tratto da [l'incanto di Bambola]
... la vocazione meccanico-scapigliata che già sorreggeva il romanzo si esprime anche nel racconto che segue, che tuttavia è addolcito da toni soffusi e delicati, capaci di intessere intorno ai protagonisti un’atmosfera lirica... [CONTINUA]
Soggiorno sulla costa
I venti di libeccio fanno vibrare la pellicola lucifuga cinese che il papà di Bambola tiene appiccicata alle vetrate della sua stanza.
Bambola ha sei anni e da sei anni e mezzo vive qui. Da quando è stata strappata come un frutto acerbo dalla placenta della madre tra lacrime di sangue per essere deposta come un seme nell’ovatta dell’incubatrice. Bambola ha due grossi occhi azzurri, e dalla bocca fuoriescono alcuni denti da latte.
Ora cammina per la stanza con dimenticata rassegnazione, sbattendo le pantofole sul polimero incolore del pavimento e agitando il panneggio della vestaglia come una musa bonsai.
Non ha idea di cosa sia l’infanzia, come molti bambini in fondo. La vita è per lei la varietà degli strumenti che la circondano.
Solitamente gli adulti si ricordano quando da piccoli, alla fine di un’impegnativa mattinata scolastica, e dopo un pranzo succulento preparato con tanto amore dalla mamma, si trovavano combattuti tra il sopore digestivo e la voglia di scorrazzare con gli amici. C’era la frenesia dell’esplorazione, attraevano gli ampi spazi, ma anche i nascondigli, le piccole cose, i segreti. A volte ripensano a quei momenti come i più belli dell’esistenza, ma sono comunque soddisfatti dell’attuale consapevolezza, che prima mancava.
Voi dimenticatevi tutto.
Non ci sono ampi spazi, non ci sono nascondigli. Bambola percepisce il vento forte della costa solo dalla vibrazione della pellicola e dal raro scricchiolare degli infissi.
Ma Bambola ha molti amichetti che le tengono compagnia in questo soggiorno che non ha fine. Martin è il suo maggiordomo, il computer centrale; le parla con la voce suadente e complice, ben tarata per accondiscendere e suggerire. È una specie di precettore. Poi ci sono il pod, la consolle e lo schermo. Giochi e sensori. Ma c’è anche Frida, la sua piantina grassa. Un esserino colorato e vivace che si limita a crescere, senza rispondere alle domande della sua padroncina. E Bambola è contenta che ci sia qualcuno, Frida, che non tenti di fugare i suoi dubbi, ma se ne stia immobile con lo sguardo incosciente e spontaneo, emanando sentori di clorofilla e zucchero.
Bambola conosce a memoria la posizione di tutti i suoi amichetti, anche se qui dentro è buio. Si aiuta con degli occhiali notturni, e si muove zampettando come un insetto in quella sua stupenda tremenda tana.
Bambola è fotofobica immunodeficitaria. Un piccolo raggio di luce sulla sua pelle la avvizzirebbe in poco tempo, disidratandole il corpo come un’alga su una spiaggia assolata.
Bambola abbraccia il pod come farebbe con un orsacchiotto di pezza ed entra in contatto con il mondo esterno. Ci sono migliaia di pod distribuiti nel mondo, e molti di loro si muovono, permettendole l’accesso in qualsiasi luogo desideri. Disneyland, le cascate del Niagara. Il Colosseo, il Campanile di Pisa, le onde dell’Australia. I pod le restituiscono fedelmente le sensazioni del luogo. Bambola sente se fa freddo, se piove, a volte percepisce anche gli odori, e può toccare le persone che interagiscono con il pod. E può godersi la luce, che riceve direttamente nel nervo ottico.
Può frequentare anche certi esclusivi asili svizzeri, ma Bambola preferisce correre sulla sabbia dei deserti sconfinati dell’Arabia, sotto il sole cocente e secco sentendo le gambe sprofondare fino alle ginocchia nei granelli grossi e levigati, rossi come l’imbarazzo.
Ogni tanto papà viene a trovarla, quando glielo permette il lavoro. È una persona importante, dice lui. È un magnate dell’industria biogenetica, dicono i media. Bambola è felice quando lo vede, nonostante lui indossi la tuta ermetica. Lo abbraccia e si aggrappa con le manine al tessuto rifrangente, baciandogli il visore del casco. La stanza è asettica e non può permettersi contaminazioni esterne.
Papà è buono con lei. Le rare volte che la viene a trovare le porta dei fiori. Il pod non è ancora così perfetto da riprodurre bene gli odori, soprattutto se complessi e pungenti come il profumo di un mazzo di orchidee.
Fa tutto questo per lei, per evitare di farla indossare a lei, una mostruosa tuta isolante. Arriva, le porge il mazzo, si fa baciare sul casco e sorride. Un sorriso enigmatico, un sorriso ingenuo e genuino, ma anche il sorriso che si fa vedendo l’ostinazione di un germoglio che spunta dalle crepe dell’intonaco.
– Bambola mia, baciami, come sei cresciuta!
Lui è un uomo corpulento, ha l’andatura elegante e sicura.
– Hai mangiato tutti i cioccolatini?
Lei annuisce diligente come una donna delle pulizie.
– Ehi, piccolina – la prende in braccio, – cos’è questo muso, eh?
– Non ci sei mai.
Il suo imbarazzo non si nota, nascosto dalla distanza della calotta del casco.
– Ti prometto... – è veramente convinto di ciò che sta per dire? – Ti prometto che da oggi verrò più spesso.
– Non è vero – risponde Bambola incespicando sulle parole. Non è abituata molto a parlare, ma con il papà è perentoria. Deve dire cose essenziali in quei pochi minuti. Lui avvicina il visore del casco alla boccuccia di Bambola. Sarebbe un tentativo di bacio.
– Ti voglio bene, papà.
Poi papà vorrebbe giocare con lei, ma non conosce giochi. Martin suggerisce l’aereo. Papà dovrebbe farla svolazzare per la stanza come fosse un jet. Bellissima idea Martin, convengono.
E per una buona mezz’ora Bambola svolazza libera interpretando quelle folatine come il vento che spesso il pod delle altalene cerca di trasmetterle.
Ma il jet, quello vero, attende papà. L’apertura di Wall Street è vicina.
E papà lascia la bambina dagli occhioni azzurri al suo incantesimo.
Ciao, Bambola.