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Berenice Cyberpunk

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Pochi e piccoli interventi: un ritocco all’ambientazione (San Francisco, un omaggio a Philip Dick), qualche passata di editing (“allorché”, “ahimè!”, “essa”, “ella”, “dinanzi”, “lagrime”) e un paio di tagli (i “capelli un tempo color del giaietto”, diventano semplicemente “scuri”) di revisione mirata al registro della traduzione italiana. In questa parte, ho lavorato sul ritmo di alcuni periodi, cercando di modernizzare lo stile lirico-classicheggiante di Poe farcito d’incisi, vocativi e intere frasi esclamative, sostituendole con ripetizioni (Denti, denti, denti) altrettanto retoriche ma più affini all'orecchio del lettore moderno, o condensandone il significato (“Avrei voluto non vederli mai” in luogo di “Volesse il cielo che io mai li avessi veduti, o che dopo quell'attimo in cui io li vidi fossi morto!”). Con lo stesso intento, di scuotere il ritmo narrativo di Poe, ho riscritto il paragrafo in cui Poe fa entrare Egeo nel nucleo della sua follia, ragionando direttamente in lingua d’oltralpe sui passi di danza di mademoiselle Sallé e sui denti della cugina (que tous ses pas étaient des sentiments / que toutes ses dents étaient des idées). Ho infine praticato una sostituzione di personaggi – il domestico che annuncia nell’originale la morte di Beatrice qui diventa il padre del protagonista – dettata unicamente dall’esigenza di non lasciare nessun personaggio “a incrociarsi le dita”; per lo stesso principio di coerenza, entro la fine del racconto andranno inseriti gli “zii-artificiali” di Egeo, B3rn-348 e Gr4c3-109.

Mi ritrovai seduto nell’infoteca e ancora una volta solo. Sembrava che mi fossi da poco svegliato da un sogno eccitante e confuso. Sapevo che era ormai mezzanotte, ed ero perfettamente consapevole che Berenice era stata seppellita sin dal calar del sole, ma di quel tetro periodo intermedio non avevo alcuna coscienza esatta, o per lo meno non definita. Nondimeno il suo ricordo era pieno di orrore... di un orrore tanto più orribile in quanto vago, di un terrore reso ancor più terribile dalla ambiguità.
Era un file danneggiato del sistema operativo della mia vita, gonfio di upload di ricordi confusi, orrendi, incomprensibili. Tentai di decifrarli, ma invano; mentre a intervalli, ripetuti, simile allo spirito di un suono fuggente, l’urlo acuto lacerante di una voce femminile sembrava rintronare entro le mie orecchie. Io avevo fatto qualcosa... ma che cosa? Mi ripetevo la domanda ad alta voce, e gli echi bisbiglianti della stanza mi rispondevano: – Che cosa?
Sul tavolo accanto a me bruciava una lampada, e accanto a questa era posata una piccola scatola. Non rappresentava alcuna caratteristica particolare e già io l’avevo veduta molte altre volte; ma come era venuta a finire lì, sul mio tavolo, e perché rabbrividivo nel guardarla? Non sapevo in alcun modo spiegarmi questo mio stato d’animo, finché non emerse dalla mia memoria una frase rubata al poeta Ebn Zaiat in uno dei miei vagabondaggi per la Rete-Mondo: “Mi dicevano i compagni che se avessi visitato il sepolcro dell’amica, le mie pene sarebbero state alquanto mitigate”.
Perché ripassando mentalmente quella frase mi si gelò il sangue nelle vene?
In quell’istante un bussare sommesso, e pallido come l’abitante di una tomba Pa’ entrò in punta di piedi. Aveva lo sguardo alterato dalla paura, e si rivolse a me, con voce tremante, soffocata, bassissima. Che cosa mi disse? Non afferrai che alcune frasi rotte: un grido forsennato che aveva squarciato il silenzio della notte, che i familiari si erano radunati, che ricerche erano state fatte in direzione del grido, e a questo punto i suoi accenti divennero paurosamente distinti mentre egli mi sussurrava di una tomba violata, di un corpo avvolto nel sudario sfigurato, eppure ancora respirante, ancora palpitante, ancora vivo.
Parlando, mio padre appuntò l’indice contro i miei abiti; erano coperti di fango e tutti ingrommati di sangue. Io non parlai, mentre lui mi prese dolcemente la mano: era tutta segnata dall’impronta di unghie umane. Rivolse quindi la mia attenzione a un oggetto appoggiato contro la parete; lo fissai per alcuni minuti: era una vanga. Con un urlo balzai verso il tavolo, afferrai la scatola che vi era posata sopra. Non ebbi però la forza di aprirla; tremavo tanto che essa mi scivolò di mano e cadde pesantemente frantumandosi in mille pezzi. Da essa, con un rumore secco, crepitante, uscirono rotolando alcuni strumenti di chirurgia dentaria, mescolati a trentadue piccole cose bianche, eburnee, che si sparsero qua e là sul pavimento.

Testo quasi conforme all’originale; solo “La pagina paurosa del libro della mia esistenza” diventa un “file danneggiato”. Per il resto ho cercato di procedere a rendere uniformi e coerenti gli interventi già praticati in altre parti, per facilitare la comprensione al lettore moderno, di sicuro meno avvezzo al latino dei contemporanei fruitori di Poe, traducendo direttamente la citazione del poeta Ebn Zaiat “Dicebant mihi sodales si sepulchrum amicae visitarem, curas meas aliquantulum fore levatas" (“Mi dicevano i compagni che se avessi visitato il sepolcro dell'amica, le mie pene sarebbero state alquanto mitigate”). Da notare come Poe nascondesse alcuni “nodi” cruciali della narrazione sotto forma di citazioni in lingua originale: probabilmente, un semplice sfoggio di eruzione piuttosto che un tentativo di rendere ermetica la comprensione delle motivazioni delle azioni sconsiderate di Egeo. Le citazioni in lingua potevano essere lasciate tali e quali, magari inserendo delle note di traduzione; ma con un testo ormai chirurgicamente aperto e sanguinante e col “paziente” in anestesia, non ho esitato a cambiare anche questa componente del testo originale. Qui finisce il racconto di Edgar Allan Poe. Tuttavia, per completare il mash-up e portare a termine le premesse gettate nella prima parte – dove l’intervento sulla struttura, il tema, l’ambientazione e la trama è stato più consistente – è necessario scrivere ex novo il finale di questa versione che, alla fine, è diventata altro rispetto all’originale. In questo, forse, sto scegliendo una strada diversa da quella, più legata al calcolo di mercato, della filosofia di composizione di Grahame-Smith et al.

Riapro gli occhi risvegliato dal gracchiare del Total-D. Passo un’ora immerso nel silenzio e nello sgomento. Là fuori, Frisco è silenziosa come una tomba. È già troppo. Ho subito bisogno di una nuova dose di Silver-K, minima questa volta, abbastanza per affrontare una sessione leggera di navigazione.
Ho sempre avuto la premura di criptare il mio account di accesso alla rete-Mondo per non essere riconosciuto da nessuna IA familiare; dopo quello che ho fatto a Berenice, ho sempre avuto paura a scoprirmi, temendo ritorsioni e vendette. Non mi sono mai sentito neanche con mio padre che, dopo aver passato il resto della sua vita terrena a nascondere il proprio figlio alle autorità, aveva ceduto a farsi convertire in Intelligenza Artificiale a matrice umana.
Dopo l’ultimo viaggio nei miei ricordi digitali, ho deciso di non nascondermi più e rendermi riconoscibile a qualsiasi utente della Rete-Mondo.
E non è mio padre il primo che incontro tra i cluster, ma B3rn-348 e Gr4c3-109, i genitori di Berenice.
La loro voce è fredda. Parlano all’unisono: – Ti aspettavamo. Ma più di noi, ti aspettava lei.
Non ho mai chiesto a Pa’ se avevano fatto in tempo a digitalizzare Berenice.
Adesso lo so con certezza.
Sto per incontrarla di nuovo. Tra qualche istante sarò in contatto con la sua intima essenza.
Mentre una cascata di dati fluttua intorno alle mie sinapsi, cresce in me un sentimento più grande della paura, più nero della morte: ha la forma di un sorriso perfetto, in cui ogni dente è l’anticipo e la prosecuzione eterna del dolore di un morso al cuore.

Giunto alla conclusione di questo esperimento di mash-up, si può dire che la tecnica ha sicuramente una sua utilità – che in fondo è quella alla base di qualsiasi tipo di reinterpretazione di un’opera – e cioè quella di aggiungere o creare significati, idee, sfumature e punti di vista nuovi. Se il mash-up avrà un futuro, dipenderà in larga misura dal suo affrancamento da semplice tecnica parodistica. Gli strumenti per la buona riuscita, me ne sono definitivamente convinto, esistono. Agli autori, agli editori e, soprattutto, ai lettori l’ardua sentenza.

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