La ragione conoscitiva: la cosmicomica parabola di Italo Calvino

di Salvatore Proietti, 31/12/2011

In questa puntata del Lettore Caotico, Salvatore Proietti riprende, ampliandolo con una nuova introduzione, un intervento su Italo Calvino apparso sul numero 60 di Robot, in cui prosegue a ragionare sul difficile rapporto tra scienza e letteratura nella cultura italiana.

In origine intendevo dedicare la scorsa puntata di questa rubrica ad alcune letture saggistiche, centrate in vari modi sul rapporto fra letteratura e scienza/tecnologia. In definitiva, sul rapporto fra cultura e modernità, tuttora la questione più controversa qui in Italia, troppo spesso paralizzata da nuove aggiornate versioni della querelle apocalittici-integrati, in cui i rimpianti per il bel tempo che fu e le acritiche apologie per il peggio nel presente stato di cose continuano, tragicamente, a sfumare gli uni nelle altre.

Parlare di Calvino – dei suoi incontri teorici e narrativi con la scienza, con le reazioni che ne seguirono – è stato un modo per riassumere il discorso: la rubrica aveva parlato di fumetti e il pezzo, era stato spedito a Robot (per il n. 60). Mi sembra giusto riprenderlo qui (con minime modifiche), usando questo cappello introduttivo per evocare quelle letture.
Di certo la letteratura degli Stati Uniti non ha mai avuto remore a fare i conti con nuovi modi di raccontare. Come descrive Pamela Mansutti in La parola filmica (Campanotto, Udine 2008), questo atteggiamento inizia precisamente con il modernismo letterario che a inizio Novecento determina l’estetica highbrow. Nei temi e nelle forme del narrare, si deve partire da Fitzgerald, Hemingway, Dos Passos, West. Aggiungeremmo, soprattutto Faulkner fa interagire il plot con monologhi interiori e giochi stranianti dei punti di vista – trasforma e sovverte lo storytelling, senza cancellarlo. Negli ultimi decenni, sulle sue orme autori e autrici uniscono sperimentazione e affabulazione: Toni Morrison, Cormac McCarthy, William Gibson… Mansutti fa centro sugli sperimentatori postmoderni “intermediali” in cui il cinema, senza acritici anatemi contro l’industria culturale, diventa argomento e struttura la forma stessa dello showing e del telling. Così, Don De Lillo esplora nell’esordio di Americana (1971) le incessanti fonti di mitologia nazionale, alla ricerca di una totalità americana sempre sfuggente, che costringe a ripensare il rapporto fra parola e immagine. Non manca di riservare uno spazio al cinema Thomas Pynchon in Gravity’s Rainbow (1973), che enciclopedicamente prova a inglobare ogni aspetto della cultura contemporanea in una deliberata, politica ricerca delle contraddizioni che tengono insieme il mondo. Forse la sorpresa dello studio di Mansutti è il trascurato A Night at the Movies (1987) di Robert Coover, che decontestualizza e ridà forma a un’infinità di intertesti cinematografici, frammenti che si uniscono in modo anarchico, “difficile”, ma che ripaga la lettura. La parola filmica consente di continuare a parlare.
E una raccolta di un teorico della letteratura e della cultura troppo dimenticato, imprigionato nell’etichetta di “rivale di McLuhan”, Beyond the Word di Donald F. Theall (University of Toronto Press,1995), ci ricorda l’indissolubilità del legame fra letteratura “alta” e scienza-tecnologia. L’origine, secondo Theall, è in James Joyce, la cui attenzione per la scienza e la tecnologia filtra in tutti i suoi scritti, fino all’antiromanzo per eccellenza Finnegans Wake. Non la ricerca di un rifugio nella torre d’avorio del gioco linguistico o nell’intimo della psiche, ma il tentativo di fare i conti – da sperimentatore di un linguaggio fondamentalmente multimediale il cui maggior precursore è il Lewis Carroll di Alice – con i cambiamenti emergenti nella società, nella cultura e nella comunicazione. Per Theall è di una “età di Joyce” che fa parte tutta l’“ecologia della comunicazione” che accompagna la nostra esperienza, di cui la fantascienza (Kubrick, Lem e Gibson sono gli autori più citati, ma certo non i soli – qui e in altri libri e articoli) è una delle componenti privilegiate.
Con il moderno, almeno un fuggevole periodo della cultura italiana provò a fare i conti. Un bel libro raccoglie gli scritti di Caproni, Fortini, Gadda, Rea, Sinisgalli, Tadini e altri chiamati a parlare di fabbriche negli anni Cinquanta, su Civiltà delle Macchine, la rivista della Olivetti, in articoli (più quadri e illustrazioni). L’anima meccanica, a cura di Giuseppe Lupo e Gianni Lacorazza (Avagliano 2008) ci presenta scrittori che davanti all’industrializzazione italiana si fanno domande, sollevano dubbi, scoprono visioni eroiche e gotiche. I pezzi migliori provano anche a comprendere le visioni di chi nelle fabbriche ci lavora – e talvolta a immaginare futuri.
Ma sono cose rare, ed è al di fuori delle grandi riviste letterarie che escono studi come Acciai speciali dello storico orale e americanista Alessandro Portelli (Donzelli 2008), che provando a parlare con gli operai – che, come la fantascienza, si ostinano a non scomparire – descrive quello che chiama “il sublime operaio”, un sublime in cui “fascino e terrore derivano dall’impatto con un’entità tecnologica che è comunque prodotto umano”. Cultura operaia e intellettuali attenti al moderno, nelle scelte retoriche, finiscono col tendersi la mano. E si tendono la mano, per noi, lavoro culturale e lavoro politico.

Edipo contro la complessità
Non fa male rileggere gli articoli di Italo Calvino raccolti nel 1980 in Una pietra sopra (ora negli Oscar Mondadori). Nel 1970, rispondendo a un’inchiesta di Le Monde in occasione dell’uscita del libro sul fantastico di Todorov, Calvino descriveva la difficoltà di inserire le sue opere “all’interno (o all’esterno) d’una classificazione del fantastico. Al centro della narrazione per me non è la spiegazione d’un fatto straordinario, bensì l’ordine che questo fatto straordinario sviluppa in sé e attorno a sé, il disegno, la simmetria, la rete d’immagini che si depositano intorno ad esso come nella formazione d’un cristallo”. Considerando ogni territorio come necessariamente composto di centri e periferie, non abbiamo dubbi ad attribuire Le cosmicomiche e Le città invisibili alla fantascienza: eccentrica, idiosincratica, originale e inimitabile, ma sempre SF.
Nella scienza Calvino radicava orgogliosamente il suo fantastico. Ancora di più, il rapporto con la scienza era per eccellenza la sfida da affrontare per la letteratura contemporanea. Nello stesso libro, l’articolo Cibernetica e fantasmi (1967) diventa un’autentica dichiarazione di intenti, quasi un manifesto: “Shannon, Wiener, Von Neumann, Turing hanno cambiato radicalmente i nostri processi mentali”. Se prima al centro della letteratura erano “impalpabili stati psicologici, umbratili paesaggi dell’anima”, ora “sentiamo il velocissimo passaggio di segnali sugli intricati circuiti che collegano i relé, i diodi, i transistor di cui la nostra calotta cranica è stipata”. Nella poetica di Calvino, la sensibilità di Neuromante è già dietro l’angolo. Se l’apparenza è una riduzione dell’universo a eventi computabili, la realtà è un “processo analitico” che porta “a dare del mondo un’immagine che si va via via complicando”. Dalle letture scientifiche nasce, anticipando tanti autori postmoderni USA, l’idea di racconti fatti come “composizioni di meccanismi che si muovano da soli”, in grado di creare uno “shock” quando “attorno alla macchina scrivente esistono i fantasmi nascosti dell’individuo e della società” – le cosmicomiche come parabole, mirate a un pubblico che sa riconoscere il gioco del meccanismo. Di questa complessità sono fatti i sogni del ventesimo secolo, e anche i sognatori.
Di quegli stessi articoli, due sono risposte agli attacchi sferrati da importanti colleghi alla sua teoria e pratica letteraria. Un libro del 2007 (Massimo Bucciantini, Italo Calvino e la scienza, Donzelli) ci permette di ricostruirne il dettaglio. Ed è netta l’impressione che quelli siano gli anni in cui in Italia prendono forma i riflessi culturali che continuano a determinare la diffidenza, e perfino il rifiuto a priori, verso il fantastico e in particolare verso la fantascienza.
Non torniamo qui sui dettagli, anche perché è difficile argomentare col pregiudizio, con l’autocontraddizione e con intrecci edipici che farebbero la felicità di un analista freudiano vecchio stile. La perpetua morte della SF (mai all’altezza di padri illustri a suo tempo bellamente ignorati, mai smentita dagli incessanti canti del cigno), le ripetute scoperte del genere (le rare volte in cui un autore ha la fortuna di uscire per un grosso editore), lo sbandierare “grandi” autori canonici che cancellano la necessità di approfondire la conoscenza della cultura popolare, gli anatemi allo stesso tempo contro la “nicchia” e contro l’industria del best-seller: solo in questi termini si parla di SF. Comune a tutto, una damnatio memoriae che, cancellando il passato, cancella il presente.

Storie innaturali
Eppure un poco di competenza storica rivelerebbe che la letteratura italiana ha vissuto almeno un periodo in cui la realtà della Ricostruzione determina un brillante, creativo rapporto con l’industrializzazione e con la scienza, in cui si impegnano autori di rilievo: Dino Buzzati con molta mestizia, Luce D’Eramo con orgoglio, e tante altre presenze, anche occasionali. Su tutti, le figure di spicco sono Primo Levi e Italo Calvino. Come parte di quella spinta, nasce una generazione della SF italiana.
Alcuni accolsero con sorpresa e malcelata delusione l’attenzione verso la SF di Primo Levi. Dopo le raccolte Storie naturali (1966) e Vizio di forma (1971), il suo interesse prosegue fino alla fine. Come mostra la raccolta completa di Tutti i racconti curata da Marco Belpoliti per Einaudi (2005), molta della sua narrativa breve è fermamente radicata nel genere. L’ironia abrasiva non gli impedisce una solida capacità di speculazione scientifica (il paragone d’obbligo è con la Cyberiade di Lem, insieme alla satira di Sheckley e della social sf statunitense), in sardoniche storie sulla tecnologizzazione dell’attività narrativa e dei rapporti umani, oblique parabole su conflitti alieni, insieme a sketch più umoristicamente lievi scritti per giornali. Nel bene e nel male, c’è poco di “naturale” nelle visioni di Levi: arte, amore, economia, potere. Dall’artificio deriva la responsabilità: se molti commentatori alzarono uno spocchioso sopracciglio davanti a questo suo aspetto “leggero”, è ora di cominciare a dire che – al contrario – la SF gli fornisce il medium perfetto per trasformare l’impegno civico in storytelling. Nella seconda antologia, meravigliosamente, A fin di bene (1971) presenta un’entità senziente e transnazionale nata dall’interconnessione delle linee telefoniche, e chiamata “la Rete”.
Confidiamo sia inutile entrare in dettagli sull’importanza di Italo Calvino, che estende alla scienza (anche dopo aver letto i racconti di Levi e il lavoro critico di Sergio Solmi) il suo interesse per la mitologia e l’attività del raccontare. La scienza, rivendica Calvino in molte sedi, è una fonte di visioni che l’intellettuale di oggi non può rifiutarsi di esplorare. Nella lunga sequenza delle Cosmicomiche (l’omonimo volume del 1965, Ti con zero del 1967, e una manciata di racconti successivi, reperibile nel tascabile Oscar Tutte le cosmicomiche, a cura di Claudio Milanini, Mondadori 1997), Calvino crea la cosmogonia di un mondo preumano con il suo antieroe Qwfwq, e rende omaggio agli antenati utopici della SF nelle Città invisibili del 1972 (la traduzione inglese nel 1975 giunse perfino in finale al premio Nebula). Una dimensione eterea, disincarnata e sublime, una metafisica senza trascendenza (Vittorio Curtoni, Le frontiere dell’ignoto, Nord 1977) si unisce a una prosaica, autoironica pragmaticità: con eroismo e umiltà allo stesso tempo, Qwfwq cerca di dare ordine al suo mondo primordiale, e di conseguenza anche al nostro. Non sarebbe difficile immaginare una linea che conduce da Flatland di Abbott, passa per Calvino (insieme a Stapledon e ai dimenticati racconti di Barrington J. Bayley) e arriva a Changing Planes di Ursula K. Le Guin e agli affabulatori postmoderni del 21° secolo: Banks, Chiang, Di Filippo, Egan, Stross. L’intelligenza e l’azione umana sono sempre artificiali: dunque, per Levi e per Calvino, la scienza è una fonte di faticosa, imprescindibile innocenza.
È casuale che proprio questi siano i contemporanei italiani di maggior fortuna all’estero? Ecco, il fantastico – sempre cosmopolita – ci allontana dalla dimensione provinciale: forse è proprio questo a spaventare.

Calvino e i suoi avversari
Torniamo al meticoloso racconto del libro di Bucciantini. Fra progetti einaudiani di collane juvenile d’avventura scientifica di taglio didattico, con l’idea di coinvolgere nella SF qualche autore italiano illustre, le cinquemila copie (già, non più di 5000) della prima tiratura delle Meraviglie del possibile trovano buone recensioni. La prefazione di Solmi e Fruttero propone un legame col romanzo cavalleresco: come le espansioni coloniali di una volta, la ricerca scientifica (fisica, astronautica, biologia) di oggi presenta la scoperta possibile di nuovi mondi. In realtà, Solmi era più complesso e sapeva che la SF americana aveva sorpassato questa visione ingenua (presentata a inizio secolo dal teorico della Frontiera, lo storico Frederick Jackson Turner). Soprattutto, i due parlano di una “letteratura prediletta dei giovani tecnici statunitensi e sovietici”: una letteratura, dunque, radicata nel cambiamento e nella modernizzazione postbellica. Se Solmi aveva distinto fra “sognatori” e “meditanti”, la scelta va nella prima direzione, che lui definiva fantascienza ariostesca. In questo progetto informale Calvino si sente coinvolto sin dal 1959: “Se scriverò qualcosa adesso ci sarà una tensione verso il futuro, verso l’indecifrabile domani nascosto nel guscio dell’oggi, il domani sempre diverso da come noi ci attendiamo, sempre in qualche modo peggiore delle nostre speranze, e sempre migliore in un modo che noi non sapevamo sperare”.
Lettore non casuale per quanto non sistematico, Calvino si considera lontano dall’atteggiamento che ritiene prevalente nella SF. Bisogna “vivere anche il quotidiano nei termini più lontani”, scrive nel 1968, invece di “avvicinare ciò che è lontano”: visionarietà, non realismo. Ma dove Calvino trova un dubbio e un’apertura, altri reagiscono con certezze e chiusure. Nel 1958-59 uno scontro è con Pasolini, in occasione dei primi lanci dei satelliti artificiali. Nei satelliti (e negli elettrodomestici) Pasolini non vede altro che un’ennesima forma di alienazione, per cui dai sogni della scienza nasce “una nuova forma, centuplicata, d’evasione”. La scienza e le sue storie non sono che trappole del potere: “Nel lunik si sovrappongono e coincidono il pericolo spersonalizzante della tecnica e quello pseudo-umanistico della fantasia evasiva”. Per Calvino, invece, “operare sulla terra” e “pensare all’universo” non sono alternative incompatibili.
Analogamente, per Calvino esiste uno stretto legame fra fiaba e scienza, fra razionalità e story-telling: nelle Cosmicomiche, dice, “è la scienza a produrre mito” in una “poetica dell’allargamento” sempre rigorosamente razionale anche nel bizzarro: l’entusiasmante scoperta di un sistema, non un’estasi sacrale. Allora il fantastico è una più alta forma di impegno, dice in un’intervista del 1957: “Chi accetta il mondo com’è, sarà scrittore naturalista, chi non vuole accettarlo ma vuole spiegarselo sarà scrittore favoloso”. Calvino aveva avuto la giusta premonizione, e per quasi tutti i recensori le Cosmicomiche sono una fuga dal mondo, un esercizio intellettuale astratto e futile.
Ma qualcuno va oltre, e il libro di Bucciantini ci fornisce la base dei pezzi più polemici di Una pietra sopra. Nel 1960, Calvino si contrappone a Carlo Cassola: non sono le sue storie di provincia, “magre e austere”, che possono parlare delle “nuove situazioni esistenziali” di un paese in cui convivono “Detroit e Calcutta”, una “complessità” di mondi e ideologie. La sintonia è perfetta con Solmi che nel 1958 parla di una letteratura che renda conto di “mobili e confuse stratificazioni, recentissime o remotissime, mescolate come in un mostruoso cocktail di ere”. In Calvino, sempre, l’accettazione del presente è consapevolezza di nuovi conflitti: né apocalittico né integrato. L’anatema arriva nel 1967. Provocatoriamente, Calvino parla di Galileo come massimo scrittore italiano di tutti i tempi. L’invito di Cassola, a tutti coloro che la pensano come lui, è diretto: “cambino mestiere”. La scienza e la ragione sono soltanto disumanizzazione, illusione, devastazione culturale, e Cassola rivendica con orgoglio il rifiuto di leggere linguistica, antropologia, filosofia, scienza, ma solo i “fattori letterari essenziali, che sono: la natura e la storia personale di ciascuno di noi”. Se la letteratura è uno spazio da difendere dal contatto con la modernità, il lettore-cyborg del saggio sulla cibernetica è il nemico assoluto.
Contemporaneamente, anche la scrittrice Anna Maria Ortese commenta con orrore la conquista dello spazio. Il luogo del sogno, della fuga dal mondo, deve rimanere incontaminato. Questa “violazione dell’ultimo spazio di umanità rimasto” distrugge una bellezza che deve restare estranea a ogni interazione umana (la parola chiave ripetuta è “riposo”). Schietto, Calvino risponde: “Guardare il cielo stellato per consolarci delle brutture terrestri? Ma non le sembra una soluzione troppo comoda?”. Per lui, ogni “appropriazione vera” dello spazio è “conoscenza”, e lo scrittore ha il dovere di aprirsi a questa riconsiderazione: “chi ama la luna davvero non si contenta di contemplarla come un’immagine convenzionale, vuole entrare in un rapporto più stretto con lei, vuole vedere di più nella luna, vuole che la luna dica di più”. A riassumere al meglio la sua poetica è il titolo che Calvino diede una raccolta di articoli di Vittorini (su Il Menabò): La ragione conoscitiva.
Presentando un suo romanzo, poco prima Ortese aveva dichiarato: “Pensare è terribile: è come affacciarsi a un pozzo dove non si vede più niente. Invece, in superficie, tutto è lieto, risponde. Ci sono le cose che aiutano, anche la miseria, il breve piangere, Dio”. E poi: “L’umanità non ha bisogno di tante cose, l’umanità è limitata, semplice. Chi le offre molte cose, ne vuole l’anima. All’umanità basterebbe la semplice intelligenza: per fare gli strumenti, le case, gli abiti, e lavorare i campi”. Sospettiamo con forza che questo “umanesimo” fatto di rimpianti e idealizzazioni bucoliche per un piccolo mondo antico (trasversale a tante tradizioni ideologiche), protetto nel suo isolamento provinciale, sia ancora il più influente, implicito, avversario ideologico della SF e del fantastico in Italia. Nell’autoironica, surreale ragione conoscitiva di Calvino, la fantascienza continua a raccontarci che l’entusiasmo può aver senso, ma l’ingenuità è un assurdo da rifiutare.

Intorno, e dopo
Carsicamente onnipresente è un immenso rispetto per la dimensione “popolare” della letteratura e della cultura. Un’occhiata a un vecchio libro che parlava di tutt’altro (Guido Aristarco, Neorealismo e nuova critica cinematografica, Guaraldi 1980) ci permette una messa a fuoco. Negli anni 50, in risposta a un’inchiesta sul cinema neorealista, Calvino (sempre controcorrente a parte Fortini e pochissimi altri), ricordata la sua passione per i classici del cinema americano, scrive che gli sarebbe piaciuto andare oltre la ricerca del capolavoro, “vedere se il linguaggio dei Visconti, De Sica, Rossellini, Castellani riusciva a proliferare, se da stile poetico riusciva a diventare lingua corrente, e a dar vita a una buona serie di drammi popolari e di farse popolari di produzione media. Allora si avrebbe avuto la prova che non era solo un movimento culturale ma era dialetticamente legato a un movimento d’esigenze e di gusti nel pubblico. Perciò per me il regista più interessante era Luigi Zampa”. Con Steno e Monicelli, aggiunge Calvino, c’è “[a]nche Germi, sebbene Germi sappia sempre troppo bene cosa vuole. Ma i film come L’onorevole Angelina, come Guardie e ladri […] sono stati pochi”.
Questa è la sfida che continuano a raccogliere i successori fantascientifici e fantastici di Calvino (a partire da Aldani, Curtoni, Catani), con tutta l’ambizione della letteratura popolare: Altieri, Avoledo, Evangelisti, Tonani, Vallorani e tanti altri. Che, comunque, sanno cosa vogliono.

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