine di cui si aveva familiarità erano magari dei frullini a manovella in cucina; le biciclette erano del 1855, il primo treno del 1825. Se l’idea della macchina era già misteriosa di per sé, qui si parlava persino di una macchina del tempo! In verità non ne sappiamo molto. Wells parla di sbarre di avorio, cristallo, quarzo (il che dovrebbe dare un’idea di insolito ed esotico), sappiamo che è munita di due leve di comando, una per la marcia in avanti, verso il futuro, una per la marcia all’indietro. Sul cruscotto vi sono degli indicatori per contare i giorni, le decine di giorni, le centinaia di giorni e così via, e il viaggiatore siede su una specie di sella o seggiolino.
Di che parla il romanzo? Il viaggiatore nel tempo – Wells non gli assegna un nome e il protagonista verrà proprio chiamato così da colui che stende la cronaca – è una via di mezzo tra lo scienziato, avendo all’attivo dei saggi di ottica, e l’inventore, avendo brevettato delle poltrone. Dopo aver spiegato agli amici come funziona la macchina del tempo e aver accennato all’esistenza di una quarta dimensione, uguale alle altre tre, decide di provare la sua invenzione.
Potrebbe andare nel passato come nel futuro, e decide di andare verso il futuro. Apriamo qui una piccola parentesi: dal romanzo di Wells sono stati tratti due film, uno del 1960 e uno del 2002. Possiamo quindi vedere come sia mutato il concetto del viaggio nel tempo: come abbiamo visto, il protagonista di Wells ha un moderato interesse per il futuro; in realtà sembra quasi che gli interessi più provare la macchina che andare a vedere cosa ci sia in serbo per l’umanità. Nel film del 1960 diretto da George Pal (dal penoso titolo italiano L’uomo che visse nel futuro…), in un’epoca di guerra fredda schiacciata sotto il rischio di una guerra nucleare, il protagonista del film è invece fortemente interessato ad andare nel futuro per vedere se l’umanità sopravvivrà. In effetti fa due tappe prima di arrivare alla propria destinazione, una dopo la prima guerra mondiale, per scoprire che non solo molti di coloro che conosceva sono morti in guerra, ma che sono morti anche i loro figli. Una seconda tappa lo sorprende negli anni Quaranta, durante un bombardamento di Londra da parte dei tedeschi. Nel film del 2002 diretto da Simon Wells (pronipote dell’autore, dice Wikipedia) il viaggiatore nel tempo ha tutt’altri scopi: la sua fidanzata muore durante un atto di violenza e lui, in preda al dolore, costruisce la macchina del tempo per tornare indietro ed evitarne la morte. Non riuscendovi, visto che per quanto faccia la morte della ragazza si verifica puntualmente, si sposta nel futuro alla ricerca di una risposta a questa impossibilità. Stessa storia, tre motivazioni profondamente diverse.
In ogni modo, il protagonista della Macchina del tempo originale si ritrova nell’anno 802.701 e riceve una delusione cocente dall’umanità che si ritrova davanti: una specie di bambolotti chiamati Eloi, alti un metro e venti, dai lineamenti molto fini, molto graziosi (tanto da essere paragonati dall’autore a porcellane di Dresda, un tipo di porcellana molto noto all’epoca), ma dei completi sempliciotti (il protagonista li paragona a bambini) che non riescono a concentrare l’attenzione su qualcosa per più di pochi minuti e non fanno altro che mangiare frutta, dormire, intrecciare ghirlande di fiori e danzare in un ambiente tornato a uno stato quasi naturale. Sopravvivono in questo mondo del remoto futuro soltanto alcuni edifici costruiti in epoche precedenti, che gli Eloi usano come rifugio per la notte. Per farla breve, il genere umano è in uno stato di completa decadenza. Il viaggiatore impiega poco a scoprire che la macchina del tempo è stata rubata e che c’è qualcosa di poco chiaro dietro l’apparente felicità del mondo circostante.
Alla ricerca della macchina del tempo misteriosamente sparita, il protagonista s’imbatte in un regno sotterraneo, abitato da una specie di scimmie, biancastre per l’assenza di pigmenti causata dall’assenza di luce solare dal loro mondo; costoro vedono benissimo al buio, ma basta la luce di un fiammifero a causarne la cecità temporanea. Sono i Morlock, che salgono in superficie soltanto di notte. Carnivori e più abili degli Eloi nell’uso di attrezzature, sono loro a fabbricare i vestiti che vengono indossati dagli abitanti della superficie. E, visto che in quel mondo non vi sono altri animali, i Morlock si nutrono proprio degli Eloi. Il protagonista inizia a capire cosa è avvenuto, scoprendo che la specie umana si è scissa in due specie: gli Eloi sono i discendenti delle classi agiate che hanno portato alle estreme conseguenze l’ozio che le contraddistingueva, i Morlock sono i discendenti degli operai, ricacciati sottoterra (ed è bene ricordare che all’epoca di Wells la condizione degli operai era qualcosa che oggi noi possiamo difficilmente immaginare).
Wells, che in effetti apparteneva alla Fabian Society (un partito dell’epoca di ispirazione socialista), da un lato fa della critica sociale, cercando comunque di non calcare troppo la mano e lasciando il lettore libero di farsi un’opinione, dall’altro sposa in pieno, sia pure con gli errori tipici del periodo, le teorie evoluzionistiche di Darwin, immaginando che i due ambienti separati dove vivono ricchi e operai portino a linee evolutive divergenti. Ecco quindi che torna il viaggio nel futuro come monito. Ma il romanzo non si esaurisce in questo avvertimento: infatti, dopo aver causato la morte di una ragazza Eloi che aveva precedentemente salvato dall’annegamento, dopo essersi scontrato con i Morlock per tornare in possesso della macchina del tempo, il viaggiatore fa un ulteriore salto in avanti, questa volta di decine di milioni di anni, per arrivare al crepuscolo della Terra, dominata da un Sole ormai gigantesco ma freddo. Una specie di pallone da calcio munito di tentacoli si muove nell’acqua bassa di un mare praticamente immobile ed è tutto ciò che resta della vita sulla Terra.
Tornato nella propria epoca, naturalmente il suo racconto non viene creduto, così il viaggiatore decide di tentare un nuovo viaggio, questa volta munito di macchina fotografica, per documentare le proprie avventure. Avventure che resteranno un mistero per sempre: il protagonista infatti non farà più ritorno per darcene notizia.
Abbiamo visto quindi come già le prime tre narrazioni, distribuite in un periodo relativamente ristretto, riescano a dare un panorama abbastanza completo delle versioni del viaggio nel tempo. Tutto quello che seguirà sarà un approfondimento degli spunti in esse contenuti.

Tassonomia del viaggio nel tempo
Per sua natura, il viaggio del tempo si presta a essere declinato secondo un’ampia scelta di possibilità, originando in questo modo un’intera casistica. Il suo utilizzo resta tuttavia riconducibile a una prerogativa ben precisa: guadagnare un’angolazione privilegiata da cui guardare un’epoca storica, oltre a raccontare semplicemente una storia. Come dimostra l’impiego dei viaggi del tempo al di fuori del genere strettamente inteso, si tratta in definitiva di un espediente capace di infondere nuova verve e rivestire di originalità anche il più trito e ritrito degli argomenti.
La trilogia di Ritorno al futuro (1985, 1989, 1990), concepita da Bob Gale con Robert Zemeckis (anche regista) e prodotta da Steven Spielberg, ci porta a conoscere attraverso un accumulo di paradossi i rischi di viaggiare avanti e indietro nel tempo. Con una dose di divertimento ancora straordinariamente efficace a un quarto di secolo di distanza, i due protagonisti (Marty McFly/Michael J. Fox e Doc Brown/Christopher Lloyd) restano coinvolti in una scanzonata scorribanda di situazioni al limite dell’assurdo, di volta in volta alle prese con i loro doppi o con i loro antenati e costantemente obbligati a sbrogliare i paradossi provocati dalla macchina del tempo, pena la loro cancellazione dal mondo oppure tristi conseguenze per i rispettivi familiari. Non mancano, sulla scia delle situazioni vissute da Scrooge con i doppi di se stesso, spassosi – ma talvolta pur sempre rischiosi – incontri con possibili versioni “alternative” dei protagonisti (o semplicemente “altre” da loro), dei loro cari e dei loro antagonisti.
Ritorno al futuro esplora con toni da commedia il lato più beffardo e disinvolto del tempo. Per avere un’idea dell’altra faccia della medaglia possiamo rivolgerci a un altro film: L’esercito delle 12 scimmie di Terry Gilliam (1995), che ci mostra invece cosa succede quando gli eventi prendono una piega per nulla divertente. Bruce Willis veste il ruolo di James Cole, un presunto viaggiatore temporale giunto nella nostra epoca dal 2035 per scongiurare l’esplosione del contagio che ha decimato la popolazione e costretto i sopravvissuti a rifugiarsi in inospitali e lugubri installazioni sotterranee. Il film, ispirato a un interessante mediometraggio sperimentale del francese Chris Marker (La Jetée, 1962), è giostrato sull’ambiguità tra condizione onirica e realtà: il crononauta subisce infatti gli effetti dello spaesamento provocato dal salto nel tempo e trascorre un lungo periodo di internamento in manicomio. Pur senza smettere mai di raccogliere indizi sul focolaio dell’epidemia, la sua impresa finisce per scontrarsi con l’immutabilità della storia e anzi la sua presenza nel passato risulta determinante per la sintesi del virus letale che porterà alla catastrofe: quanto già successo è ormai scolpito nel tempo, i suoi tentativi sono già contemplati nell’ordine degli eventi che hanno condotto al suo 2035 e, proprio per questo, ogni sforzo inteso a modificare le cose è destinato a fallire. Con Gilliam, a differenza del duo Zemeckis/Gale, c’è quindi ben poco da ridere: nessuna possibilità di redenzione è concessa agli uomini, neanche a chi controlla la macchina del tempo.
Guardando a questi due titoli possiamo in effetti mettere in evidenza due diverse strategie principali per l’uso narrativo dei viaggi nel tempo: 1) come in Back to the Future, la tecnologia del viaggio nel tempo viene inventata ai nostri tempi e usata per saltare nel passato o nel futuro; 2) come in Twelve Monkeys, il crononauta sbarca invece nella nostra epoca dal futuro con una missione, che può essere raccogliere informazioni, ammonirci da determinati rischi, spingerci a prendere le scelte opportune oppure ancora modificare il proprio presente. È quello che accade con L’esercito delle 12 scimmie ed è anche l’idea alla base della saga di Terminator, dove in principio (James Cameron, 1984) abbiamo un androide, mandato indietro nel tempo dall’intelligenza artificiale Skynet per impedire la nascita dell’uomo che guiderà la resistenza umana contro il predominio delle macchine, e un guerrigliero del futuro mandato invece a proteggerlo (che andrà al di là del ruolo di angelo custode per cui è stato scelto e si scoprirà essere addirittura il padre del futuro comandante).
In ambito letterario questo secondo filone ha prodotto un recente romanzo breve molto interessante: s’intitola La verità ed è stato scritto da Robert Reed nel 2009. Edito in Italia dalla Delos Books, è stato anche finalista al premio Hugo per la miglior novella dell’anno. La verità è un libro inquietante, un romanzo di spionaggio che ci porta avanti di qualche anno nel nostro futuro, dove l’America e con lei il mondo intero stanno soccombendo sotto i colpi della guerra in Medio Oriente. A un certo punto viene catturato un uomo che ha appena varcato il confine tra Canada e Montana: porta con sé cinque chili di uranio-235 e negli archivi della polizia non c’è corrispondenza delle sue impronte digitali. La storia è tutta giocata sul filo dei nervi, sorretta da una tensione psicologica straordinaria volta alla scoperta del segreto del viaggiatore, che si professa membro di un’armata temporale partita dal XXII secolo per portare la Jihad ai nostri tempi dalla posizione privilegiata delle proprie superiori conoscenze tecnologiche e scientifiche.
Questa versione politicizzata dei viaggi nel tempo vanta illustri predecessori, come il capolavoro di Wilson Tucker, L’anno del sole quieto (1970), dove un ricercatore viene mandato nel futuro per riportare informazioni sugli USA al suo presidente. Il presidente è però una persona debole e pavida, estremamente incerta, e utilizza queste notizie per prendere decisioni che si rivelano immancabilmente sbagliate, una dietro l’altra, innescando una reazione a catena che spinge prima l’America in guerra contro la Cina e poi al collasso dei suoi fragili equilibri interni, con una guerra civile che vede la popolazione di colore rivoltarsi contro il governo.
Dallo scambio di informazioni allo scambio di beni materiali: gli Eterni sono la casta che controlla la Storia in La fine dell’eternità, romanzo di Isaac Asimov (1955) che non può essere tralasciato in una discussione sui viaggi nel tempo. L’Eternità è la corporazione che agisce sugli eventi storici sulla base di un semplice principio “economico” di convenienza, per garantire la prosperità sulla Terra. Andrew Harlan è un Tecnico, che a un certo punto viene incaricato dai suoi superiori di operare una modifica che comporterebbe, come effetto collaterale, la morte della donna che ama. È la molla che fa scattare in lui la ribellione al sistema, che si va a inserire nel più ampio contesto di una contrapposizione tra l’Eternità e l’Infinito. Scopriamo infatti nel corso del romanzo che l’umanità del futuro ha imposto un embargo agli Eterni, che malgrado le loro conoscenze tecniche e il loro controllo del tempo non possono spingersi in determinate epoche del lontano futuro che restano pertanto inaccessibili, e che questa misura estrema è stata adottata per evitare l’estinzione dell’umanità stessa. L’Eternità agisce infatti per conservare la Terra in uno stato di stabilità e di autosufficienza, disinnescando la spinta del progresso che condurrebbe al viaggio interstellare e alla conquista di altri pianeti. Harlan si trova così a dover prendere una decisione da cui dipenderà non solo la sua storia d’amore, ma il destino dell’Eternità e dell’umanità intera.
Il tempo può anche diventare terreno di scontro, come ci insegnano Fritz Leiber con Il Grande Tempo (1957) e Poul Anderson con i racconti della Pattuglia del tempo (1955-60). Leiber – radicalmente meno conservatore di Asimov – mette in scena, con un forte senso teatrale che omaggia Shakespeare, la cosiddetta Guerra del Cambio, combattuta da eserciti di soldati temporali a cavallo delle epoche e dei molti universi possibili originati da ogni alterazione del tempo. A tenere le redini del conflitto due specie aliene dagli attributi di Demoni, i Ragni e i Serpenti, con finalità ed esiti che sfuggono agli stessi protagonisti, ridotti al semplice rango di pedine. Anderson ci regala invece la prima figura di agente temporale, l’ingegnere meccanico Manse Everard, reclutato nel 1954 dal Cronoservizio e di lì in poi coinvolto in brillanti avventure in ogni angolo del tempo, per evitare che paradossi particolarmente gravi possano arrecare danni alla storia, malgrado l’elasticità del tempo e la sua capacità di autoconservazione.
E qui arriviamo all’annosa questione dei paradossi. Quando si parla di viaggi nel tempo in maniera generica, di solito vengono subito al pettine i nodi: e se tornando indietro nel tempo uccidessi mio nonno? Il paradosso del nonno ha subito tutta una serie di varianti, affrontate sul piano narrativo fino a spingerne le premesse verso conseguenze sempre più estreme. Nei racconti dedicati al cronoagente Manse Everard, Anderson immagina un principio di conservazione del tempo, per cui se riuscissimo a uccidere realmente nostro nonno la nostra esistenza non verrebbe messa in discussione in quanto avremmo ammazzato la persona sbagliata, oppure la storia troverebbe un valido sostituto per il suo ruolo. Secondo questo approccio, non sono importanti i dettagli, ma i grandi numeri, e purché restino salve le apparenze la storia è disposta a tollerare anche le nostre piccole manomissioni e i nostri pasticci con il corso degli eventi. E quando diventa indispensabile salvare le apparenze, allora intervengono gli agenti del Cronoservizio…
Sempre il paradosso del nonno appare in una sua variazione ironica e al contempo tragica e malinconica nella novella Palinsesto di Charles Stross (2009): gli agenti della potente organizzazione segreta che controlla i secoli e i millenni dell’umanità, la Stasi, vengono sottoposti a un rito di iniziazione che prevede per l’appunto l’eliminazione del proprio nonno. L’appartenenza viene quindi sancita da un ulteriore atto di fedeltà, che impone la cancellazione della propria esistenza dal tempo, e la possibilità in questo modo di spostarsi a piacimento attraverso la rete di timegate intessuta attraverso il suo flusso, per condizionare il corso degli eventi e perpetuare il predominio dell’organizzazione stessa. Pierce, il protagonista (e qui ci sentiamo di tracciare in un’equazione la corrispondenza con i modelli: Pierce sta a Manse Everard come la Stasi sta all’Eternità), è uno di questi agenti “incaricati del sacro dovere di salvaguardare la nostra specie dalla tripla minaccia dell’estinzione, dell’obsolescenza trascendente e di un cosmo destinato a sfaldarsi nell’oscurità”. Finché non s’imbatte nelle tracce di una cospirazione volta a sovvertire l’ordine delle cose, strappando alla Stasi la sua oscura egemonia.
Il sistema della resilienza al paradosso oscilla da “Rumore di tuono” di Ray Bradbury (1952), dove schiacciare una farfalla nell’età dei dinosauri può avere conseguenze inimmaginabili e i viaggiatori al ritorno possono trovare ad attenderli una Chicago profondamente cambiata, e Anniversario fatale di Ward Moore (1955), in cui un viaggiatore del tempo, partito da un mondo in cui gli stati del Sud hanno vinto la Guerra di Secessione, con la propria comparsa sul campo di battaglia di Gettysburg provoca la disfatta dei confederati e si ritrova nel nostro mondo, all’estremo limite opposto che contempla invece il viaggio nel tempo come pratica del tutto innocua e ininfluente, dove allora si possono anche organizzare vacanze e tour nelle località e nelle date più importanti della nostra storia. L’inalterabilità della storia è dipinta anche da J.G. Ballard nel suo racconto “L’assassino gentile” del 1961: forte dei suoi studi sulla fisica delle particelle, il professor Roger Jamieson, inventore del viaggio nel tempo, torna indietro di trentacinque anni per rivivere una data funesta della propria giovinezza, l’uccisione accidentale della fidanzata nel corso di un attentato al nuovo re d’Inghilterra. Nel tentativo di prevenire la tragedia, Jamieson compie la sconcertante scoperta che il suo stesso viaggio ha concorso alla sua realizzazione, che si rivela quindi impossibile da scongiurare.
Altro paradosso: come possiamo spedire della massa attraverso il tempo? Quantum Leap – In viaggio nel tempo (serie TV con Scott Bakula e Dean Stockwell prodotta da Donald P. Bellisario, di cui furono realizzate 5 stagioni tra il 1989 e il 1993) propone una soluzione decisamente originale: e se a viaggiare fosse solo la coscienza, che di volta in volta avrebbe bisogno di un corpo già fisicamente presente nel tempo di arrivo per incarnarsi? Le avventure dello scienziato Sam Beckett si trasformano così in una lunga via crucis attraverso la storia americana del Novecento, alle prese con casi personali e storie umane dalla cui risoluzione dipenderà il suo ritorno al tempo di origine.
Per sciogliere il nodo dei paradossi molti autori, come Reed e Leiber, si appoggiano all’ipotesi del multiverso: ogni alterazione del passato genera una biforcazione nel tempo e così l’universo si ramifica in un albero di universi paralleli per tener conto di tutti i possibili esiti di un’interferenza. Ritroviamo in qualche modo lo stesso concetto nella serie TV Fringe di J.J. Abrams, Alex Kurtzman e Roberto Orci (creata nel 2008 e giunta alla quarta stagione), in cui un’organizzazione segreta manipola il corso del progresso per innescare una singolarità tecnologica distruttiva, e la protagonista Anna Torv (nei panni dell’agente Olivia Dunham) si trova a poter saltare da un universo all’altro tra quelli che potrebbero risultarne, con conseguente incontro/scontro con il proprio doppelgänger.
Il tema del doppio ricorre nei romanzi di due autori non strettamente legati al genere, ma che malgrado questo hanno saputo regalare al filone dei viaggi nel tempo dei veri e propri capolavori: parliamo di La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo di Audrey Niffenegger (2003) e di Rabbia. Una biografia orale di Buster Casey di Chuck Palahniuk (2007).
Quella di Audrey Niffenegger è un’incredibile storia d’amore e viaggi nel tempo narrata facendo un contrappunto delle voci dei due protagonisti: lui, affetto da una disfunzione genetica chiamata “cronoalterazione”, incorre in improvvisi e imprevedibili salti temporali che lo portano avanti e indietro nel tempo; lei, dopo averlo conosciuto da bambina, se ne è innamorata e ha accettato i bizzarri effetti della sindrome. Ogni volta che lui parte, lei aspetta che torni. E nel frattempo lui esplora il passato e il futuro delle storie di entrambi, incontrando le versioni più giovani e più anziane di se stesso e di sua moglie, e quello della loro futura bambina. Straordinario esempio di ibridazione tra la fantascienza e il romance, La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo dimostra come l’angolazione fantascientifica possa essere utilizzata per iniettare nuova verve in una storia d’amore.
Più scanzonata e dirompente è invece l’opera di Palahniuk: tra paradossi e ambiguità, Rabbia racconta la storia di Buster Casey detto “Rant” attraverso i punti di vista delle persone che lo hanno conosciuto. Rant, apprendiamo poco a poco, è arrivato a meritarsi il titolo di nemico pubblico n. 1 del governo nel momento in cui ha cominciato a spargere il virus della rabbia tra i suoi coetanei, poco dopo essere arrivato in città, portando al dilagare di un’epidemia che ha trasformato metà della popolazione in lupi mannari insaziabili. Ma a rendere speciale la storia di questo untore moderno è anche il sospetto che, grazie proprio all’infezione da rabbia combinata alla tecnologia di innesti neurali invalsa nel futuro distopico immaginato da Palahniuk e alla pratica del party crashing (ovvero provocare incidenti stradali con trovate sempre nuove e stravaganti), Rant avrebbe scoperto il segreto per viaggiare nel tempo. La storia, frammentata e riportata in forma di “biografia orale”, appunto, quasi si trattasse di un documentario sulla vita di Rant ricostruita attraverso le testimonianze dei diversi personaggi, ci lascia intuire cosa può essere successo seguendo la trama delle diverse ipotesi fiorite sul suo conto e sul suo destino. Dalla leggenda di essere un immortale figlio di se stesso alla possibilità di essere un martire votato al sacrificio per la salvezza di sua madre e dell’umanità intera.
In questi due ultimi esempi letterari appare evidente la natura del viaggio nel tempo come pretesto narrativo, come espediente per gettare nuova luce su qualcosa di abusato come una storia d’amore oppure su un fenomeno come la mitopoiesi contemporanea favorita dai media: vale a dire la costruzione di icone mediatiche e di mitologie più o meno discutibili intorno al loro conto. Il viaggio nel tempo, come insegna Life on Mars, la stupefacente serie TV con John Simm e Philip Glenister prodotta dalla BBC (ideata da Matthew Graham, Tony Jordan, Ashley Pharoah) tra il 2006 e il 2007, resta sempre e comunque un altro modo, forse meno diretto e più contorto, ma proprio per questo tanto suggestivo e interessante, per porsi in fin dei conti quelle stesse vecchie domande che si celano dietro ogni storia. Chi sono davvero? Che senso ha questa vita? Dove stiamo andando?
Se davvero stiamo andando da qualche parte…

Avanti nel tempo
La macchina del tempo più grande del mondo, o meglio, una macchina del tempo grande come tutto il mondo, è quella che nel 2000 il canadese Robert J. Sawyer immagina nel romanzo Flashforward, che con la serie televisiva che ne è stata tratta condivide a malapena lo spunto iniziale. Se il ben più famoso flashback è la tecnica narrativa di raccontare eventi passati intercalandoli nello svolgimento dell’azione attuale, il flashforward consiste al contrario nel salto narrativo opposto, al fine di raccontare eventi futuri che ancora devono avere luogo nel tempo dell’azione principale.
Nell’anno 2009 al CERN di Ginevra si sta effettuando un esperimento con il Large Hadron Collider (LHC), l’acceleratore di particelle più potente al mondo, per trovare tracce del famigerato bosone di Higgs, la particella fondamentale che sarebbe all’origine dell’esistenza della materia nell’universo. Quando viene avviato l’esperimento, tutti svengono. Riacquistando i sensi ognuno scopre di aver avuto una visione del futuro durata un minuto e quarantatré secondi. O meglio, come se la sua coscienza fosse stata quella del proprio io futuro, ciascuno ha visto ciò che vedeva costui. Lo stesso destino è toccato all’intera umanità e questo ha provocato in giro per il mondo un numero spaventoso di incidenti stradali, disastri aerei e altre tragedie.
I protagonisti impiegano poco a capire che tutti al mondo sono svenuti nello stesso momento e hanno condiviso questa esperienza di immedesimazione nel proprio io futuro. Attraverso un programma informatico chiamato Mosaico, dove chiunque può inserire la propria visione, scoprono che tutto il mondo ha avuto una visione di ciò che accadrà in un certo momento del 23 ottobre dell’anno 2030. Tutti tranne qualcuno che non ha avuto alcuna visione, il che dovrebbe significare che nel 2030 sarà morto. Uno dei fisici protagonisti, Lloyd Simcoe, si è visto nel futuro con una donna che non è la propria compagna attuale e questo getta una pesante ombra sul loro rapporto. Un altro dei fisici, Theo, che non ha visto nulla, inizia a cercare testimonianze sulla propria morte, anzi, come scoprirà presto, sul proprio assassinio.
A questo punto si scontrano due visioni antitetiche del mondo. Simcoe ha una visione deterministica, il futuro è già lì, è immutabile, non esiste libero arbitrio, la consapevolezza del mondo è slittata di lato. Il tempo a venire, dal suo punto di vista, si mostra come una traiettoria già definita nello spazio-tempo quadridimensionale di Minkowski. L’uomo si muove nella propria vita e nella storia come il personaggio di una tragedia greca, in cui tutto è già scritto dall’inizio, Edipo ucciderà il padre e sposerà la madre, e questo è esattamente ciò che avverrà, per quante precauzioni si vogliano prendere. Per Theo, che non ha alcuna voglia di morire, in base alla fisica quantistica il futuro non è determinato a priori, e lui intende fare di tutto per scongiurare la propria morte.
Si tenta un secondo esperimento per cercare di capire cosa sia avvenuto la prima volta, questa volta naturalmente in accordo con le Nazioni Unite e avendo adottato le opportune misure di sicurezza. Stavolta però non accade nulla, nessuno sviene. O meglio, qualcosa accade: si scopre il bosone di Higgs, i fisici sono entusiasti e non riescono a capire per quale motivo il resto del mondo, deluso per non aver avuto la possibilità di dare una seconda sbirciata al futuro, non condivida questa felicità. Dopo un po’ arriva la spiegazione: la prima volta, l’esperimento era stato modificato dall’arrivo sulla Terra di un fascio di neutrini emessi da un oggetto stellare di difficile individuazione.
Dopo anni, si presenta la possibilità di poter prevedere l’arrivo di un nuovo sciame di neutrini e sincronizzare quindi l’esperimento. È proprio la data del primo flashforward, il 23 ottobre 2030: Theo riesce a sventare il proprio assassinio e il sabotaggio dell’esperimento, che ha successo. Ma questa volta pochissimi vedono qualcosa, la visione infatti è nel futuro remoto, miliardi di anni in avanti, quando l’umanità avrà prima costruito una sfera di Dyson intorno al Sole e poi si sarà sparsa nelle galassie, quando tutti, a parte pochi eletti immortali, saranno morti.
E il romanzo si chiude con questa visione vertiginosa che rimanda direttamente a Wells, da cui tutto ebbe inizio.

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