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Murakami Haruki: tra realtà e sogno

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Alex Tonelli ci conduce alla scoperta dell'immaginario del più grande scrittore giapponese vivente, tra i maestri contemporanei della letteratura dell'immaginario.

Se il Premio Nobel per la letteratura fosse assegnato attraverso un voto popolare non vi sarebbero dubbi sul fatto che Murakami Haruki (riportiamo il nome seguendo la tradizione giapponese che pone prima il cognome e poi il nome) lo avrebbe probabilmente già vinto da alcuni anni. Lo scrittore giapponese, nato nel 1949 e originario di Kyoto, ha saputo costruire intorno a sé e ai propri libri un crescente consenso di pubblico, scalando classifiche e raccogliendo un ampio stuolo di fedeli e avidi lettori.
La critica, come spesso capita, è discorde nei giudizi sullo scrittore giapponese, forse troppo amato dai lettori per essere annoverato tra i grandi della letteratura contemporanea (e forse anche per questo ancora molto lontano dal Premio Nobel). Ma da dove arriva il suo successo?
Difficile sintetizzare la sua produzione in un unico scenario narrativo e di analisi. Il corpus dell’autore di Kyoto è ampio ed eterogeneo sia nello stile sia nei contenuti, nonché nel mezzo espressivo utilizzato (romanzi lunghi, romanzi brevi, racconti e saggi). Ciò che possiamo dire con certezza è che Murakami è senza dubbio uno storyteller, un cantastorie, capace di raccogliere l’attenzione del lettore e di condurla lungo vicende intricate, malinconiche, romantiche, surreali: scorrono veloci le pagine e il tempo vola nella lettura.
In queste pagine vorremmo scorrere l’opera di Murakami per cercare di seguire la sua evoluzione, i suoi stili, le sue trame e lasciare così una sorta di vademecum utile per scoprire (più probabilmente ri-scoprire) i libri di questo grande scrittore contemporaneo. In questo saggio ci fermeremo prima di 1Q84, che con la produzione più recente di Murakami sarà oggetto di un futuro articolo di Next-Station.

Murakami inizia a scrivere piuttosto tardi, ventinovenne, e con un’attività professionale già ben avviata come gestore di un jazz bar (il Peter Cat) con la moglie Yoko. Si racconta che la scintilla che scatenò la sua vena narrativa capitò, come una sorta di magica epifania, durante l’incontro di baseball tra i Yakult Swallows e gli Hiroshima Carp: Murakami assisteva allo stadio alla partita e nel momento esatto in cui il battitore americano Dave Hilton colpì la palla e segnò un doppio, il giovane Haruki capì di voler e di poter scrivere un romanzo.
Tornò a casa e si mise al lavoro e nel giro di alcuni mesi completò Hear the Wind (1979), vincendo un premio come migliore esordiente. Hear the Wind, primo libro di quella che è conosciuta come la Trilogia del Ratto, è inedito in italiano e anche in inglese: l’autore lo considera troppo giovanile per esser degno di una traduzione. Il successo di Hear the Wind, porterà Murakami a realizzare nel 1980 Pinball, 1973 e nel 1982 Nel segno della pecora (Einaudi 2010, dopo una 1° ed. it. come Sotto il segno della pecora, Longanesi 1992).
Protagonista dei tre libri è un innominato io narrante alle prese con le vicende di un amico, chiamato appunto il Ratto e che lo porterà a imbattersi in un intrigo misterioso e a conoscere la figura surreale e onirica dell’uomo pecora: un essere ammantato di un vello ovino in grado di viaggiare nei sogni e nello spazio. L’uomo pecora vive in un luogo di mezzo, uno di quegli spazi onirici che caratterizzano la produzione di Murakami e che rappresentano i luoghi in cui i personaggi possono perdersi e fermarsi, luoghi intermedi in cui ritrovare se stessi e riprendere la vita in un mondo che è stato, surrealisticamente, purificato, rinnovato.

Nel 1985, Murakami dà alle stampe il suo quarto libro, La fine del mondo e il Paese delle meraviglie (ed. it. Baldini Castoldi Dalai 2002), l’opera che più di tutte ha una colorazione fantastica al limite del fantascientifico. Il libro vince nello stesso anno il prestigioso Premio Tanizaki. Da sottolineare che il titolo della traduzione inglese, Hard-Boiled Wonderland and the End of the World, mantiene il termine hard boiled, con cui lo stesso Murakami voleva designare il peculiare carattere narrativo e di genere dell’opera.
La trama del libro è divisa su due linee narrative che pian piano vanno a convergere e a unirsi. In La fine del mondo, la parte più fantastica del romanzo, il protagonista è un uomo giunto in una città misteriosa circondata da mura alte e invalicabili. L’uomo non ricorda nulla del suo passato; come nuovo residente gli viene sottratta l’ombra e assegnato il compito di Lettore di Sogni, scrutando il contenuto dei crani di unicorno. Desideroso di fuggire da quel mondo senza senso, il protagonista scoprirà però pian piano il reale significato della città e sentirà nascere un sentimento per la sua compagna di lavoro. La città sarà allora il luogo da cui far ripartire la sua nuova esistenza. In Il paese delle meraviglie, il protagonista è un cibermatico, un uomo in grado di contenere nel proprio cervello informazioni criptate come fosse una sorta di hard disk vivente. Nel cervello del protagonista sono state però innestate informazioni secondo un processo nuovo che potrebbe dar vita a una reazione a catena in grado di portare alla fine del mondo. Sulle tracce del protagonista gli enigmatici Invisibili e il famigerato Sistema.
La fine del mondo e il Paese delle meraviglie è un’opera fortemente fantastica, carica di contenuti onirici e surreali, luoghi impossibili in cui i personaggi si ritrovano o da cui debbono fuggire, spazi carichi di valenze simboliche e allegoriche. Un’opera che si colloca a pieno titolo dentro il confine dei romanzi fantastici e in cui Murakami continua a sperimentare quel suo tratto narrativo peculiare che è la co-esistenza fra la dimensione reale e fattuale del mondo, la medesima e quotidiana in cui si trova immerso il lettore, e una realtà alternativa, dai tratti onirici e irreali, fantastica e surreale. Questa seconda dimensione, che appare improvvisa e quasi di soppiatto, si estende silenziosa sino a sconfinare e ad amalgamarsi con la prima, dando vita ad una realtà nuova in cui reale e surreale sembrano convivere senza scandalo nelle vite, rinnovate, dei protagonisti.

Nel 1987 esce il libro che consente a Murakami di varcare con forza i confini nipponici e di affermarsi con un autore a livello mondiale: Norwegian Wood (tr. it. Giorgio Amitrano, Feltrinelli 1993), estensione di un racconto pubblicato cinque anni prima dal titolo La lucciola. Questo libro inaugura un secondo filone che si discosta notevolmente dal precedente che, come abbiamo visto, amalgama elementi fantastici a elementi reali. In queste opere l’autore giapponese resta ancorato a un fedele realismo e a una strettissima verosimiglianza dando vita a romanzi che potremmo semplicemente definire “d’amore” e dove le vicende narrate riguardano personaggi in età adolescenziale alle prese con i piccoli drammi di ogni giorno. Vedremo che i due filoni narrativi si alterneranno nell’insieme del corpus dell’autore.
Il titolo Norwegian Wood proviene da quello di una canzone dei Beatles e il romanzo è un lungo flashback narrato dal protagonista, Watanabe Tōru, uno studente appassionato di cultura americana alle prese con le relazioni amorose con Naoko e Midori. Il romanzo, quasi una sorta di romanzo di formazione sentimentale ed esistenziale, racconta il lungo ricordo di Tōru e del suo amore prima per Naoko, delicata figura femminile costretta al ricovero psichiatrico da tragedie e lutti, e Midori, solare e vitale compagna di classe, che rappresenta nell’evoluzione sentimentale del protagonista l’incontro con la donna di carne, intrisa di vita e di vitalità. L’opera è uno struggente cammino nella memoria del protagonista, un percorso di presa di coscienza di sé attraverso i piccoli fatti e i grandi dolori della vita quotidiana che porta Tōru, novello Holden, a comprendere i suoi vent’anni diventando così un giovane uomo.
Del 1988 è Dance Dance Dance (tr. it. G. Amitrano, Einaudi 1998), romanzo che potremmo considerare un sequel delle vicende narrate nella Trilogia del Ratto perché ambientato nel medesimo universo narrativo e con la presenza di alcuni dei personaggi della Trilogia tra cui soprattutto l’Uomo Pecora. Il protagonista è un giornalista freelance con una separazione alle spalle e che attraversa un momento di smarrimento su se stesso e sulla propria vita. Le circostanze intorno a lui lo costringono a improvvisarsi detective e, accompagnato da una giovane ragazza con poteri paranormali, percorrerà un lungo cammino da una Tokyo ultramoderna e cinica sino a Sapporo e al Dolphin Hotel, dove incontrerà, in un luogo sospeso fra più realtà, l’Uomo Pecora che gli rivelerà un segreto e un senso: un’altra strada da percorrere senza mai smettere di danzare.
Il romanzo, a cui chi scrive è particolarmente affezionato per essere stato il suo primo libro di Murakami, è un esempio limpido e piacevolissimo della produzione dell’autore di Kyoto: una trama accattivante e intricata, uno stile di lettura velocissimo e cristallino, un senso di melanconia di sottofondo che conduce alla ricerca di un senso, un significato che possa permettere di andare avanti, sino alla conclusione, semplice come un invito: non smettere di danzare, vai avanti. Danza, Danza, Danza.
Nel 1992 esce A sud del confine, a ovest del sole (Feltrinelli 2000), romanzo che si inserisce nel filone realista-intimistico di Norwegian Wood, e che narra il lungo ricordo del protagonista, Hajime, uomo adulto che vive una vita forse insoddisfacente, del proprio passato e della sua compagnia di scuola, Shimamoto. Il libro, come altre volte in Murakami, è accompagnato da una silenziosa colonna sonora presa a prestito dai brani di Nat King Cole.
Nel 1993 esce la prima raccolta di racconti di Murakami, L’elefante scomparso e altri racconti (ed. it. Baldini & Castoldi 2001 e, tradotto dal giapponese, Feltrinelli 2009), pubblicato in inglese dall’editore Knopf e che raccoglie 17 racconti che vanno dal 1985 e la fine degli anni ’90. Sono piccole storie che Murakami si diverte a narrare mischiando quel sense of wonder che lo caratterizza con una venatura ironica e leggera che troviamo meno frequentemente nei romanzi.

Nel 1995 Murakami pubblica quello che chi scrive considera la sua opera più completa e matura, in grado di trasmettere l’emozione di un vissuto: L’uccello che girava le viti del mondo (ed. it. Baldini & Castoldi e Feltrinelli), con cui vince il prestigioso Premio Yomiuri-Bungaku assegnatogli dal Premio Nobel Ōe Kenzaburo, sino ad allora suo feroce critico.
L’opera, imponente per numero di pagine e per complessità narrativa, racconta in prima persona la storia di Okada Toru, giovane disoccupato sposato con Okada Kumiko. Costellata di personaggi misteriosi e di figure femminili improvvise e variopinte nel carattere, la trama si concentra soprattutto sulla reazione di Toru alla scomparsa/abbandono di Kumiko. Toru intraprende un lento percorso di ricerca di sé e della moglie che lo porterà a viaggiare in luoghi reali e soprattutto in luoghi irreali e magici tra cui vorremo citare in particolare il pozzo.
Il pozzo rappresenta uno degli elementi centrali della narrazione del libro e assume quel significato di luogo magico di cui avevamo parlato in precedenza. Merita dedicarvi alcuni cenni: la reazione di Toru alla scomparsa/abbandono della moglie è di dolore, tristezza, svuotamento e apatia. Senza alcun senso da dare alla propria vita, Toru si cala in un pozzo nel giardino di casa e resta settimane seduto a fissare le pareti senza mai alzarsi, né muoversi, né cibarsi. Da quel pozzo non potrà più risalire perché la vita come l’ha abbandonata in superficie non può esistere più, è stata cancellata dagli eventi, dal tempo che è scorso, dalla vita stessa. Non gli resterà che trovare un’altra strada e potrà farlo solo quando sarà in grado di vedere questa nuova via. Pian piano, nel pozzo, Toru ripensa a se stesso, alla propria storia, alla realtà che ha vissuto, sino a che non ritrova, lentamente, un senso e così, magicamente, le pareti del pozzo si fanno eteree, diafane, e lui scopre di poterle attraversare, di passare oltre, di superare quella barriera.
Facendosi coraggio si alza e passa attraverso la parete di roccia ritrovandosi improvvisamente nei corridoi di un enorme hotel (ancora il Dolphin Hotel di Sapporo?). Qui Toru osserva i personaggi che abitano le stanze di quell’albergo e da lì sarà in grado di uscire per affrontare un mondo nuovo dove anche la scomparsa e l’abbandono di Kumiko assumono un significato, un senso. Il senso che è chiuso nella vita stessa. L’opera è, forse in modo più forte rispetto a tutte le altre di Murakami, fortemente connotata da riflessioni di natura sociale e storica, in particolare è presente una lunga, e spesso cruenta, digressione sui crimini di guerra giapponesi in Manchukuo (Cina nordorientale).
Da sottolineare, infine, l’origine del titolo che si rifà a un invisibile uccello dal canto particolare che ricorda il suono di vecchie viti che vengono girate e che Toru immagina essere un uccello il cui compito è di stringere le viti del mondo per tenerlo fermo, saldo nel suo insieme. Il libro, come si accennava all’inizio, è poderoso, ricco di personaggi e trame intrecciate e non è questo il luogo per una disamina specifica di tutte le linee narrative, vorremmo però ritornare sul senso profondo del volume, sulla sua capacità di essere un’opera che mischia naturalmente elementi della quotidianità reale e elementi fantastici, surreal-onirici, creando inaspettate condizioni per diventare un romanzo di riscoperta, di svelamento e di rinascita.
Murakami, qui come altrove, è consapevole che per riscoprire un senso a un’esistenza ancorata nell’alienazione è necessario creare nuove condizioni, nuovi approcci, nuovi spazi da cui osservarsi e guardare il mondo; questi spazi sono per l’autore giapponese luoghi segreti, fratture, varchi, in cui si capita quasi casualmente e in cui ci si ritrova, nuovamente consapevoli di sé e del proprio cammino.
Sulla scia delle riflessioni sociali e storiche presenti in L’uccello che girava le viti del mondo, Murakami pubblica nel 1997 un saggio/testimonianza sugli attentati alla metropolitana di Tokio del 20 marzo del 1995 a opera della setta religiosa “Aum Shinrikyo”. Il libro, dal titolo Underground (ed. it. Einaudi) è un racconto a più voci che raccoglie le testimonianze di quella mattina tragica per tutto il Giappone. L’occasione serve a Murakami per riflettere sul Giappone contemporaneo, raccontando le contraddizioni di una società ultra-capitalistica, tecnologica, iper-moderna da un lato e tradizionalista, nazionalista, profondamente (e spesso insanamente) spirituale dall’altro. Murakami era stato per molti anni lontano dal Giappone, diviso fra Stati Uniti, Grecia e anche Italia, ma Underground gli permette di riaffermare con forza il suo essere giapponese e di ritornare in seno alle contraddizioni e alle peculiarità della propria terra.
Nel 1999 Murakami torna al romanzo con La ragazza dello Sputnik (tr. it. G. Amitrano, Einaudi 2003), opera che si inserisce nel filone sentimental-intimistico. Romanzo piuttosto breve, La ragazza dello Sputnik racconta di uno studente del college, chiamato semplicemente “K”, che si innamora di una compagna di classe, Sumire. Se la prima parte del libro è più sui toni sentimentali di un amore che si scopre e che affronta le difficoltà di ogni amore, nella seconda parte la trama si tinge di mistero, infatti Sumire scompare improvvisamente in un’isola della Grecia e K parte dal Giappone per cercarla. Nell’isola della Grecia segue le orme di Sumire entrando pian piano nel suo mondo fatto anche di fantasia e di visioni. Ancora una volta Murakami si ferma a riflettere sulla vita, su come evolva, cambi, maturi e su come segua strade spesso inaspettate e imprevedibili.

Nel 2002 Murakami dà alle stampe Kafka sulla spiaggia (tr. it. G. Amitrano, Einaudi 2008), con cui torna prepotentemente al filone del realismo magico. Tomo poderoso e opera complessa, Kafka sulla spiaggia vince nel 2006 il World Fantasy Award nella sezione romanzi.
Come in altri volumi di Murakami, anche in Kafka sulla spiaggia osserviamo due trame che si affiancano e si intrecciano. La prima è quella Tamura Kafka, un quindicenne, che fugge di casa scappando da una profezia edipica espressa dal padre: “ucciderai tuo padre e giacerai con tua madre e tua sorella”. Fuggito lontano, raggiunge una biblioteca privata dove aiuta il bibliotecario (singolare personaggio che si rivela poi essere una donna) e dove si innamora della coordinatrice della biblioteca, la signora Saeki, con cui, pur identificandola con la madre, ha un rapporto sessuale rendendo di fatto vera la profezia paterna.
La seconda trama, di stampo più surreal-onirico, racconta di un vecchietto, Nakata, capace di parlare con i gatti e con altre doti paranormali ma reso un po’ ritardato da un misterioso incidente avuto da bambino. Nakata è avvicinato da uno strambo personaggio di nome Johnnie Walker che gli chiede di essere ucciso, in cambio smetterà di torturare gli amati gatti di Nakata. Nakata, al termine di un conflitto interiore doloroso, uccide Johnnie Walker e in quel momento capisce di avere uno scopo, una specie di missione che deve realizzarsi nei suoi luoghi di origine, a Nōgata. Lì, accompagnato da un giovane camionista scapestrato, troverà e chiuderà la misteriosa pietra dell’entrata.
Anche in questo caso le trame del libro sono molteplici e difficile sarebbe qui raccontarle tutte nel loro continuo intrecciarsi. Kafka sulla spiaggia è un’opera matura, dove emerge con forza l’abilità di Murakami di raccontare, di narrare, di coinvolgere il lettore e di tenerlo legato a sé per tutte le 500 pagine.

Del 2004 è After Dark (tr. it. Antonietta Pastore, Einaudi 2008), romanzo che è difficile collocare nel corpus di Murakami perché presenta delle caratteristiche piuttosto insolite e peculiari. After Dark è stato definito un romanzo postmoderno per struttura e per stile. Senza dubbio il modo di narrare in questo libro cambia notevolmente. Se l’autore giapponese era noto per la sua capacità affabulatoria, questo libro ha una modalità narrativa differente, basata su sprazzi di racconto e su frammenti che non necessariamente si incastrano fra loro.
La vera protagonista della storia è la notte di Tokyo e con essa un corollario di personaggi che vi si muovono. Una Tokyo aliena e alienante, buia e illuminata da neon sgargianti, un immenso e cinico palcoscenico su cui recitano, apparentemente in modo inconsapevole, i personaggi del libro: Mari, una studentessa che passa la notte in un bar a leggere; Takahashi, trombonista che suona il pezzo di fine anni 50 del jazzista Curtis Fuller, Five Spot After Dark; Eri, la sorella di Mari immersa in un sonno profondo, e tanti altri, tra cui un esperto informatico sadico che fa da perno all’intera vicenda.
Un’opera che appare un po’ come una sperimentazione da parte di Murakami che sembra volersi staccare dal suo canone consueto per tentare qualcosa di nuovo, strade narrative differenti. A chi scrive l’opera pare riuscita solo a metà, Murakami non riesce a pieno a sviluppare quelle sensazioni, quel mood, che si respira negli autori più sperimentali e postmoderni. After dark resta un libro non particolarmente avvincente, una lettura spesso faticosa per l’incedere lento e farraginoso e che non riesce a trasmettere l’emozione pungente che il lettore si aspetta.
Ricordiamo anche gli altri volumi editi in Italia: Tutti i figli di Dio danzano (Einaudi 2000) e I salici ciechi e la donna addormentata (Feltrinelli 2006), raccolte di racconti scritti negli anni ’90 e 2000. Da ricordare infine il progetto L’arte di correre (Feltrinelli 2001) breve compendio che racconta l’esperienza di Murakami nella corsa. Questo volume, edito in inglese con il più fedele titolo What I Talk About When I Talk About Running, che riecheggia la famosa raccolta di Raymond Carver What We Talk About When We Talk About Love ci consente di soffermarci a ricordare l’influenza che lo scrittore americano ha avuto su Murakami. Non è certo un caso se Murakami è il traduttore in giapponese delle opera di Carver: stile, sensazioni, essenzialità narrativa dell’autore vissuto nella Sky House ritornano e rivivono anche nelle opere dell’autore di Kyoto.
Lo stesso Raymond Carver tributa questo legame con una poesia dedicata a Murakami dal titolo Il proiettile di cui riportiamo l’incipit che è una rievocazione di una chiacchierata fra i due grandi scrittori:

Sorseggiavamo il tè. Scambiandoci educate
Congetture su come mai i miei libri
Avessero tanto successo nel tuo paese. Non so come
Ci mettemmo a parlare del dolore e delle umiliazioni
Che, secondo te, ricorrono spesso
Nei miei racconti. E quell’elemento
Di pura casualità. E di come tutto si traduce
In termini di vendite.
[Il proiettile, in Blu oltremare, tr. Riccardo Duranti, Minimum fax 2003]

Di 1Q84, come accennato sopra, parleremo in futuro. Dopo aver percorso tutta la sua opera possiamo tentare di tornare alla domanda da cui siamo partiti e ipotizzare una risposta. Da dove arriva, dunque, il successo dei libri di Murakami?
Abbiamo osservato che le trame sono complesse, l’immaginario è assolutamente non scontato, spesso infarcito di inserti onirici e surreali, dichiaratamente fantastici e inverosimili, le sensazioni che la lettura sprigiona sono malinconiche, velate di un fondo sottile di tristezza, il mondo in cui i personaggi si muovono è alienato e alienante, cinico nello scorrere implacabile del tempo che muta e cancella.
Non vi è mai un happy ending, la morte fa capolino con frequenza e ciò che consola è al massimo una nuova strada da percorrere, una nuova presenza nella vita e nel mondo ma che resta sconosciuta e tutta da scrivere ancora. Il presente è consumato e il futuro ancora un territorio tutto da esplorare, misterioso e oscuro. Il passato è gravido di ricordi, spesso dolorosi, e di rimorsi per scelte sbagliate e per errori.
Dentro i suoi libri troviamo le nostre vite, i nostri dolori, le nostre speranze, le nostre lacrime e i nostri sorrisi, i rimorsi e le gioie. Troviamo noi stessi. Forse è tutto qui il segreto del successo di Murakami Haruki da Kyoto.

Alex “Logos” Tonelli
13-08-2012