prospettive:

introduzione [la fantascienza del XXII secolo]

di Valerio Evangelisti

Può esistere una fantascienza “plotiniana”? Vale a dire una fantascienza capace di coniugare la visione di Plotino (o di Ermete Trismegisto) di un universo fatto di pensiero, e dunque pensante e pensato, con le più recenti teorie della fisica? Se ciò fosse possibile, sarebbe una rivoluzione: esoterismo e scientismo che diventano una sola cosa, e assieme dialogano con l’unico genere letterario capace di proporre e fare intendere questa novità.

Tale mi pare l’intenzione degli scrittori connettivisti, che lanciano la loro sfida a partire da un modello teorico di elaborazione relativamente recente: l’ipotesi dell’universo olografico, proposta venticinque anni fa da un’équipe della Sorbona diretta dal fisico Alain Aspect, e poi ripresa da David Bohm, dell’università di Londra, e dal neurofisiologo Karl Pribram, docente a Stanford.

Non intendo sostituirmi ai connettivisti nel descrivere la teoria. Dirò solo che il suo punto di partenza è la constatazione che particelle subatomiche come gli elettroni interagiscono da distanze vertiginose, quasi conoscessero il loro reciproco comportamento. A questa straordinaria scoperta di Aspect - ampiamente dimostrata in via sperimentale - Bohm aggiunse una spiegazione, tra le poche ipotizzabili. Se gli elettroni possono interagire a distanza, è perché non hanno vita individuale: fanno parte di un tutto.

Bohm estendeva ciò a livello universale, fino a dire che quel che vediamo dipende dal nostro modo di osservare. Scorgiamo due oggetti in movimento laddove ce n’è uno solo, scisso in diverse prospettive. Pribram spiegò il perché. La nostra mente funziona come un generatore di ologrammi. Dà aspetto tridimensionale a ciò che non lo è. La "realtà" non esiste di per sé, bensì quale noi la elaboriamo sulle base delle frequenze che ci trasmette. Del resto, già si sapeva che gli animali vedono un universo totalmente differente da quello degli umani, data la conformazione diversa dei loro occhi e del loro cervello.

Le conseguenze sono molteplici, e sconvolgenti.

Anzitutto, "Ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare il miracolo della Cosa Una", per citare la Tabula Smaragdina attribuita a Ermete Trismegisto, fondamento stesso dell’alchimia.

In secondo luogo, tutto è pensiero, cioè elaborazione cerebrale. Senza il tramite delle sinapsi (ma forse intelligenza e memoria non risiedono solo in quella zona del corpo), non vi sarebbe una visione unitaria di ciò che esiste. Alla conferma di uno dei postulati della meccanica quantistica, per cui ciò che si osserva muta comportamenti e acquisisce concretezza all’essere osservato, subentra un’interpretazione estremistica: ciò che osserviamo, tocchiamo, sperimentiamo, è totalmente illusorio. L’universo che conosciamo è estensione dei nostri organi di senso. Dunque frutto del pensiero, come in Plotino.

In terzo luogo, tempo e spazio sono altrettante illusioni. Funzionano nell’ambito di una percezione che è falsa ab origine. Il tempo non passa ed è lo spazio che evolve a seconda di come viene immaginato. Un’intuizione che costò a un discepolo di Einstein, Jean Émile Charon, l’emarginazione perpetua dalla comunità scientifica. Però condivisa da Jung e da molti dei suoi seguaci.

La domanda che si pongono i connettivisti, riformatori italiani della fantascienza, è semplice e chiara. Può un genere narrativo, da sempre in anticipo sulla scienza, prescindere dalle sue teorie più moderne e meno ortodosse? Può evitare di indagare su nuove frontiere, in cui introspezione ed estrospezione sembrano riprodurre, a livello di conoscenza di ciò che abbiamo attorno, l’antico "miracolo della Cosa Una"?

Prima o poi, ogni autore classico della SF aveva debordato in una specie di metafisica indagata con strumenti razionali. Dick, naturalmente, ma anche Sturgeon, e persino Heinlein.

Ebbene, è dall’Italia che tutto ciò, da stimoli sparsi che era, si traduce in programma.

Benvenuti nella fantascienza del XXII secolo.

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