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More Than Inhuman…
di Salvatore Proietti

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Indimenticato autore Marvel e non solo, Jack Kirby ha attraversato la storia del fumetto, ha inflenzato un esercito di successori e ha disvelato un vero e proprio labirinto di porte sull'immaginario. Nel nuovo appuntamento con il Lettore Caotico, Salvatore Proietti rende omaggio alla sua opera e alle onde concentriche che ha sollevato nel mare del fantastico, a partire dal fumetto della cosiddetta silver age, fino ad approdi inattesi.

E così eccomi qua, solo in mezzo a questa discarica fluttuante di pagine, mentre invano mi ostino ad aggiungerne altre che tanto nessuno leggerà mai. Fuori, nello spazio aperto, i relitti di vecchi fumetti hanno formato nuove costellazioni artificiali, la galassia di Asterix, l’ammasso di Tiramolla, la nebulosa di Tintin… In fondo è un gran bello spettacolo. Fumetti morti da migliaia di anni brillano ancora. E per un attimo, ho quasi l’impressione che tutto sia finalmente al suo posto, e che da questo caos possano adesso nascere nuove storie.
(Tuono Pettinato, Ma gli androidi sognano in balloons elettrici? 2007)

1. Nel caos delle mie letture, forse i fumetti sono stati l’unica costante nel tempo. Due romanzi, e alcuni volumi antologici usciti in edicola e qualche libreria rendono inevitabile parlare di Marvel, e di Jack Kirby.

Probabilissimo che la scoperta dei fumetti Marvel sia stata uno dei fattori determinanti per farmi amare la lettura. Quel numero 35 dei Fantastici Quattro della Corno, Battaglia al Baxter Building (con in appendice un frammento dell’intricata, per me allora affascinante proprio per i fili pendenti, space opera di un Captain Marvel ancora lontano dai vertici futuri) lo conservo ancora. C’è l’arcinemico Dottor Destino, naturalmente con scontri, scazzottate e sparatorie… e qualcosa di più, che coglievo almeno confusamente: il supergruppo come microsocietà potenzialmente disfunzionale, benintenzionato e mai in grado di fare i conti con la diversità fisica della Cosa, che alla fine del numero sembra rivoltarsi contro gli altri. Quella di Lee & Kirby era un’avventura rutilante con un’ambientazione urbana e hi-tech, che mi parlava direttamente, che non edulcorava la pillola del reale.

Fra metà anni Sessanta e primi Settanta (in storie tradotte da noi a partire dal 1970 dalla Corno) Kirby era stato centro di un piccolo rinascimento. Il fumetto popolare USA – in chiaro dialogo con i nascenti circuiti indipendenti, non ancora canonizzati come “autoriali”, con cui artisti e sceneggiatori condividevano remunerazioni miserande – rivoluzionava le rigide maglie tematiche e grafiche imposte fino ad allora dal mercato, in sintonia con un pubblico (soprattutto giovanile) che faceva sentire una voce impossibile da ignorare: la cosiddetta silver age. Per una figura come Jacob Kurtzberg, emigrato ebraico-americano di seconda generazione, figlio di un sarto nato in Austria, che crea la sua presenza anglicizzando il suo nome in Jack Kirby, la storia delle personalità nascoste e multiple dei supereroi ha risonanze umane che è tempo di smettere di ignorare. Con preziosi materiali visuali, molti episodi della biografia di questo artigiano, artista, mitografo delle marginalità al centro dell’impero riempiono Kirby, King of Comics di Mark Evanier, suo assistente e poi suo collega, storico del fumetto (ed. it. Milano, BD, 2009), e un volume-omaggio con contributi talvolta inattesi fra cui numerosi italiani, Kirby Five-Oh (Raleigh, NC, TwoMorrows, 2008) curato da John Morrow, editor del Jack Kirby Collector e promotore di tante ristampe ragionate. Il “metafumettosissimo” insistere su Kirby di tanti episodi autobiografici del Rat-Man di Leo Ortolani è traccia di uno dei più sinceri e solidi frammenti del “nostro” mito americano.

2. Mentre chiudo questo articolo, scopro un Kirby tardo e semidimenticato, enciclopedico nella ricapitolazione di tutti i suoi temi in Silver Star, da poco recuperato in Italia dalla milanese Renoir, una produzione indipendente, originariamente uscita (se le mie fonti sono corrette) nei primi anni 80 per la minuscola Pacific e ora restaurata da Erik Larsen e altri.

Dietro tutto, incombe il fantasma della Seconda Guerra Mondiale e dell’Olocausto, con vecchi progetti, sogni e incubi sempre pronti a riesplodere. Come sempre i temi sono il potere e il suo abuso, unito a un senso del piacere estaticamente innocente. Chi accetta le regole del suo linguaggio sa che il vero centro di una trama spesso fuori controllo sono i ricorrenti tableaux anche a tutta pagina, visualizzazioni allucinatorie o da pop art, su primissimi piani del protagonista – veri monologhi interiori visivi – o panoramiche grandangolari di respiro epico che vorrebbero porgere simultaneamente tutte le complessità del dilemma.

Silver Star è un po’ golem difensore del villaggio, un po’ capobanda di supereroi, un po’ cavaliere in grado di trasmettere un senso di meraviglia per una bellezza cosmica che vorrebbe condividere con altri. Ovunque, la presenza dei quartieri popolari di New York, l’unica vera realtà senza tempo di tutta l’opera di Kirby: la Brooklyn della Depressione di Street Code (breve storia proprio dell’83, un’epica compressa in poche pagine e soprattutto in un’incommensurabile splash page[clicca sull'immagine a sinistra per ingrandire]) fusa con la Yancy Street anni 60 dei Fantastici Quattro e con il ghetto afroamericano contemporaneo. In Kirby l’elemento autobiografico è sempre sommessamente presente per chi si prende la briga di cercarlo. Bisogna volerlo fare, però, bisogna aver accettato il patto dell’affabulazione popolare: la firma personale non è qualcosa che si fa intravedere ai visitatori casuali.

Allora è giusto che l’omaggio più commosso all’artigianato e all’arte di Kirby sia continuo in uno dei più grandi romanzi americani degli ultimi anni, scritto da un autore immigrato di origine dominicana, The Brief Wondrous Life of Oscar Wao di Junot Díaz (2007, ed. it. La breve favolosa vita di Oskar Wao, tr. Silvia Pareschi, Mondadori 2008). Che è anche un omaggio a quel pubblico che d’istinto aveva inserito Kirby nel suo pantheon letterario, insieme alla fantascienza, a Tolkien e agli autori canonici. Dude wore his nerdiness like a Jedi wore his light saber or a Lensman her lens. Couldn’t have passed for Normal if he’d wanted to: “il tipo sfoggiava la sua goffaggine come uno Jedi con la sua spada di luce o una Lensman la sua lente, neppure volendo sarebbe riuscito a passare per normale”. Trascurare la voce, le inquietudini e gli interessi di grassi nerd semi-autodidatti e immigrati, appassionati divoratori di libri e film che cercano con serietà di trovare un’espressione culturale, sembra dire Díaz, significa trascurare molto delle inquietudini e degli interessi che plasmano tragedie e promesse del nostro tempo, e trascurare per l’ennesima volta soggetti sociali esclusi dalla “normalità”.

Per il protagonista e per l’autore, Kirby è fonte allo stesso tempo di fuga nel meraviglioso e di riflessione umana, culturale e politica. Né rifiuto “apocalittico” e nostalgico né esaltazione “integrata” e acritica del superuomo di massa: per entrambi, leggere e usare Kirby e i generi popolari significa interagire con una complessità, un’arte possibile soltanto fuori da ogni idea di torre d’avorio. Nella sua incessante ricerca di espressione all’interno del mondo lowbrow, Kirby ha molto in comune con Philip K. Dick. Nel romanzo di Díaz le epigrafi creano un perfetto parallelo fra il delirio dell’onnipotente Galactus e la mostruosità violenta del dittatore dominicano Trujillo. Nell’incisività della visione e nella sua impotenza, invece, il protagonista si paragona all’Osservatore. La sua storia – come quelle che si intrecciano con la sua – è tragica ed esemplare. Da Kirby a Díaz, da un americano “col trattino” all’altro passa anche l’imperativo a trasformare la tragedia in storytelling e in voglia di innocenza, nella spasmodica ricerca di promesse effimere, favolose e necessarie.

3. Anche il protagonista di un romanzo di fantascienza largamente sfuggito all’attenzione del pubblico specializzato, Colui che gli dei vogliono distruggere di Gianluca Morozzi (Guanda 2009) è un soggetto solo etnicamente integrato, artista e precario della società dello spettacolo alla ricerca di una realizzazione – ovvero rocker ansiosamente alla ricerca del pezzo giusto – che si rivolge ai fumetti come mito di riferimento, oltre che alla musica. Alla fine, un universo parallelo gli consentirà un wish-fulfillment sostanzialmente fraudolento, e in questo Morozzi si rivela molto più amaro di Díaz nel giudizio sulla sincerità delle speranze possibili nel suo (e nostro) paese, da lui incarnate. Il vero eroe positivo, allora, è la sua controparte “parallela”, il supereroe Leviatan che ha la dote di poteri che mutano ogni dodici ore senza possibilità di prevedere quali saranno. Il talento che gli permette (come d’obbligo) di salvare ripetutamente e in segreto il mondo è così la maledizione che lo condanna all’impotenza davanti ai disastri che gli garantirebbero un ruolo pubblico di eroe. Superuomo inadeguato, condannato a essere un Clark Kent anche in costume, viene biasimato per non aver impedito l’11 settembre dopo aver evitato un’apocalisse nucleare: quella mattina, poteva solo mutare colore agli oggetti ed essere invisibile.

Le epigrafi di Morozzi provengono dal fumetto anglofono più recente, cinico e cupo, e in effetti Leviatan sembra uscito da opere cupe come Watchmen. Il titolo del romanzo, però, è quello di una storia del 1972, tradotta su un numero di Thor (il 112, del 1975) completamente dedicato agli Avengers, l’inizio di un arco – disegnato dall’inglese Barry Smith, già notevole a inizio carriera – in cui un manipolatore di massa agisce nell’ombra per scatenare una guerra sul nostro mondo e ancora più in alto. È Vision, androide dalla pelle rossa (né umano, supereroe o altro, né dio) l’unico a mantenere la lucidità e a comprendere la situazione; alla fine vediamo Thor lanciare la resistenza contro i progetti guerrafondai di Ares e dell’Olimpo greco. Nel pantheon umano dell’Italia d’oggi – sembra dire il romanzo – mancano quegli outsider in grado, come Vision, di sfuggire a ogni controllo, in grado di sfuggire all’anti-morale dell’arte di arrangiarsi, a cui si adattano anche i rocker più alternativi. Oltre a quelli ultrapotenti come la Visione, esistono gli outsider privi di potere come Wao, e anche per questo il romanzo di Díaz è più bello e intenso. In entrambi i casi, la generazione di Kirby continua a essere una fonte di sogni autentici e problematici.

4. Con la silver age i supereroi gradualmente superano (ma comunque della generazione precedente facevano parte scrittori SF come Hamilton e Bester, che sapevano andare oltre gli stereotipi) il ruolo di supercorpo emanazione e incarnazione della Legge e della sua applicazione. Sempre più, alla legge si aggiunge e si contrappone la giustizia, e una sensibilità che non è più quella della Guerra Fredda.

La Marvel non taglia i ponti con il passato (tornano gli eroi dell’antinazismo: Captain America e Sub-Mariner negli anni 60, i purtroppo semidimenticati Invasori di Frank Robbins nei 70), ma tutto presto cambia. Gene Colan porta Devil e perfino Iron Man verso territori proto-noir, e lo stesso fa John Romita con l’Uomo Ragno, mentre Jim Steranko avvicina Cap e Nick Fury alla sensibilità grafica delle avanguardie pop. Kirby, Steve Ditko e poi Steranko, Gil Kane, Neal Adams (e poi ancora altri: Frank Brunner, Paul Gulacy, Barry Windsor-Smith, Jim Starlin, P. Craig Russell…) svolgono una vera e propria rivoluzione visuale. In tavole che rifiutano ogni scansione regolare Doctor Strange, Fantastic Four, Thor, X-Men parlano di universi allucinatori, di corpi socialmente inadeguati e inaccettabili, di incontrollabili volontà di potere, di speranze di libertà.

Soprattutto i corpi sono diversi in tanti modi. Neri (Black Panther, Falcon, Luke Cage), indiani (Wyatt Wingfoot, Red Wolf), robot, mutanti (per stavolta trascurerò gli X-Men, più noti, molto spesso straordinarie parabole sul razzismo) e – più timidamente – donne sono modi per parlare, a volte dall’interno, di un’eterogeneità sociale ormai incancellabile. E ci sono i conflitti generazionali di cui sono protagonisti tanti di quei lettori: forse più di tutti nel Thor di Kirby (che spinge l’enfasi sulla corporeità fino agli estremi – e le storie del “bioverso” forse guardano molto, molto lontano), fino a Silver Surfer, Conan, Dr. Strange, Captain Marvel, Warlock. Anche sulla loro scia, Howard Chaykin, Frank Miller, John Byrne, Walt Simonson e Bill Sienkiewicz cambieranno poi nuovamente tutto.

Con questi autori, il fumetto impara a guardarsi dentro. Una versione enciclopedica della certosina, entusiasmante bibliografia “metafumettistica” di Fumettisti d’invenzione di Alfredo Castelli (Coniglio 2010, da cui riprendo l’epigrafe dell’articolo) potrebbe aggiungere una quantità sterminata di episodi Marvel, a partire da quel Fantastici Quattro n. 10 (Il ritorno del Dottor Destino) in cui lo spietato dittatore costringe Stan Lee e Jack Kirby ad attirare i Fantastic Four in una trappola: un gioco, certo, uno dei piccoli tocchi che rendevano quell’artigianato qualcosa di amorevole e raffinato.

5. Su quegli anni 60-70 ottime finestre si sono riaperte con alcuni dei volumi della serie da edicola Supereroi-Le grandi saghe (una collaborazione fra Panini e testate RCS). Di Kirby abbiamo già parlato, qui limitiamoci a Gli Eterni (n. 32) che raccoglie la sua intera gestione di una serie (1976-78) che va presto ben oltre un’idea iniziale mutuata da discutibili pseudo-scienze. L’arrivo degli originari costruttori della vita sulla Terra fa emergere due gruppi “segreti”, i distaccati Eterni e i bellicosi Devianti: umani, angeli e demoni insieme davanti alla prospettiva di divinità che forse vogliono cancellare la loro creazione. Shakespeariano nella pluralità di personaggi e nella dimensione larger than life dei dilemmi, in una trama che si lascia gradualmente prendere troppo la mano dall’azione (come in tutta la sua opera tarda, da Kamandi al Fourth World), Kirby alterna parossisticamente ritmi, inquadrature, punti di vista, effetti astratti (sarebbe bello che qualcuno riunisse la sua opera di artista del collage, spesso utilizzata in sfondi per i fumetti). Soprattutto, scatena drammi sulla diversità, sulla moralità, sull’autorità e sul potere. I critici a priori della serialità dicono che la sua perpetua inconclusività sia il limite che ne preclude ogni dignità artistica. Nel suo vertiginoso affastellare grafico di climax dopo climax, Kirby sembra proporre un’altra estetica: il continuo ripetersi di quei dilemmi è un modo per sottolinearne la tragedia. Fra i tanti modi per rappresentare gli incancellabili orrori del potere dopo l’Olocausto, almeno, riconosciamo a quello di Kirby la capacità di far leggere la propria esperienza a tante generazioni.

Visivamente, possibile che a guardare più lontano siano stati gli episodi disegnati da Neal Adams della Guerra Kree-Skrull (n. 14). Nell’enciclopedico story arc dei Vendicatori scritto da Roy Thomas, imbevuto di citazioni tacite (Star Trek, Viaggio allucinante) ed esplicite di molta fantascienza (quella scritta, da Wells a Verne, Clarke, Crichton, Bradbury e Sturgeon; e quella cinematografica, da Cittadino dello spazio a 2001), con partecipazioni di molte figure della continuity Marvel presente e passata, una fellowship of the ring si unisce per sventare una possibile guerra cosmica, con tanto di politicante fascistoide statunitense (un po’ McCarthy, un po’ Nixon). L’intolleranza e la persecuzione del diverso (The Only Good Alien…), nel nome di una razionalità indifferente al reale o di pure volontà di potere individuali o collettive sembrano un rischio cosmico. E allora le immersioni nel corpo di un androide o gli esaltanti viaggi nello spazio, fra zummate e grandangoli dettagliatissimi e ipercinetici, ricreano in colori sgargianti disparate versioni della liberazione on the road. La posta in gioco (un dispositivo di comunicazione dai possibili usi bellici) richiama un discorso scottante sulla neutralità della scienza. Nella trama, nelle inquadrature e in quei colori, Thomas & Adams regalano l’anima sixties alla space opera.

Fermo restando il colore, la storia della saga spaziale sembra dividersi in due. Nel filone più leggero, un ottimo esempio è I Vendicatori contro i Difensori (n.17), scritta nel 1973 da Steve Englehart (sovente ambizioso e politico nelle sue sceneggiature) con disegni di Sal Buscema e Bob Brown, “incrocia” due gruppi con uno spirito che è già quello dei giochi di ruolo. Il lieto fine è obbligatorio, ma nella sua ingenuità spettacolare al centro è la manipolabilità del ruolo di eroe, e l’arcano “occhio del male” in frammenti sparsi per il mondo un’immagine che non si dimentica. Fra cromatismi abbaglianti e una trama più che ingarbugliata, il suo successore più degno è la Korvac Saga del 1978, scritta da Jim Shooter e disegnata dal cesellatore George Pérez (appena riedita in volume dalla Panini): il più avventuroso filone dei supereroi, soprattutto, ce ne presenta la fragilità.

Dall’altra parte, Jim Starlin immerge Captain Marvel e Warlock in una dimensione cosmica-eterea che sembra ampliare scenari come quelli di Poe in Eureka e nei “Dialoghi”. I materiali contenuti in La vita e la morte di Capitan Marvel (n. 19) – un lungo arco del 1973-74 e una coda del 1982, fra i primi volumi a essere presentato come graphic novel – mettono in scena morality play fra un principio di vita incarnato dal protagonista “dimezzato” (o forse schizofrenicamente duplicato, esule alieno che vive fra il nostro mondo e uno spazio ectoplasmico, costretto a scambiarsi di corpo e di mondo con un giovane americano) e un principio di morte incarnato da un semidio folle, creato da un mondo iper-razionale, governato da un computer (oggi diremmo da una IA) chiamato ISAAC (chiaro omaggio ad Asimov), benintenzionato ma impotente davanti al suo mostro. Saranno soprattutto i propri incubi di morte che il protagonista dovrà affrontare. E totalmente teatrale è il volume finale, mesto e fatalista: metanarrativamente, forse, la vera fine della silver age.

Se forse riusciremo ad avere presto una riedizione del Warlock anni 70, molte sorprese ha riservato Il guanto dell’infinito (n. 80), scritto da Starlin e disegnato da Pérez e Ron Lim: una nuova generazione “etnica” ripercorre le linee di Kirby, ancora sotto l’incombere del pericolo di guerre devastanti. L’adoratore della morte trasporta tra architetture surreali un protagonista nato dalla manipolazione genetica, ma presto autonomo. Dopo lo scontro per l’Infinity Gauntlet, entrambi i contendenti scelgono una sorta di eremitaggio, e si salutano con calore. Come il Miller di Batman: Year One ma con meno cinismo, Starlin rilegge la lotta bene-male come un amaro gioco delle parti.

In ogni caso, per immergersi in questo storytelling è importante tenere il polso non solo dei vertici, ma della produzione media. Questa mi pare sia stata la scelta dei compilatori di 70 anni di Marvel (n. 22), che mira in alto solo nel Nick Fury di Steranko, e nelle scelte anni 80-90: ma anche i guizzi della normalità contano.

Ai margini di quel buon mestiere, compaiono anche originali rivisitazioni dell’orrore. Prima di Stephen King e Robert McCammon, a riportare l’orrore classico nella quotidianità degli Stati Uniti del secondo dopoguerra erano stati i fumetti, alcuni dei quali raccolti in Marvel Horror (n. 30), che speriamo abbia un seguito. In quella fine anni 70, Gene Colan dava un’ombra noir a Dracula, e il sorprendente Mike Ploog mescolava horror e mitologia giovanile in Ghost Rider, biker schizoide e maledetto, e nel giovane lupo mannaro brillantemente rititolato Licantropus da noi. Avevamo, invece, dimenticato il lavoro del veterano, poco prolifico Gray Morrow come creatore di Man-Thing, biologo al servizio dell’esercito, mostro creato dalla scienza bellica e dalle paludi del Sud degli Usa: il fumetto popolare americano non dimentica l’orrore del potere al proprio interno.

Così è giusto concludere con Capitan America, l’eroe che da sempre deve scontrarsi con l’America per affrontarne i principi: ne abbiamo parlato su Delos in occasione dell’ultima delle morti a cui è periodicamente destinato, in una sorta di rituale di rigenerazione autocritica. Sospettiamo che le sue versioni più “normalizzate” siano state negli ultimi anni, post-9/11: fra queste, temiamo vi sia il volume dell’anniversario (settembre 2002), Red, White & Blue, in cui molti artisti underground ricadono in uno stereotipo dell’eroe nazionale privo di dubbi che gli artigiani lowbrow avevano superato. Fra le poche eccezioni è Bill Sienkiewicz, a cavallo fra i due mondi: il suo mesto American Dream è a metà fra incubo e rievocazione di una delle tante rinascite dell’eroe. Ma in fondo, il più entusiasmante fra i materiali di Rosso, bianco e blu (n. 36) è l’appendice con il trittico di storie disegnate da Jim Steranko nel 1969: per qualcuno sarà un ossimoro, ma non sappiamo trovare definizione migliore di action-adventure surrealista, con inquadrature mirate soprattutto su occhi e sguardi. In quel caso, la scena della morte fu soltanto un climax fra i tanti: un segno, forse, di tempi migliori.