Neuronica

di Roberto Furlani, 31/12/2011

Curatore sin dal 1999 della fanzine elettronica Continuum, una delle più longeve pubblicazioni online di fantascienza in Italia, Roberto Furlani è un trentenne laureando in ingegneria elettronica che vive a Trieste. Autore di numerosi racconti, pubblicati su varie riviste fra cui Delos, Futuro Europa, Short Stories, e su antologie quali Supernova Express e Frammenti di una rosa quantica. La sua vena principale ha un solido fondamento scientifico, ma la sua hard sf è spesso aperta ad altre suggestioni, tecnologiche e non solo. In Neuronica (versione riveduta di un racconto uscito nel 2006 su Next), lo scenario è quello di una globalizzazione sempre più dominata dalle multinazionali. Un personaggio "senza punti d'appoggio" ci guida alla scoperta di un cyberfuturo decisamente presente, dove la più alienante delle illusioni è il ritorno al passato. - SP

Defrag
Come sempre mi presento con cinque minuti d’anticipo. Se arrivassi prima darei l’impressione di avere bisogno di loro e invece sono loro ad avere bisogno di me; se arrivassi in ritardo mi dimostrerei poco professionale, mentre io sono un professionista. Il migliore, per essere precisi.
Immagino di suonare il campanello e quasi immediatamente mi sento chiedere da una voce femminile proveniente dall’altoparlante del citofono: – Chi è?
– L’idraulico – mento, come da programma. Gli orecchi potrebbero esserci dappertutto. – Per quello spandimento al tredicesimo piano.
Sento la cornetta del citofono che viene riappesa. Poi il portone dell’edificio si apre con uno schiocco.
Entro, attraverso l’atrio con disinvoltura e raggiungo gli ascensori senza che nessuno sembri aver fatto caso a me. Fisso il pannello di chiamata dell’ascensore e istantaneamente avverto un ronzio dalla cabina che scende al piano terra. Le porte metalliche si aprono scorrendo lateralmente. Io entro e seleziono il tredicesimo piano.
L’ascensore ci mette un minuto scarso per compiere il suo tragitto, poi le lastre d’acciaio spariscono di nuovo consegnandomi al lungo corridoio della Russian Infrastructures Corporation.
Procedo fino ad una sorta di reception dov’è seduta una bionda che mi sarebbe piaciuto incontrare in un altro luogo e in un’altra occasione.
– Il dottor Ribinsk? – chiedo.
– Ramo B, terza porta a sinistra – risponde la segretaria con la stessa voce che mi ha risposto al citofono. Non c’è nessuno spandimento e io non ho l’aspetto di un idraulico, ma lei non è affatto sorpresa. Come mi aspettavo la bellezza è connivente, e questo alleggerirebbe la mia apprensione, qualora ne provassi. Ormai sono troppo abituato a queste situazioni; niente cuore in gola, quando mi ci ritrovo.
Seguo le indicazioni della bionda e busso alla porta dell’ufficio di Ribinsk.
– Sì? – dice una voce vagamente stridula dall’altro lato della porta.
Con lo sguardo cerco la telecamera a circuito chiuso. Non la trovo: quell’uomo sa il fatto suo.
– Sono l’idraulico.
La porta mi viene aperta da un individuo tarchiato, con tanto di giacca e cravatta. Il mio fiuto mi dice che è un pesce piccolo, solo un volgare guardaspalle senz’arte né parte. Sicuramente ha una Colt infilata nella cintura, ma le immagini della telecamera nascosta devono averlo tranquillizzato sul mio conto, inducendolo a risparmiarmi inutili brutalità.
Appena supero la soglia il tizio chiude la porta.
Dietro una spaziosa scrivania c’è un uomo non molto alto, tra i cinquanta e i sessant’anni; indossa una cravatta dalle strane figure geometriche bianche e arancio sopra una camicia azzurra. Le maniche arrotolate mostrano dei polsi magri e pallidi, da uno dei quali spicca un Rolex. Capisco che si tratta del mio uomo.
A sinistra un tizio più vigoroso mi guarda con un po’ di diffidenza, ma la cosa non mi preoccupa più di tanto: anche lui è un tirapiedi.
– Qui non ci sente nessuno – esordisce Ribinsk. – Può parlare liberamente, signor Defrag.
Il defrag è quell’operazione che consiste nell’ordinare nel miglior modo possibile i dati nei cluster di un disco rigido, allo scopo di aumentare il volume disponibile e la velocità di accesso e di recupero dei dati stessi. Defrag è anche il mio nome in codice: fornire quello vero, con il lavoro che faccio, sarebbe troppo rischioso.
– Bene. Mi spieghi nei dettagli l’operazione che vuole concludere.
– Certo, lo farò – conviene, – ma le raccomando la massima cautela. La posta in gioco è molto alta. – È per questo che ha chiamato me – replico, risoluto. – Non si preoccupi, mi dica ciò che vuole senza giri di parole e vedrò di accontentarla.
Con un cenno Ribinsk mi invita ad accomodarmi su una sedia di fronte alla scrivania.
– Ho concordato con un partner commerciale una, per così dire, joint-venture lampo – dice sedendosi. – Da fondare nella totale riservatezza e da estinguere il prima possibile.
– Una joint-venture, per così dire, illecita? – gli faccio eco, mentre mi siedo a mia volta. È una domanda retorica.
– Precisamente – annuisce.
– E chi sarebbe il suo partner commerciale?
– Un imprenditore belga. Lucas Von Klain.
Ne ho già sentito parlare in altre circostanze, ma mai in relazione ad affari poco chiari.
– Quello dei depuratori?
– Esatto. L’affare consiste in una duplice transazione. Si tratta di trasferire una partita di droga informatica nella banca dati di Von Klain in cambio di una somma di denaro da depositare sul credito della European Union Trade of Constructions a nome della nostra azienda.
Pondero la questione per qualche secondo, poi osservo: – La somma in gioco dev’essere cospicua, se per ottenerla una società come la RIC deve fare una manovra così delicata.
Ribinsk mi lancia un’occhiata tagliente.
– Il contratto con la EUTC è perfettamente legale – afferma. – È il conguaglio per l’acquisizione a titolo definitivo del tunnel della Manica da parte della RIC.
In una certa misura i miei dubbi si chiariscono; in una misura molto maggiore si complicano. La concorrenza tra numerose compagnie aeree rende il collegamento tra Gran Bretagna ed Europa continentale abbastanza accessibile da far risultare il tunnel un’alternativa scomoda e (di fatto) poco praticata. A naso, la mossa di Ribinsk non mi pare molto redditizia. Non al punto da giustificare il rischio di venir sorpreso a trafficare droga per azzardarla, almeno.
Ma, in fondo, le strategie aziendali della RIC non sono affar mio.
– Non m’importa. Piuttosto vorrei dare un’occhiata alla merce da trasferire, se non le dispiace.
– Certamente.
Inserisce la chiave d’accesso alla sua banca dati e scende fino a un profondo sottolivello del sistema multi-partizionato.
– Prego, guardi pure tutto ciò che le interessa – mi esorta con garbo. Un’ospitalità perlopiù formale: dietro di me si sono già piazzati i due scagnozzi. Una precauzione inutile, come costruire argini di carta velina per contenere le piene del Volga. Se volessi potrei fottere quei due bellimbusti a mio piacimento, senza neanche dar loro la possibilità di capire di essere stati presi per il culo.
Lo sa Ribinsk, lo sanno perfino i due: il loro atteggiamento è simbolico, un semplice avvertimento. Superfluo, per di più, perché non avrei mai tirato colpi bassi alla RIC: quando si maneggia grosse somme di denaro sporco, l’unico modo per rimanere vivi è quello di essere leali con i propri clienti, e io non ho intenzione di morire presto.
Completo un’analisi dimensionale della roba, poi accenno a uno studio qualitativo, finché non ne so abbastanza. Il carico è piuttosto grosso e apparentemente ben tagliato, ma non è su questo che volevo indagare.
Mi aspetta parecchio lavoro perché dovrò stipulare documenti falsi relativi alla joint-venture, crittografare gli stupefacenti e trasferirli.
Sposto lo sguardo dal terminale a Ribinsk.
– Ci vorranno tre giorni – sentenzio. – Chiudere il tutto prima è materialmente impossibile.
Lui soppesa la scadenza, pensieroso.
– Tre giorni – mormora.
C’è poco da riflettere: non ci sono alternative, punto.
– Non un’ora in meno. Quanto al mio onorario, credo lei sappia già che corrisponde al sette percento dell’ammontare.
Ribinsk abbandona le proprie valutazioni per squadrarmi, gelido.
– È un’enormità – protesta. – Il compenso fissato dalla maggior parte dei suoi colleghi non supera il cinque percento.
Non mi scompongo: la sua obiezione è legittima.
– Naturalmente – concordo. – Posso segnalarle i nomi di alcuni miei conoscenti che sarebbero felici di assumersi l’incarico per quella cifra. A patto che lei sia disposto ad accettare che la joint-venture viva una settimana anziché tre giorni. O, peggio, che viva tre giorni lasciando alla sua estinzione, a disposizione di qualsiasi analista ficcanaso, abbastanza indizi da far capire in cos’è consistita.
Rimane un istante in silenzio, con uno sguardo in cui convivono il disappunto per esser stato messo con le spalle al muro e il compiacimento nel constatare l’abilità di chi con le spalle al muro ce l’ha messo. Gli protendo la mano.
– Sette percento dell’ammontare che trasferirò?
Ribinsk me la afferra.
– Sette percento dell’ammontare che trasferirà.

Peta
Sono fuori dal palazzo della RIC e mi sto dirigendo verso l’automobile.
Ripenso all’assurdità di quello che ho appreso nell’ufficio di Ribinsk: il conguaglio del tunnel della Manica verrà pagato grazie alla vendita di una partita di droga digitale.
Molta gente continua a fare uso di quella merda, nonostante gli innesti neurali siano ottimi surrogati. Alterano la realtà senza deformarla completamente, forniscono piacere senza portare alla perdita totale della ragione. E soprattutto non friggono il cervello. Se così non fosse, non avrei mai potuto essere innestato. Invece la scheda impiantata nella mia scatola cranica è diventata gradualmente un impareggiabile strumento di lavoro. Adempie ai compiti più banali, come attivare un pulsante senza che pigiarlo fisicamente, ma se lo desidero mi può ricaricare la carta di credito, collegare alla rete globale, e mettere in comunicazione con un interlocutore, innestato o meno.
Una peculiarità di questo tipo di dispositivi è l’interpretazione dei desideri percettivi dell’utente e il loro esaudimento qualora ricadano nella gamma di marginalità.
In parole povere si tratta di un modello matematico che permette all’innestato di vedere alberi dal fusto viola e dalle fronde fucsia, se questo appaga il suo gusto estetico, ma non gli permette di vedere come verde un semaforo rosso.
Io ho fatto limitare moltissimo la gamma di marginalità del mio innesto, che si riduce sostanzialmente al colore del cielo: detesto le giornate uggiose, quelle in cui il cielo è una tavola grigio fumo uniforme. La loro abulia sembra contagiosa, ti penetra nella pelle e ti svuota di ogni energia. Non che io sia particolarmente meteoropatico, ma avendo la possibilità di scegliere opto per avere sopra la testa una distesa blu elettrico.
So di gente che ha esteso la gamma di marginalità sino ai limiti del lecito: scelgono di sentire il tepore di un bagno turco quando vengono illuminati da una lampada al neon o il gusto delle fragole nei capezzoli delle donne. Poi se per una fatalità l’innesto si guasta, sono costretti a misurarsi con la realtà vera, dopo aver vissuto per chissà quanto in un mondo artefatto secondo le loro ossessioni. Un’esperienza traumatizzante, capace di mandare in manicomio più di qualche fondamentalista della gamma di marginalità. Abbastanza da consigliare a qualunque utente con un briciolo di raziocinio di usare l’innesto con una certa prudenza, insomma.
Fatta eccezione per il vezzo del cielo, per quanto mi riguarda l’innesto fa solo parte dei ferri del mestiere. È un dispositivo con ingressi e uscite bufferizzati; l’elemento fondamentale su cui si erge l’evoluzione del chip è la conversione del segnale cerebrale in segnale elettrico e viceversa. Dei trasduttori ad altissima scala d’integrazione svolgono questo compito; a valle rispetto alle sorgenti c’è sempre un comparatore con isteresi per depurare il segnale da eventuali disturbi prima di convertirlo in digitale.
Il comparatore con isteresi è un amplificatore operazionale retroazionato positivamente mediante due resistenze collegate tra uno dei due ingressi e l’uscita. A un ingresso viene applicato il segnale, all’altro una tensione di riferimento che genera due soglie. Il mancato superamento di entrambe le soglie da parte di un’oscillazione del segnale fa sì che l’oscillazione venga ignorata e non generi alcuna commutazione in digitale. Si tratta verosimilmente di un disturbo di origine elettromagnetica o dovuto alla trasduzione, ma in questo modo i suoi effetti vengono annullati e la conversione risulta accurata.
Banalizzando il concetto, insomma, non c’è il rischio che selezionando un pulsante di un ascensore mi ritrovi al piano sbagliato.
Apro la portiera dell’auto e mi metto al volante.
Ci vogliono trequarti d’ora per raggiungere la mia destinazione, un casolare isolato in una landa semideserta della periferia di Mosca.
Ho dato all’abitazione una facciata di spaccio di alcolici. Gli alcolici sono una copertura perfetta, perché non richiedono alcuna cura o manutenzione. Basta conservarli in cantina. Chiunque perquisisse la mia cantina non potrebbe mettere in dubbio che io sia Anton Konokov, venditore di alcolici.
Invece il mio nome e la mia professione reali sono tutt’altri, mentre la cascina sarà nei prossimi tre giorni la mia casa, il mio ufficio e la mia base.
Parcheggio la vettura di fianco all’edificio ed entro.
Mi metto a mio agio infilandomi un paio di pantaloni larghi e un maglione a collo alto in gore-tex grigio. Devo stare comodo mentre corro contro il tempo e contro i limiti fisici dei miei strumenti. Un caffè prima di cominciare e una bottiglia di integratori di sali minerali da consumare in corso d’opera completano i preliminari.
Mi siedo al terminale, configurato in maniera da essere elettromagneticamente compatibile con il mio innesto. I segnali spuri generati da sorgenti esterne vengono filtrati pressoché totalmente, per quanto in questo luogo siano poche le fonti di disturbo.
Scrivo verbali di consigli di amministrazione mai avvenuti della RIC e della società dei depuratori, falsifico contratti e avallo garanzie mai concesse dalle maggiori compagnie bancarie. È necessario preparare una documentazione accurata che non dia adito a dubbi circa la legalità della trattativa. Ci sono in gioco diversi milioni di dollari e anche qualcosa di molto più importante: se i servizi segreti riuscissero a cogliermi con le mani nel sacco non ci penserebbero due volte a sbattermi in cella per il resto dei miei giorni. In fondo sinora ho fatto a quei cani da guardia più di qualche sgarbo e per loro liberarsi di me sarebbe come sbarazzarsi di una zecca ostinatamente appiccicata da anni.
Per questo devo essere scrupoloso, sotto il profilo burocratico e non. E devo essere veloce: ho solo tre giorni per concludere tutta questa faccenda.
Interfacciando il terminale all’innesto posso guadagnare tempo: arrivo a trasferire gli stupefacenti digitali crittografati con picchi di venti petabit per secondo.
Una velocità sufficiente a permettermi di finire puntualmente il lavoro senza lasciare tracce agli agenti segreti di mezzo mondo, ma non a esentarmi dal passare le prossime due notti in bianco. Nella migliore delle ipotesi troverò tre o quattro ore in tutto per dormire. In tal caso, certamente sognerò…

Soglie
Sto fluttuando in un alveo oscuro ed evanescente. Non ho punti d’appoggio, posso soltanto orientare il galleggiamento agitando gli arti. Ma costa fatica: sono immerso in un mezzo molto denso, entro il quale tutto pare muoversi a rilento.
Mi guardo attorno, per verificare se c’è qualcosa di distinguibile in questo spazio buio, e dopo un po’ scorgo un fascio di luce. Dev’essere molto sottile e lungo. Non riesco a vedere nessuna delle due estremità del fascio, ammesso che non sia infinito.
Una percezione indefinibile mi induce a voltarmi: c’è un altro fascio lucente dietro di me.
“Ok” mi dico, “sono tra le due soglie.”
Un attimo dopo, però, mi accorgo che le due linee luminose si stanno muovendo lentamente verso di me.
Con un colpo di reni spingo la mia fluttuazione verso l’alto. Combatto contro il peso specifico dell’ambiente e con un paio di bracciate mi sposto di qualche metro.
Mi volto ancora: niente da fare, le soglie sono sempre lì.
Tentare di dirigere la mia fluttuazione in un’altra direzione sarebbe sciocco: se le due linee si estinguono, lo fanno ben oltre il mio campo visivo e in uno spazio così denso non ce la farei ad arrivare fino a quell’orizzonte. Posso solo provare a salire ancora. Mi sbraccio di nuovo, spingo sulle gambe e fletto i dorsali quanto più posso. Di quanto mi sarò spostato? Una decina di metri? Eppure non mi sono discostato per nulla dai fasci di luce in continuo avvicinamento.
Sono esausto, devo riposare un po’. Credo di avere un paio di minuti per escogitare una soluzione, basta che rimanga lucido. Mi sono trovato molte volte in circostanze complesse con poco tempo a mia disposizione e me la sono sempre cavata.
Il tempo, già. A ogni metro guadagnato dalle soglie mi convinco che sia quella la soluzione, la dimensione spaziale attraverso la quale fluttuare.
Se solo intravedessi uno spiraglio, un canale dove le rette lucenti non potessero raggiungermi, mi ci fionderei facendo appello a tutte le mie energie residue, ma non ne percepisco traccia qui attorno.
“Forza, proviamo ancora a risalire” mi impongo.
Uno sforzo vano, presumibilmente. Per quanto mi dimeni, alla fine una delle due soglie arriverà a me, ma non posso accettare inerme la sconfitta. Non fa parte della mia indole.
Nuoto verso l’alto in questa sorta di sabbie mobili invisibili, e intanto penso. Penso a come governare il dominio del tempo e alle leggi a cui il cosmo nel quale sono imprigionato deve sottostare.
Le soglie ora sono qui, a due passi.
Il loro fievole lucore illumina lo spazio circostante e dal buio pesto vedo propagarsi una massa melmosa costituita da incomprensibili bizzarrie cromate. È ancora lontana, ma si sta estendendo rapidamente come fosse una metastasi. Dà l’impressione di poter divorare a breve questo universo, e con esso me.
È la gamma di marginalità, la modulazione della percezione del reale tramite deliri artificiali. Il ruscello che pensavo di poter controllare sta dilagando, pare voler trasformarsi in un oceano incommensurabile e travolgermi.
Ho la fronte madida di sudore, mentre il mio corpo è indolenzito dai tentativi fallimentari di trovare una via d’uscita.
Distolgo lo sguardo dalla gamma di marginalità per tornare a fissare le soglie. Io devo essere quel disturbo che non supera le soglie, quell’anomalia che il comparatore con isteresi dei servizi segreti non può rilevare.
Annegare nella gamma di marginalità significherebbe perdere la ragione; venir prima intersecato da uno dei due fasci equivarrebbe alla mia disfatta senza possibilità di riscatto. Non saprei cosa preferire.
Arrivano prima le soglie: stanno per attraversarmi, e solo ora noto dietro ciascuna di esse una figura opaca. Da una parte un uomo non molto alto con una camicia dalle maniche arrotolate e una cravatta dalle eccentriche figure bianche e arancio; dall’altra un tizio che non mi ricordo di aver mai incontrato. Von Klain?
Irragionevolmente non sono ancora rassegnato, penso solo allo scorrere del tempo.
Un suono proveniente dall’innesto nella mia testa mi sveglia. Sono trascorse le tre ore di sonno che mi ero concesso.
Impiegherò almeno dieci minuti per trasmettere picchi di venti petabit per secondo.

Quit
Mi sono fatto portare la colazione in camera da un inserviente.
Il caffè caraibico è diverso da quello russo, ma non mi dispiace per niente.
Come ogni mattina ho chiesto anche un quotidiano di interesse internazionale. È inusuale per me leggere le notizie su carta, ma finché resterò qui non mi collegherò ad alcun terminale.
In realtà, se lo volessi potrei rimanere su quest’isola per sempre: nel corso della carriera ho guadagnato abbastanza da permettermi di ritirarmi a condurre una vita agiata ovunque io voglia.
Anche l’ultima operazione si è rivelata molto proficua: ancora una volta l’ho fatta franca con i servizi segreti e ho riscosso quanto mi spettava senza contrattempi.
Non ho la più pallida idea di quanto siano andati vicini a prendermi, e del resto è meglio non pensarci. A ogni transazione potrei finire nella loro rete di controllo e allora dovrei definitivamente chiuderla con gli affari. Nulla di nuovo, sono i rischi del mestiere e io non ho ancora intenzione di dedicarmi al giardinaggio e al bricolage.
Sfoglio il giornale masticando delle specialità esotiche a base di frutta. Un articolo calamita la mia attenzione: in un attimo tutto diventa chiaro e logico.
Sono spiazzato: con tutta la fantasia di cui dispongo non avrei mai immaginato una cosa del genere. Un leggero mugolio proveniente dal letto mi distoglie dalla lettura.
– Buongiorno – dice Dalma, stropicciandosi un occhio con la mano.
– Buongiorno. Dormito bene?
Lei annuisce. – Tu? Sei sveglio da molto?
– Da un’ora. Giusto il tempo per dare un’occhiata al giornale.
Dalma si alza a sedere. Un lembo di lenzuolo le scivola scoprendo un seno.
– Dove mi porti oggi? – chiede.
Chiudo il giornale, accantonando la notizia che mi aveva assorbito.
– Da nessuna parte – rispondo. – Questo pomeriggio devo prendere l’aereo per tornare a casa.
– Ah. Ti rivedrò?
Mi alzo e vado verso la porta.
– Sì, ci rivedremo.
Dalma allarga il sorriso indulgente di chi sa di aver sentito una bugia.
Non mi sono trovato male con lei, ma sono un fuorilegge che ha causato la perdita di molti milioni di dollari a strutture statali e a compagnie private. Tornare più volte nello stesso luogo e allacciare un qualsiasi tipo di rapporto sarebbero delle ingenuità imperdonabili, che potrei pagare a caro prezzo.
– Ti faccio portare la colazione a letto – dico, poi esco.
Sul tavolino al quale ero seduto le ho lasciato un generoso compenso, il giusto premio per la sua gradevole compagnia di questi giorni. I soldi non sono un problema.
Faccio quattro passi in riva al mare, gli ultimi prima di partire per Mosca.
La spuma biancastra accarezza la sabbia a pochi metri da me, con un ondeggiare ritmico e piacevole. Ritorno col pensiero alla lettura di pochi minuti fa: la RIC ha venduto il tunnel della Manica a un non meglio precisato consorzio che lo vuole ampliare e rivalutare.
Secondo i progetti del consorzio il tunnel diventerà uno Stato indipendente, una zona franca libera dal controllo delle corporazioni. Si chiamerà Nuova Atlantide.
Naturalmente i lavori di riqualificazione verranno affidati alla RIC, che con questo appalto coprirà le spese sostenute per l’acquisizione dell’intero pacchetto azionario del tunnel e diventerà la più grande società mondiale nel campo dell’edilizia.
Ribinsk sapeva dell’esistenza del consorzio e aveva intuito le prospettive. Ha fatto bene i propri calcoli, e probabilmente con questa manovra ha garantito la ricchezza più sfacciata a tutta la propria discendenza, fino all’ultimo membro della stirpe.
Anche Von Klain ne uscirà rafforzato: uno stato subacqueo ha esigenze particolari e necessita una nuova generazione di depuratori.
Mi domando solo quale sia la natura di Nuova Atlantide. Uno Stato di idealisti? Una culla del terrorismo? L’epicentro di qualche movimento rivoluzionario o restauratore?
Non lo so, e in fondo non mi riguarda.
È meglio che mi goda questa passeggiata.
La spiaggia dei Caraibi è splendida, sotto questo cielo blu elettrico.

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