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Berenice Cyberpunk

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Il Silver-Key brucia fibre mieliniche e ricordi. Dall’esterno, sento il frastuono di un palazzo che crolla. Potrebbe essere quello accanto al mio, ma non m’importa. Le tracce codificate me la riportano davanti, risalendo il flusso del tempo.
Berenice.
Negli intervalli lucidi della mia infermità la sua disgrazia mi addolorava, è vero, e prendendomi vivamente a cuore la rovina totale della sua bella e dolce vita, non mancavo di riflettere spesso e con amarezza ai mostruosi lavorii che avevano provocato così all’improvviso una tanto strana mutazione. Ma queste riflessioni non facevano parte dell’idiosincrasia del mio male, ed erano tali che avrebbero potuto presentarsi in circostanze analoghe alla massa comune dei mortali. Fedele al proprio carattere distintivo, il mio disordine indugiava nei mutamenti meno importanti ma più sorprendenti operatisi nella struttura fisica di Berenice, nella singolare e terrificante distorsione della sua identità esteriore.
Durante i giorni luminosi della sua ineguagliata bellezza io certamente non l’avevo mai amata. Nella misteriosa anomalia della mia esistenza i miei sentimenti non erano mai stati del cuore, e le mie passioni erano sempre state della mente. Nel grigiore del primo mattino, tra le ombre dello sprawl a mezzogiorno, nel silenzio della mia infoteca la notte, lei aveva aleggiato dinanzi ai miei occhi, e io l’avevo veduta come la Berenice di un sogno, non come un essere della terra, terreno, ma come l’astrazione di un tale essere, non come una cosa da ammirare, ma da analizzare, non come un oggetto d’amore, ma come il tema di una speculazione estremamente astrusa per quanto sconnessa. E ora, ora io rabbrividivo alla sua presenza, impallidivo al suo avvicinarsi; e pur compiangendo amaramente le sue condizioni miserevoli di decadimento, mi rammentai che da tempo lei mi amava e in un istante malaugurato le parlai di matrimonio.

Qui mi sono limitato all’innesto di un periodo all'inizio della sequenza e alla sostituzione di un paio di termini (“sprawl” per “foresta”, “infoteca” per “biblioteca”); il rimanente del testo è quello originale. È interessante notare come, una volta gettate le premesse per la virata tematica e d’ambientazione nella prima metà del racconto, il testo origninale aderisca alla nuova veste quasi senza problemi. Scegliere un autore affine, oltre a rendere il mash-up più verosimile, spazza il campo da ogni tentazione parodistica e ironica. Teorema semplice (più lontano sarà il testo originale dai temi e dagli interventi del mash-up, tanto più l’effetto sarà straniante e ironico) ma utile, come chiave di volta, per cercare vie meno uniformate alla paralisi narrativa della semplice parodia.

Ed ecco che finalmente il momento delle nostre nozze si stava approssimando: durante un pomeriggio, nell’inverno di quell'anno – una di quelle giornate fuor di stagione, calde, calme, piene di foschia, che ricorrono di rado nella tetra Frisco – io sedevo in un angolo remoto dell’infoteca. Alzando gli occhi mi accorsi che Berenice mi stava di fronte.
Era frutto della mia immaginazione eccitata, o dell’influenza nebbiosa dell’atmosfera, o del crepuscolo incerto della stanza, o erano forse i grigi panneggi che cadevano in pieghe attorno alla sua figura, che provocavano in questa un aspetto così vacillante e vago? Non saprei dire. Non diceva nulla e io... neppure con uno sforzo sovrumano sarei riuscito a pronunciare una sola sillaba.
Un brivido di ghiaccio mi corse per le ossa; mi sentii oppresso da una sensazione d'insopportabile angoscia; una curiosità divorante mi pervase l’anima e, nello scollegarmi dal terminale, ricaddi all’indietro sulla sedia rimanendo per qualche tempo immobile e senza fiato, gli occhi fissi sulla sua persona: appariva così emaciata che in tutto il suo aspetto non c’era più neppure una lontana traccia dell’antica creatura.
Alla fine il mio sguardo bruciante si posò sul suo viso.
La fronte era alta, pallidissima, stranamente serena; e i capelli scuri ricadevano parzialmente su di lei adombrando le tempie cave. Gli occhi erano senza vita, opachi, apparentemente privi di pupille, e io mi ritrassi involontariamente dalla loro vitrea fissità per contemplare le labbra sottili, affilate. Queste si aprirono, e in un sorriso di particolare significato i denti della mutata Berenice si dischiusero lentamente ai miei occhi.
Avrei voluto non vederli mai.
Il rinchiudersi di una porta mi disturbò. Alzai lo sguardo mi accorsi che mia cugina era uscita dalla stanza. Ma dai recessi del mio cervello saturo di Silver-Key non era uscito, né mai ne sarebbe stato scacciato, il bianco, terrificante spectrum dei denti. Non una macchiolina sulla loro superficie, non un’ombra sul loro smalto, non un’intaccatura nei loro orli.
Denti.
Denti.
Denti.
Quei denti erano qui e lì e dovunque, visibili e palpabili davanti a me; lunghi, stretti, innaturalmente bianchi, con le pallide labbra arricciatesi su di essi, come nel momento stesso del loro primo spaventoso sviluppo. Allora sopravvenne la furia totale della mia monomania, e invano io lottai contro la sua strana irresistibile influenza. Negli oggetti moltiplicati della Rete Mondo io non avevo pensieri che per quei denti. Li consideravo con una cupidigia frenetica; ogni altra cosa, ogni altro diverso interesse si astraeva nella loro contemplazione singola.
I denti: loro soltanto, erano presenti all’occhio della mia mente. Nella loro unica individualità, diventarono l’essenza della mia vita mentale.
Li contemplavo in qualsiasi luce: li volgevo in ogni atteggiamento; ne studiavo le caratteristiche, indugiavo a studiarne le particolarità. Meditavo sulla loro conformazione e fantasticavo sulla trasformazione della loro natura: rabbrividivo nell’attribuire a essi con l’immaginazione un potere sensitivo e sensorio, e anche senza l’ausilio delle labbra una capacità di espressione morale.
I suoi denti, immaginati, studiati ed esplosi in una miriade di ricerche di info nella Rete. Frugai fra la miriade di denti reperibili nella Rete-Mondo: entrai nei database di studi dentistici trafugando panoramiche e scansioni d’impronte, visionai centinaia di fotografie e filmati – su tutti, m’impressionò il sorriso perfetto di Claudia Cardinale, così simile a quello di Berenice – riuscendo a linkare le connessioni più strane.
Un giorno, naufrago nella Rete-Mondo, m’imbattei in Marie Sallé, una danzatrice francese del XVIII secolo, di cui si diceva che “tutti i suoi passi erano sentimenti”. Da mademoiselle Sallé a Berenice il passo fu breve: “tutti i suoi denti erano idee”. Questo fu il pensiero allucinante che mi distrusse.
Ogni dente, una banca dati di idee. Il viaggio ultimo nella Rete-Mondo.
Ecco perché li desideravo con così pazza cupidigia! Sentivo che soltanto il loro possesso poteva ridonarmi la pace, restituirmi la ragione.
E così la sera si chiuse su di me, e poi scesero le tenebre, e indugiarono, e si dileguarono, e il giorno spuntò di nuovo, e i veli di una seconda notte nuovamente si addensarono, e sempre io sedevo immobile in quella stanza solitaria; e seguitavo a sedere sprofondato in meditazione, e sempre il fantasma di quei denti esercitava il suo terribile influsso aleggiando con nitidezza sfolgorante, paurosa, tra le luci mutevoli e le ombre della camera, tra l’accesso e la disconnessione della Rete-Mondo.
Alla fine i miei sogni furono interrotti da un grido come di orrore e di sgomento, al quale, dopo una pausa, seguì un suono di voci turbate misto a gemiti di dolore o di pena. Mi levai dal mio sedile e, spalancando la porta dell’infoteca, vidi in piedi nell’anticamera mio padre.
Aveva gli occhi gonfi di lacrime: – Berenice è morta.
Era stata colta da un attacco di epilessia durante le prime ore del mattino, e adesso che la notte si avvicinava già la tomba era pronta ad accoglierla, e i preparativi delle esequie già erano terminati.

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