>Racconti
Yuna Shin
di Lukha B. Kremo

Quel pomeriggio tornai a casa prima del solito, era passato da poco mezzogiorno, ma non c’era da giurarlo, se non fosse stato per l’orologio del cellulare. La nebbia era salita all’alba e si era attardata per le strade, come alimentata da una turbina, diffondendo la luminescenza in tutte le direzioni; da qualche parte ci doveva pur essere un sole. L’aria non era neanche tanto fredda, anche se fastidiose goccioline di condensa (quella che i poeti chiamano rugiada) ti si posavano sul naso filtrando l’umido nelle ossa. A un certo punto tutto quel bianco sarebbe sfumato in grigio, e poi in nero, e ci si sarebbe ritrovati nella notte.

In una giornata così, tenni le tapparelle abbassate e mi attaccai in Internet, risorsa infinita e casuale, pregna di pornografia di bassa lega e pubblicità sanguisuga. Uno schifo che ha però il pregio dell’imprevedibilità.
Chattai come un bimbo eccitato, dicendo le idiozie più noiose del pianeta. Ma conobbi Yunayang Shin, dalla Corea. Annotai il suo nome insieme a quelli di altri.

Qualche giorno dopo vidi quel nome lampeggiare sul desktop. Ci mettemmo a parlare sul serio. Quello che mi intrigò fin da subito fu la sua riluttanza a parlare di sé, come se fosse intimorita dalla mia presenza. Certo, è una caratteristica delle donne orientali quella di essere discrete, ma Yuna Shin non era esattamente timida, anzi era curiosa, voleva sapere com’era il tempo, cosa facevo, quali erano i miei gusti, dove andavo la sera; quando però le rivolgevo le stesse domande ribatteva in modo evasivo.
Yuna usciva poco, faceva lavori di casa con le sorelle e il padre, non ascoltava musica, amava il teatro tradizionale kabuki, niente karaoke e niente maschietti. Quasi una donna d’altri tempi assalita da una spigliatezza e una curiosità occidentali. Ma la sua riluttanza a parlare di sé permase e la sua figura rimase avvolta da una foschia inevitabile.

Dopo qualche contatto decisi di mandarle una mia foto. Le piacque, ne chiesi una sua, ma disse di non averne. Immaginai che si vergognasse per qualche motivo, cosa potevo pensare?, che fosse brutta, o grassa, o avesse chissà quale difetto.
Stavo per mollare la conversazione, forse non era il caso di proseguire, se lei era così restia e non voleva nemmeno farsi vedere, che razza di amicizia sarebbe nata?
Le chiesi se c’erano dei problemi, la rassicurai che ero pronto a qualsiasi cosa. In fondo mi pareva di aver visto tutto al mondo. Mi rispose che non c’era nessun problema particolare e che se avessi pazientato, mi avrebbe inviato una sua immagine.

Qualche giorno dopo mi giunse la foto di una ragazza orientale molto carina, ritta davanti a una parete, vestita con un hanbok tradizionale coreano, giacca a lunghe falde e gonna lunga, le mani congiunte davanti, con un’espressione di naturale riverenza. Il viso era di una bellezza limpida, la pelle tersa e liscia, il naso accennato, gli occhi allungati verso l’esterno che le donavano un’espressione nobile e un caschetto nero come l’inchiostro.
Rimasi stupefatto e, per la verità, infatuato da quella fotografia. Ma perché aveva esitato tanto? Potevo pensare che avesse cercato la fotografia di qualche modella, per nascondere il suo vero aspetto, oppure che fossi io a non aver compreso il suo discreto e lento aprirsi come un fiore, mostrandosi gradualmente proprio perché così bella, che fossi io a essere l’occidentale precipitoso.
Le confessai che era bellissima e che non riuscivo più a staccare lo sguardo dalla sua immagine, che m’ipnotizzava dallo schermo del computer. Reagì con un entusiasmo contenuto.

Le chat si susseguirono e cominciai a parlarle dell’Italia, di quello che si fa la sera, di come il lavoro va e viene, dei casini che succedono nel mondo. Yuna sembrava vivere in uno splendido isolamento nella sua Corea atavica. Era dispiaciuta di non poter apprezzare tutte le mirabilie occidentali, ma anche di quelle orientali. Mi confessò che il padre non la faceva mai uscire, non che fosse un crudele padrone, mi disse, ma era costretto a fare così con lei e tutte le sue sorelle. Il motivo, ovviamente, non venne fuori, e cominciai a ripensare ai difetti fisici. Non le confessai nulla, ma Yuna sembrò intuire i miei timori e fece seguire altre due o tre fotografie, che la ritraevano in piedi, di profilo e in primo piano. Molto poco rispetto alla ventina di immagini che le avevo mandato io, ma tant’era.

Con il passare dei mesi la cosa non ebbe più importanza, perché era nata tra noi una complicità epistolare e un forte legame. Potevo parlarle dei miei problemi e lei mi porgeva la spalla su cui consolarmi. Io me ne ero innamorato, e, a tratti impercettibili, riuscivo a intuire anche il suo affetto per me. Era diventata una vera amica e come tale evitai gli argomenti di cui non amava parlare. Certo, le dicevo spesso che era stupenda, cercando di capire se fosse veramente come in fotografia, o le parlavo di mio padre, sperando che accennasse al suo e al motivo che lo spingeva a tenere tutte le figlie in casa.
I suoi occhietti orientali emanavano una dolcezza che ti piegava il cuore, il suo corpo sembrava scolpito ed era incontrollabilmente attraente. La desideravo fortissimamente, e dovevo incontrarla di persona.

Glielo confessai, ma lei si oppose con tutte le forze. Era semplicemente impossibile. Nemmeno se fossi andato io in casa loro, nemmeno se avessi pagato vitto e alloggio. Non insistere, è così, la risposta era definitiva. Questo netto diniego accrebbe i miei dubbi, ora dovevo assolutamente sapere di chi mi ero innamorato. Avevo il forte desiderio di incontrarla e di toccarla, di baciarla. Fosse stata anche diversa, brutta o mutilata, ormai mi aveva conquistato. Dovevo andare da lei, anche di nascosto.