V per una Vera Vendetta

di X, 27/09/2007

Il malaffare Wachowski, ovvero: come diluire la carica rivoluzionaria di un capolavoro in un prodotto di mera evasione.

Ha qualcosa di preoccupante l’operazione che ha portato sul grande schermo quello che forse è il fumetto più significativo dell’ultimo mezzo secolo. Il passaggio dalla carta alla pellicola non ha arriso al capolavoro di Alan Moore che – e dopo la visione non è difficile comprenderne le ragioni – non ha esitato a rinnegare l’operazione cinematografica, passando per il solito artista genialoide e capriccioso.
In realtà, mai presa di distanze fu più legittima.

All’epoca della sua pubblicazione (dapprima a episodi sulla britannica Warrior a partire dal 1982, esperienza interrotta con la chiusura della rivista e quindi ripresa grazie alla DC nel 1988, per poi passare in volume tascabile), il graphic novel nato dalla fantasia di Moore e illustrato con tratto sicuro anche se a volte un po’ anonimo da David Lloyd, fece scuola come quasi tutta la restante produzione dell’autore inglese, imponendosi prestissimo come modello e punto di riferimento. La complessità psicologica del protagonista, la brillante intuizione di lasciare ignota la sua identità dalla prima all’ultima pagina del fumetto pur fornendo al lettore indizi – spesso discordanti, in una continua moltiplicazione delle piste – per risalire alle sue origini, l’ambientazione distopica e la cupa atmosfera apocalittica, sono tutti elementi che si combinano alla perfezione in un amalgama esplosivo. Come risultato, l’originale V per Vendetta imbriglia nel campo di contenimento delle tavole la carica ideologica più potente che si sia mai vista in un romanzo, grafico o meno che sia. Il citazionismo esasperato di Moore contribuisce all’impatto della missione di V, anarchico solitario e istrionico in lotta contro la tirannia di un regime fascista asceso al dominio del Regno Unito, che fa della sua sintetica firma un simbolo dell’opposizione alla dittatura e si ispira alla triste e sventurata figura di Guy Fawkes, cospiratore cattolico artefice nel 1605 del fallito attentato alla House of Lords poi passato alla storia come Congiura delle Polveri, e da allora evocato ogni 5 di novembre nel rituale rogo di un fantoccio che ne distorce le fattezze in caricatura. Ma è soprattutto alla luce dei continui riferimenti culturali che incontriamo nella lettura che possiamo desumere la vera essenza della personalità del misterioso, enigmatico V. Nell’alchimia tra Shakespeare e Pynchon, tra il cinema noir e la tragedia greca, fondendo il mito di Faust con William Blake, la musica dei Rolling Stones e quella dei Velvet Underground, i Monty Python, T.S. Eliot e l’onorata tradizione americana dei supereroi con superproblemi, è sintetizzato il carattere del protagonista che è emblema e icona non di un concetto astratto di rivoluzione, ma di un processo meditato e consapevole di ribellione e sovversione che affonda le radici nell’humus più fertile della nostra cultura, la cultura popolare che propone e stimola la riflessione critica sulle dinamiche del mondo, della società e della storia, contrapposta alla Cultura istituzionale premasticata dal regime del Fuoco Noreno e poi dispensata a tutti i cittadini depurata da qualsiasi potenzialità di approfondimento, svilita nell’omogeneizzato mediatico in onda per radio 24 ore su 24 (un tocco retrò che è anche un’allusione ai primi esperimenti di controllo di massa operati dai ministeri della propaganda del Terzo Reich e dell’Italia Fascista). La forza della poesia, verrebbe da dire, contrapposta alla pappa psichica dei mass media asserviti al potere.
V, scopriremo, non è solo nella sua lotta. La sua battaglia, nata come un atto di pura vendetta contro i suoi torturatori, si trasforma ben presto in una guerra senza quartiere che dà voce al malessere e al disagio diffuso in tutti i ceti oppressi di questo futuro decadente che la storia, nel suo impietoso trascorrere, ha relegato nel nostro recente passato (1997-98). Ma come la giovane Evey Hammond, reclutata da V al termine di un terribile, drammatico rito di iniziazione, o come il detective Finch, l’unico a ricostruire le evanescenti tracce del passato di V, il lettore acquista progressivamente consapevolezza di quanto poco istruttivi siano stati i nostri errori, e di come gli orrori del passato attendano pazienti dietro l’angolo, pronti a riproporsi nel futuro.

Sotto il tallone di ferro del partito unico, che amministra la vita dei cittadini fin nei minimi dettagli, dai turni di lavoro al razionamento dei generi alimentari, dallo spettacolo al costume (come ogni regime che si rispetti, il Fuoco Noreno ha un Leader, un po’ tycoon e un po’ Grande Fratello – mediocre nella sua tragica solitudine che tuttavia è di un tipo diverso rispetto alla solitudine di V, ossessionata dal controllo e dalla sete di potere com’è – che si serve di un supercomputer chiamato Fato per amministrare l’Inghilterra e i suoi molteplici, quasi onnipotenti servizi segreti), inquadrati nel codice che spaccia per dovere patriottico il più ottuso e becero nazional-populismo (“Prevalga l’Inghilterra!”, lo slogan ripetuto allo sfinimento dai funzionari dello Stato), i cittadini hanno subito passivamente la diluizione di qualsiasi istanza di dissenso, sottoposti al quotidiano lavaggio del cervello dei mezzi di comunicazione. Ma, come insegnava qualcuno che rivoluzionario non era di certo, non è morto ciò che in eterno può attendere… ed è sempre possibile trovare una scintilla nascosta sotto le ceneri della speranza e del libero arbitrio. A volte basta meno di quanto ci si aspetterebbe: V, variabile impazzita, lo capisce per primo e dispensa ai suoi concittadini milioni di maschere identiche alla sua. Un inno all’omologazione? Un tentativo di riportare alla luce istinti animali approfittando della copertura dell’anonimato? Niente di più sbagliato.
Le maschere di Guy Fawkes indossate dagli inglesi in rivolta forniscono quel pretesto di immedesimazione che serve per chiudere un circuito, rivelando come la battaglia di V sia la guerra di tutti, una lotta volta a riconoscere pari diritti e dignità all’intera popolazione. Il sacrificio di V è paradigmatico in questo senso: l’uomo-non-uomo che ha instaurato la Terra del Fa'-Come-Ti-Pare toglie il disturbo e lascia la responsabilità di edificare l’Ordnung – l’Ordine nuovo, Volontario – agli altri, i dormienti che finalmente hanno aperto gli occhi, i sopravvissuti al ciclo distruttivo del Verwirrung. E così V se ne va con la più spettacolare delle uscite di scena, completando in questo modo la sua rivoluzione da avanspettacolo con una trovata degna del più vile cabaret.

Comprensibile che un soggetto di questo tipo finisse per stuzzicare le più torbide fantasie delle peggiori coscienze hollywoodiane. In una contingenza storica come quella che ci troviamo ad attraversare, il tema del terrorismo e del controllo politico fanno leva sull’immaginario del pubblico come non mai, promettendo prospettive di monetizzazione senza precedenti. Fin qui, in linea di principio, non ci sarebbe nemmeno niente di male. I fratelli Andy e Larry Wachowski (reduci dalle alterne sorti della trilogia di Matrix, comunque entrata nell’immaginario di almeno una generazione), attraverso la loro neo-costituita Anarchos Productions e sotto l’egida di Joel Silver e della Warner Bros, hanno acquistato i diritti dell’opera direttamente dai suoi creatori, Moore e Lloyd, pagandoli presumibilmente a peso d’oro. Legittimo che nelle loro intenzioni ci fosse l’obiettivo di ricavarne il massimo profitto – è su questo dopotutto che si regge l’industria dello spettacolo. Quello che desta invece sconcerto è il prosieguo dell’operazione, con un adattamento che più che una trasposizione è in realtà una riduzione, nel vero senso della parola, che toglie al lavoro originario qualsiasi istanza sovversiva e riduce la carica ideologica a un puro e semplice spettacolo da baraccone. È la logica da circo dell’industria cinematografica: svuotare un soggetto di ogni contenuto rendendolo di fatto inoffensivo, ma di un’innocenza della peggior specie, quella che anestetizza i riflessi di reazione e rende vana ogni istanza di riflessione. Il film confezionato dallo yes-man James McTeigue (già assistente alla regia di George Lucas e degli stessi Wachowski) è un’opera insipida e pericolosa allo stesso tempo, perché spaccia per rivoluzionarie tesi che sono tutt’altro, servendo su un piatto d’argento le sue portate alla tavola dei regimi morbidi (delle lobby politico-finanziarie e dell’informazione) dei nostri tempi. E in quest’ottica non desta stupore che, dopo il gran parlare che se ne fece in fase di produzione (con dibattiti inesauribili sulla liceità di un’operazione simile in frangenti internazionali così delicati), all’uscita nelle sale il V per Vendetta dei fratelli Wachowski sia stato accolto con giudizi generalmente positivi dalla critica, soprattutto nostrana. Non meraviglia che in un Paese in cui i massimi esponenti nazionali dell’informazioni mettano in guardia l’opinione pubblica dal rischio di deriva fascista rappresentato dalla protesta di cui Beppe Grillo è voce e spia piuttosto che promotore, un Paese come il nostro asservito da sessant’anni a una classe politica mediocre che ha nella difesa dei privilegi la sua massima priorità, un film mediocre come questo, che banalizza la tragica grandiosità del fumetto, venga accolto con compiacenza e soddisfazione.
È inutile dilungarsi sulla disamina del fenomeno. Il film vive di un paio di momenti di lucidità che fanno sussultare lo spettatore tra una lunga dormita e l’altra: vale la pena ricordare solo la tortura inflitta alla stupenda Natalie Portman (indubbiamente la cosa migliore di tutta la pellicola) da V, tutto sommato apprezzabile se ci si sforza di ignorare il paragone con la ben più drammatica riuscita che questa sequenza aveva nel fumetto (dove viene tutta giocata sull’ambiguità e la confusione dei livelli, mentre nel film resta solo la sadica ma necessaria messinscena di V); e l’incursione televisiva di V giocata con la complicità di uno degli ultimi oppositori al regime – che non a caso vive in una casa colma di libri, proprio come il nostro giustiziere senza volto – in una trasmissione che pare concretizzare i sogni di rivalsa ai danni del circo mediatico covati da milioni di telespettatori. Per il resto è un continuo accumulo di luoghi comuni, che vanifica la carica drammatica di V in una recitazione farsesca, con la connivenza di una regia assente che manca di sottolineare i momenti di maggiore pathos che pure la sceneggiatura doveva avere previsto. A visione ultimata, lo spettatore comprende finalmente perché Alan Moore debba avere aspettato la produzione del film per dissociarsene, invece di rinnegare direttamente il copione. Quello che sulla carta era un annacquamento delle sue idee e intuizioni, in fin dei conti forse comprensibile considerato il coinvolgimento di una major, sulla celluloide si trasforma in uno stravolgimento completo dell’opera originaria.

Tolta anche la base spettacolare, dopo avere addomesticato le proposte rivoluzionarie del soggetto, resta una pellicola scialba, priva di mordente e di interesse, che anzi potrebbe allontanare dalle pagine “pericolose” del fumetto potenziali, giovani fruitori.
Questo sì, sarebbe un delitto. Perché il V per Vendetta di Alan Moore e David Lloyd non dovrebbe mancare nella biblioteca di nessuno, come altri classici contemporanei riconosciuti benché di minore portata. Dopo il disagio della visione, la lettura sì che potrebbe rinfrancare gli animi e le menti, ripagandole con la dignità di un messaggio che vale davvero la pena di fare proprio. Specie in tempi di totale asservimento come questi. Questa potrebbe essere allora una Vera Vendetta, da ritorcere contro gli ideatori della sconclusionata impresa hollywoodiana. Non datevi per vinti!
Vi Veri Veniversum Vivus Vici.

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