Il prezzo dei beni che acquistiamo

di Sandro Battisti, 22/12/2014

Che cosa rende appetibile la tecnologia, o un nuovo standard multimediale, o ancora un metodo di fruizione dei contenuti rivoluzionario, agli occhi del consumatore? C’è interazione tra l’oggetto, la tecnologia e i tempi storici in cui nasce la novità o, per essere più precisi, il momento in cui il nuovo oggetto vede la luce nella forma di prodotto commerciale?
Guardando un po’ di indizi disseminati nel nostro presente, analizzandoli, ci si può accorgere che la differenza, il fattore discriminante che il consumatore avverte, risiede nel prezzo di acquisto. Ciò che guida l’acquirente più di prima, in questi anni di ristrettezze e incertezze economiche, è il costo con cui riesce a portarsi a casa il bene che ha scelto; avveniva pure nel passato, certo, ma la sensazione che la ricerca spasmodica di un importo basso sia aumentata a dismisura, e che il mercato stia cominciando a mangiare se stesso, è pregnante.
Di esempi che suffragano queste osservazioni ce ne sono molti: si può citare tanto per cominciare Amazon, che ha da poco aperto la filiale italiana dove vende, così come accade nel resto del mondo, oggetti e software di vario tipo a prezzi bassissimi (libri, musica, ebook, lettori e-book, quest’ultimi con pochi competitor sul mercato). Tali vendite sono spesso sottocosto, ovvero sotto la soglia della spesa di produzione. E almeno nel campo editoriale hanno subito scalfito l’interesse delle lobby, che si sono immediatamente attivate attraverso il legislatore, ottenendo una normativa liberticida nonché potenzialmente disincentivante nei confronti della cultura.
Anche nel mondo dei tablet si può trovar traccia di queste particolari condizioni di vendita: la Hewlett Packard ha tolto dal magazzino i suoi rivoluzionari tablet – muniti dell’altrettanto rivoluzionario sistema operativo WebOS – vendendoli a prezzi risibili perché, altrimenti, avrebbe dovuto buttarli: il prezzo pieno (prossimo a quello dell’iPad) non garantiva che la vendita di pochissimi esemplari; in sostanza, HP e altri produttori non riescono a diffondere i propri prodotti sul mercato come è successo per l’iPad se non svendendo, pur avendo spesso i device caratteristiche tecnologiche nettamente superiori.
Pure gli e-book sembrano seguire la stessa logica: cosa vende di più? A prescindere dal contenuto, vende il libro digitale che ha il prezzo più basso, a patto che sia anche senza i DRM (ovvero i lucchetti digitali) che assicurano soltanto noiose e a volte complesse operazioni per il cliente meno esperto di tecnologia, protezioni aggirabili comunque dall’utente più navigato che, probabilmente, aspetterà solo il momento più propizio per vendicarsi, magari diffondendo l’opera sprotetta sulle reti di condivisione.
È altresì vero che la filiera manifatturiera tende a considerare sempre meno la forza lavoro (non solo sottopagata, ma a cui si riducono oltre l’osso le misure di sicurezza, di comodità e quant’altro); spesso le condizioni di lavoro salariato appaiono assimilabili a quelle degli schiavi dell’età classica, dove si ergevano meraviglie architettoniche con l’ausilio di manovalanza a costo zero. Si potrà obiettare che non è così, che ci sono i diritti sindacali, legali e via dicendo a difendere il lavoratore dai soprusi delle proprietà, ma la recente storia FIAT insegna che la controtendenza è avviata (da lungo tempo, in realtà) e che tutto il mondo del lavoro italiano si conformerà a queste nuove realtà (come rileva molto bene questo articolo dei Wu Ming.
In definitiva, se non si abbattono pesantemente e drasticamente i prezzi al dettaglio, i beni non si vendono e le nuove tecnologie non decollano; pure quando decolleranno, avranno sempre bisogno di essere fruite a importi davvero stracciati, sottocosto. I profitti saranno dati non dal singolo pezzo ma dalla possibilità di vendere più unità possibili, con un guadagno individuale che si discosta di poco dallo zero. La questione del prezzo stracciato si riflette pure nelle politiche commerciali dei punti vendita alimentari o dei discount e anche qui è facile comprendere che lo store che riscuote maggior successo è quello che assicura i prezzi più bassi e che magari riesce a garantire (ma non è espressamente richiesto dal consumatore) anche un pizzico di qualità. A questo proposito, si possono notare gli effetti delle politiche marketing delle grandi multinazionali, vedi la Apple per esempio, che costringe i dipendenti-schiavi di un nuovo punto vendita a buffonate vomitevoli, tipo balli studiati a tavolino per incentivare il senso di appartenenza del cliente a una filosofia cool, patetici tentativi di coinvolgimento del pubblico che, per fortuna, qui da noi sortiscono ancora bassi risultati (per sentirsi male, basta cliccare qui).
Non sono un economista né un perfetto conoscitore del mercato, e quindi la mia teoria va confermata, ricalibrata, smentita dalle considerazioni di chi legge; e se tutto ciò non fosse soltanto un sintomo, un manifestarsi del reale valore delle cose? In questi decenni, come si evince dagli interventi (anche) di Sergio “Alan D.” Altieri e, nel passato, di Valerio Evangelisti, apparsi spesso su Carmilla on Line, con una panoramica agghiacciante ma vera Altieri ci mostra il disfacimento strutturale della nostra società, italiana in primis, votata al puro marketing e quindi senza valore e significato, se per significato vogliamo intendere qualcosa di diverso dalla moneta di carta straccia, una valuta gonfiata artificialmente dagli operatori internazionali del settore. Ecco, il punto o uno dei punti fondamentali è proprio questo: c’è stato un gonfiarsi spropositato del valore del denaro, ne è semplicemente circolato troppo perché sopravvalutato, perché svincolato dalle effettive riserve auree possedute dalle singole nazioni. Ciò ha conferito un prezzo arbitrario ai beni, il mercato è vissuto su una bolla inflazionistica impressionante che ora si sta, semplicemente, sgonfiando, sta riprendendo il suo reale valore. Una piccola prova del nove di tutto questo? Provate a organizzare dei pasti completi, per una settimana almeno, a un centinaio di persone, e provate poi a calcolarvi il costo singolo di ogni pasto: sarete davvero sfortunati se supererete i due euro a persona. Ma questo non è certo un segreto per chi fa della ristorazione la sua attività, e ciò ci riporta al reale valore dei beni che consumiamo, che compriamo. Io credo che, comunque, la cartina al tornasole di tutto il discorso sia questa: assunto 100 il valore economico globale, abbiamo vissuto in questi decenni con un sistema gonfiato pari a centinaia, forse 1000; per riportare a 100 il tutto bisogna lavorare o sui beni, oppure su chi li produce, riducendolo in una condizione prossima alla schiavitù. La sfida del futuro credo si risolva tutto in questa dicotomia.
Ne consegue la domanda finale: è giusto pagare cifre fuori scala per acquistare ciò che ci serve? Qual è il valore reale dei beni che compriamo, in questo momento storico? Fino a che punto ha senso, perciò, viste le considerazioni sul reale costo del denaro, alimentare il mercato dai prezzi gonfiati? È davvero incombente la fine di un regime economico?
Perdonatemi l’ultima considerazione: il senso di un mondo distopico che si richiude e vive sul potere delle organizzazioni bancarie è dietro l’angolo; i peggiori incubi degli scrittori di SF sociologica stanno per avverarsi, e tutti andiamo verso il baratro cantando la tecnologia che ci libera e che invece non è mai stata noiosa come adesso, ripiegata su se stessa e incapace di dire qualcosa di nuovo – puro marketing. Stiamoci attenti, apriamo gli occhi, siamo nelle saldi mani delle corporazioni-multinazionali mondiali, molto più di quanto ci possa sembrare.

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