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tratto da [viola]

di Mario Campaner

Un racconto maturo, capace di evocare atmosfere decadenti e che riesce a portare avanti un discorso sulla vita e sull’arte. Questo punto di contatto con la tradizione tardo romantica... [CONTINUA]

(sogno e risveglio)

David era disteso sulla spiaggia, con le mani accarezzava la sabbia mentre ascoltava il rumore di fondo del mare. Nella sua vaghezza lo sciabordio delle onde evocava un piacere intimo e antico. All’orizzonte il cielo della notte stellata si fondeva con il mare tenebroso e inquieto, in un gioco sublime di luci guizzanti e tenebre eterne, un gioco che dilagava nella mente di David schiudendo all’immaginazione nuove visioni di una potenza devastante. Come l’ultimo fuoco di un dio caduto in disgrazia, oppure un dipinto di Turner.
Smarrito nella sua sinestesia, trascorse qualche minuto prima che potesse scorgerla danzare sull’acqua. Era sempre lei, baciata dai raggi della luna: la bellissima dea d’avorio. Ancora una volta David ne ammirava la perfezione assoluta, ancora una volta si scopriva desideroso di stringerla a sé. Lei, forse percependo questo desiderio, emerse dal mare con la grazia di una Venere e il fascino misterioso di una sirena. Raggiunse David a riva, si distese con lui e, nel calore dei corpi, lo dissolse nel suo bacio.
Lui riemerse per chiedere il suo nome. Lei non rispose. Si limitò a guardarlo con quei suoi occhi antichi ed enigmatici, che il sogno tinse di una rara sfumatura di viola.

Aprì gli occhi, ci mise due minuti almeno per riconnettersi alla realtà. Si trovava nel suo appartamento ed era vivo. Vista la situazione, non aveva di che lamentarsi: le sue ultime ore di coscienza, il concerto e la stanza, non erano dissimili da un vortice fantastico inghiottito dai secoli.
All’improvviso trasalì e con uno scatto fulmineo si portò una mano alla nuca: sentì la carne fresca e il sangue rappreso sulla cicatrice appena ricucita. Era tutto vero. Era libero.
Si alzò in piedi, barcollante e confuso, attraversò la stanza interamente dipinta di blu notte e raggiunse la scatola di cristallo auto-refrigerante inchiodata al muro. Quella scatola era una bara, al cui interno materiale organico gelatinoso e verdastro imputridiva, avvolto da un groviglio di tentacoli di acciaio che con premura avrebbero dovuto provvedere ai fabbisogni di quel miracolo di bioingenieria.
Il suo angelo custode era morto. Avevano estratto la larva metallica impiantata alla base del cranio di David e l’angelo era impazzito, surriscaldandosi e decretando il decesso della parte organica. Gli restavano altri quattro mesi prima del controllo semestrale, dopo di che sarebbe stato l’esilio. Ma il problema passava in secondo piano, adesso che finalmente le porte dell’inferno si erano dischiuse per lui. Perché gli angeli custodi non servivano ad altro che a rendere felici le persone, a filtrarne la coscienza, specie nel sogno, fornendo un sollievo illusorio ma tangibile alla depressione e alla follia, le piaghe che ormai imperversavano nel continente. Ogni abitante della città – la Città della Pace per i politici e gli stranieri, ancora Berlino per i romantici – era provvisto del suo angelo custode, fabbricato appositamente per le sue esigenze dalla Centrale. L’innesto era divenuto obbligatorio per legge al compimento del sedicesimo anno di età, ma in casi eccezionali era contemplato un anticipo sui tempi. Chi rifiutava la larva e l’angelo era esiliato. Stessa sorte per quanti si votavano all’espianto. I mangialarve venivano puniti con la morte tramite azzeramento cerebrale, quanto di più orribile la Centrale potesse concepire.
David si diresse alla finestra, la sua testa un nido di serpi avvelenate. Eppure il dolore era accompagnato da un senso elettrizzante di ribellione suprema e di trionfo. Dal suo appartamento la vista mozzava il fiato. Berlino era una vecchia affascinante: distrutta e ricostruita così tante volte nella sua storia, aveva il dono che la tradizione riservava alla fenice, di risorgere ogni volta dalle proprie ceneri.

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