Alcune considerazioni sul capolavoro di Ridley Scott, sull’immaginario cyberpunk e la fantascienza, a 25 anni dall’uscita di Blade Runner nelle sale.
“Una nuova vita vi attende nelle colonie extra-mondo. La possibilità di ricominciare in un El Dorado di opportunità e di nuove avventure…”
La storia non fa salti, è quello che ci insegnano a scuola. Sulla falsariga delle idee di Leibniz (“natura non facit saltus”) e di un certo riduzionismo implicito in ogni tentativo scolastico di divulgazione delle teorie naturalistiche di Darwin, siamo abituati a considerare il progresso (storico, scientifico, culturale, etc.) come un processo di sviluppo graduale, una lenta evoluzione verso forme e strutture sempre più complesse, funzionali, efficaci. Ma in natura come nella storia, come pure nei più diversi campi dell’attività umana, un ruolo di primo piano è sempre giocato da quei rivolgimenti improvvisi che con il loro manifestarsi incidono nel lento procedere degli eventi, si tratti delle mutazioni che portano all’emergenza dei nuovi caratteri forniti in eredità alla specie, oppure delle rivoluzioni che determinano la comparsa di nuove strutture sociali e politiche.
Anche in ambito culturale è possibile individuare degli improvvisi scatti in avanti: opere e autori capaci di imprimere la loro svolta all’orizzonte culturale della loro epoca, anticipando (ma forse sarebbe più opportuno parlare di influenza, anziché di premonizione) i traguardi futuri. Il Novecento è stato il secolo della massificazione: arte, cultura, informazione, sono diventate progressivamente di dominio pubblico, o per lo meno l’accesso ai meccanismi di fruizione ha spazzato via le barriere che nei secoli passati avevano tenuto fuori dal circuito culturale la stragrande maggioranza della popolazione. Si è trattato di un evento cruciale nell’evoluzione delle dinamiche sociali, e in termini di civiltà paragonabile solo all’altra grande rivoluzione culturale che ha segnato il culmine del XX secolo e l’alba del Nuovo Millennio: la facilità di accesso ai meccanismi di produzione e distribuzione dei beni culturali. Grazie ai nuovi media e in particolar modo alle risorse fornite da Internet, la linea di separazione tra i diversi ruoli, tra chi genera e chi fruisce dei prodotti dell’arte e della cultura in senso lato, è andata scomparendo. La distinzione si è fatta sempre più labile e arbitraria. E così abbiamo assistito allo spettacolo della popolarizzazione (o, se vogliamo, della “democratizzazione”) dei processi mitopoietici, un tempo appannaggio esclusivo delle elite, rivendicate con arroganza dalle accademie.
I primi passi in questa direzione sono forse merito delle avanguardie, che per una buona fetta del secolo scorso hanno manovrato il timone dei gusti e delle mode, passandosi l’un l’altra la staffetta nella corsa di avvicinamento al futuro. Dal futurismo, alla fantascienza, non a caso indicata da James G. Ballard, negli anni ’60, come l’ultimo territorio letterario aperto alla sperimentazione, dominio che a lungo era rimasto prerogativa delle avanguardie. Non desta quindi stupore se l’ultima ondata di rinnovamento che ha scosso l’elettroencefalogramma del Novecento è stato il cyberpunk: movimento sorto in seno alla fantascienza e presto affrancato dalle “catene” del genere grazie alla sua attitudine postmoderna a inglobare elementi, linguaggi e icone di matrice eterogenea, in un ideale cortocircuito con l’immaginario popolare.
Come movimento, il cyberpunk esplose ufficialmente nel 1984, grazie alla risonanza senza precedenti che accompagnò l’uscita di quello che ne diventò a tutti gli effetti il manifesto letterario: stiamo parlando ovviamente di Neuromancer, il romanzo di William Gibson che impose nella letteratura la carica di immagini visionarie che sarebbero entrate nell’esperienza comune di lì a una quindicina d’anni (il cyberspazio, il personal computer, i virus informatici, l’interfaccia) oppure sarebbero finite accolte nella mitologia e nell’iconografia della nostra epoca (i cowboy della consolle, le intelligenze artificiali). Gibson porta alle estreme conseguenze metafore come il cyborg e lo spazio incorporeo della realtà virtuale già presenti in illustri predecessori (Frederik Pohl, Alfred Bester, James G. Ballard, Philip K. Dick, Samuel R. Delany), sviluppando intorno ad esse una attenta meditazione critica sui processi della propagazione culturale. È un’operazione che deve molto all’esperienza del postmoderno, e di William Burroughs e Thomas Pynchon in particolare. Ma i riferimenti culturali del capolavoro di Gibson spaziano dall’arte (Duchamp) e dall’architettura d’avanguardia all’urbanistica (lo Sprawl), alla musica (i Velvet Underground e Lou Reed, il dub giamaicano), fino ad arrivare alle sottoculture giovanili (droghe di sintesi, hacker, feticismo tecnologico) e metropolitane (gli snuff movie). Neuromante è allo stesso tempo il ritratto di un’epoca e la proiezione attendibile dei tempi che sarebbero seguiti, e rispecchia alla perfezione la definizione di cyberpunk che sarebbe stata fornita in seguito da Bruce Sterling (come “integrazione del mondo high-tech e della cultura pop, specie nel suo aspetto underground”).
“Quella dell’informazione” dichiarò Gibson in un’intervista a Larry McCaffery (1986) “è la metafora scientifica dominante della nostra era, perciò abbiamo bisogno di affrontarla, di provare a capire cosa significhi. Non che la tecnologia abbia cambiato il mondo trasformandolo in codici. Ai tempi di Newton non si guardava alla realtà in termini di scambio di informazioni, ma per noi oggi le cose stanno così. Questo mi porta a confermare il sospetto che Sigmund Freud abbia molto a che vedere con il motore a vapore: in entrambi i casi ci troviamo nella stessa regione metaforica”.
Di fronte a un lavoro così ambizioso e alle energie che presumibilmente Gibson dovette investire nella sua stesura, non sembra affatto improbabile la leggenda metropolitana (se di leggenda si tratta) che si tramanda sull’uscita di Blade Runner nelle sale: per tutta la proiezione Gibson restò incollato alla poltrona, stravolto dalle immagini che si susseguivano sullo schermo e che sembravano prese di peso dalle sue pagine ancora inedite, e all’uscita dal cinema fu tentato di tornare a casa e buttare nel cestino il manoscritto. Per fortuna lo sconforto del momento passò, e oggi gli appassionati di tutto il mondo possono godere di due capolavori espressi dallo Zeitgeist di quegli anni in due forme artistiche così diverse. E forse, se Neuromante a oggi ha venduto nel mondo oltre due milioni di copie, una parte del merito va attribuita anche all’effetto trainante del film di Ridley Scott.
Blade Runner è un’opera paradigmatica, che raccoglie e in un certo senso sintetizza la mitologia occidentale e, allo stesso tempo, se ne serve per elaborarne una adatta ai tempi veloci e mutevoli che stiamo attraversando. Magari è anche grazie all’uso di questo sostrato culturale sostanzialmente noto a tutti, se una pellicola hollywoodiana è riuscita a veicolare immagini e riferimenti appartenenti a un immaginario fondamentalmente di nicchia, e quindi circoscritto, come può essere quello della fantascienza, in maniera più incisiva e quantitativamente consistente di tutte le opere che l’hanno preceduta e seguita.
Per quanto i diversi linguaggi artistici si siano andati massificando, l’immagine e la scrittura continuano ad avere capacità e velocità di penetrazione non ancora paragonabili, in conseguenza del diverso grado di immediatezza dei due media. Così, se oggi immagini e metafore che un tempo sarebbero rimaste prerogativa di un immaginario di genere si sono riversate al di fuori dei suoi confini naturali, rendendosi immediatamente riconoscibili a un bacino generalista sempre più vasto, è anche perché quelle immagini e quelle metafore hanno trovato un vettore adatto che ne ha agevolato la propagazione massiva.
Paradossalmente, alla sua uscita nelle sale Blade Runner fu un clamoroso fiasco. La produzione, complessa e laboriosa, tormentata da mille tribolazioni, vide incrementare progressivamente i costi imponendo continue revisioni al rialzo del budget stanziato dai finanziatori. Alla fine, in America, gli incassi coprirono a malapena la metà dell’investimento di 28 milioni di dollari, una cifra senza precedenti per un film di fantascienza. Eppure… Forse fu quella sensibilità che sembrerebbe fosse sospesa nell’aria in quei primi anni Ottanta, la stessa che proprio in quei mesi ispirava a Gibson le sue visionarie metafore tecnologiche e scientifiche, che determinò il progressivo attecchimento dello stile, dell’estetica e delle tematiche del film in un background sempre più ampio. Possiamo tranquillamente sostenere che il progressivo successo di Blade Runner, la sua inesorabile ascesa verso l’esclusiva dimensione delle opere di culto, rappresenta uno dei casi più emblematici di inerzia memetica, e finì per ripagare con la gloria, se non in termini economici, tutti quanti presero parte alla sua lavorazione.
La storia del cinema non vanta molti esempi di film impostisi nell’immaginario collettivo al punto da ridefinirne i contorni. Blade Runner, che vi figura di diritto, è anche l’unico della lista ad avere subito continui rimaneggiamenti: in vista del decennale, nel 1991 Ridley Scott ne mise a punto una Director’s Cut, più cupa e, se vogliamo, ancora più ermetica dell’originale, malgrado le intenzioni del regista inglese di rendere più esplicita la vera natura della personalità di Rick Deckard/Harrison Ford. E per il venticinquennale che ricorre quest’anno, Scott ci è cascato di nuovo, approntando quella che dovrebbe rappresentare la Final Cut, la versione definitiva, che combina un nuovo montaggio a una completa revisione dell’immagine. Definitiva? Mai dire mai, specie davanti a un film che a ogni riedizione – al cinema, in laser disc, VHS, e infine DVD – ha saputo guadagnarsi una intera nuova generazione di entusiastici ammiratori.
Nonostante il monopolio quasi dittatoriale esercitato negli ultimi quindici anni da Ridley Scott, con una logica che ormai è arriva a sfiorare pericolosamente le dinamiche del nudo e crudo sfruttamento commerciale del marchio e dell’immagine del film, Blade Runner reca ancora oggi i segni benefici di un apparato cooperativo senza precedenti. Il contributo apportato da ciascuno dei suoi autori è stato determinante nel suo duraturo successo: le tematiche prelevate dal romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? (1968) di Philip Dick, interprete straordinario dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo; la sceneggiatura concepita con slancio e passione da Hampton Fancher (la vera anima del meccanismo produttivo che, a conclusione di una lunga via crucis, avrebbe portato alla realizzazione del film) e messa a punto dalla professionalità di David Peoples; la suggestiva colonna sonora del grande Vangelis; le scenografie del designer Syd Mead (già implicato nell’ideazione delle linee del Concorde, per lui fu escogitata dalla produzione una nuova figura professionale per evitare spiacevoli strascichi con i terribili sindacati hollywoodiani: nei titoli di coda figura come “futurista della visualizzazione”), abilissimo nel mescolare invenzioni barocche e monumentalità gotiche in un evocativo melange cleptoarchitettonico; senza dimenticare gli effetti speciali di Douglas Trumbull, già collaboratore di Stanley Kubrick per il grande predecessore, 2001: Odissea nello Spazio, la fotografia di Jordan Cronenweth (curatore storico per Francis Ford Coppola) e le interpretazioni memorabili (su tutti, le due donne artificiali, Rachael Tyrell/Sean Young e Pris/Daryl Hannah, il sofisticato Gaff/Edward James Olmos e il titanico Roy Batty di Rutger Hauer). Con un simile mix di valori, considerando in retrospettiva quanto “regalatoci” dal cinema degli ultimi anni, non può non destare stupore e meraviglia che si sia riusciti a indovinare la ricetta giusta.
A dispetto della scarsa performance ai botteghini, il film riuscì presto a imporre una estetica sporca, debitrice di tanti più o meno illustri modelli reinterpretati da Scott e da Mead: dai quadri iperrealisti di Edward Hopper (Scott avrebbe dichiarato di essersi ispirato all’atmosfera notturna e malinconica di un suo celebre dipinto, “Nighthawks”) all’estetica di riviste a fumetti come la francese Métal Hurlant (molti sono infatti gli omaggi, soprattutto al noir fantascientifico The Long Tomorrow sceneggiato da Dan O’Bannon – vecchia conoscenza di Scott dai tempi di Alien, 1979 – e disegnato da Moebius), dall’atmosfera dei film noir degli anni Trenta e Quaranta al clima distopico e straniante, quasi sospeso fuori dal tempo, che con i segni inconfondibili del predominio commerciale giapponese pare quasi attingere a un altro capolavoro dickiano, The Man in the High Castle (1962).
A proposito di relazioni intertestuali, nel passaggio dalla carta alla pellicola molte delle più geniali folgorazioni di Dick sono andate perdute. Il kipple, la piaga sovrannaturale che minaccia di disgregare ogni cosa e assimilare tutto ciò che non serve più al naturale ciclo della vita nel suo corpo, mutante eppure cristallizzato nella stasi della morte; e il Mercerismo (o Mercerianesimo), la religione del futuro che obbliga i suoi seguaci a sperimentare nella condivisione dell’esperienza, in una sorta di realtà virtuale, il supplizio del profeta (o presunto tale) per avvicinarsi, se non alla comprensione, almeno all’accettazione della realtà (e cos’è, dopotutto, un atto di fede?). Perduti, è vero, ma non del tutto. Entrambi gli elementi rivivono infatti sotto altre spoglie, il kipple trasfigurato nella minaccia del collasso ambientale, la religione nei frequenti richiami del film a una simbologia di chiara matrice cristiana.
Condensato di angosce, timori e preoccupazioni, Blade Runner si sarebbe imposto come un autentico modello, segnando l’esordio del proficuo rapporto postumo tra l’industria cinematografica e il defunto P.K. Dick. Alla sua riuscita avrebbe fatto gioco anche la scelta di un titolo che nella sua maggiore immediatezza non tradisce l’essenza criptica (forse anche ludica) del romanzo: dopo essere passati attraverso un’escalation di titoli di lavorazione (Android, Mechanismo, Dangerous Days), alla fine Fancher pescò da un vecchio racconto, quasi sconosciuto, di William Burroughs, oracolo beatnik e nume protettore dei cyberpunk, che fu felice di contribuire con il titolo a quello che già andava profilandosi come un lavoro assolutamente unico nel suo genere. Blade Runner si attaglia alla perfezione alla figura malinconica e disillusa dell’ex-poliziotto, un po’ investigatore privato alla Marlowe e un po’ bounty killer, cacciatore di taglie in precario equilibrio sul filo della lama e destinato, per uno di quegli scherzi beffardi del destino che tanto piacevano a Dick, a trasformarsi a sua volta in preda della caccia.
La confusione dei ruoli riflette l’illusione della realtà che ossessionava l’autore californiano. Il film pone, tra gli altri, un interrogativo angosciante: se non ci si può appellare nemmeno più alla memoria come elemento discriminante, quanto a lungo si può conservare la propria umanità cercando di contrastare la crescente invadenza delle copie sintetiche? Fino a che punto si può mantenere nitida la distinzione, se gli uomini si sforzano di annientare qualsiasi manifestazione di quegli slanci così umani espressi dai loro replicanti, tradendo quella stessa empatia che dovrebbe servire a discriminarli da loro? Il confine (l’interfaccia) è diventato arbitrario. La degenerazione dei rapporti si spinge fino alla drammatica inversione finale, quando Roy Batty, al termine di una caccia che lo ha visto prima preda e quindi predatore, di fronte a un Deckard inerme e ormai spacciato, lo strappa alla morsa della gravità e gli consegna – in un’allegoria cristologica nemmeno troppo mascherata – il nuovo verbo: la versione del replicante, angelo caduto, divinità negletta eppure protagonista di un piccolo riscatto privato contro le forze schiaccianti di un sistema che gli impedisce di essere fino in fondo artefice del proprio destino.
Il parallelo teologico con la vita di Cristo e la dialettica marxista s’intrecciano in una duplice direttrice che funge da colonna portante per la storia. Il rapporto tra umani e replicanti, tra gli uomini e i loro simulacri organici “raffinati” dal codice genetico di donne e di uomini, opportunamente trattato per incrementarne resistenza fisica, forza muscolare e doti intellettive, trasfigura in chiave futuristica il classico tema dello scontro di classe. La soluzione, che nelle mani di un regista non propriamente progressista come Scott avrebbe potuto facilmente risolversi nella conservazione dello stato delle cose, in realtà si rivela ben meno rassicurante per il fronte umano del conflitto: Deckard, salvato dalla sua nemesi ma ferito nell’orgoglio, si incammina verso un futuro da clandestino, da esule o espatriato, e in attesa di trovare la sua via per le stelle, alla volta di una colonia extra-mondo in cui ricominciare daccapo con la sua Rachael, dovrà affrontare ben due dilemmi. Gaff gli ha risparmiato l’arresto, ma lo ha lasciato con un terribile interrogativo. Deckard non ha la certezza che Rachael sia davvero speciale, come gli aveva confidato Tyrell: potrebbe essere il primo esemplare di una nuova generazione di replicanti, il prototipo di una ipotetica serie di Nexus-7 senza limiti di tempo. Ma potrebbe anche essere solo un replicante dalle false memorie perfezionate fino allo stato dell’arte, in maniera analoga ai Nexus-6 con cui Deckard ha avuto modo di confrontarsi nel corso della sua lunga, ultima notte a Los Angeles. Quale che sia la verità, sarebbe solo la penultima rivelazione. L’ultima verità, la rivelazione definitiva, infatti, ha a che fare direttamente con la sua natura: con il meccanismo di innesto delle false memorie spinto ai risultati che ha avuto modo di apprezzare in Roy, in Rachael e negli altri replicanti della sua ultima caccia, chi può assicurargli che non sia proprio lui l’ultimo prodotto delle catene di montaggio della Tyrell, il cacciatore definitivo (o almeno un suo prototipo ancora in prova) destinato a contrastare l’ammutinamento di un tipo di replicante più umano dell’umano?
Lo snaturamento delle dinamiche di natura non si ferma alla biogenetica, pur con tutti i risvolti etici sollevati dalla sottomissione della scienza alle logiche produttive di un capitalismo industriale redivivo (e dopo la prima fase industriale, la transizione monopolistica e la globalizzazione dei servizi, che si tratti di una chiusura del ciclo, di un secondo giro di ruota?). La riflessione metaforica del film non risparmia gli aspetti ecologici. Il turbocapitalismo deve ricorrere a uomini nuovi da laboratorio opportunamente ingegnerizzati per sostenere il proprio slancio verso la conquista dell’universo e l’asservimento totale della natura. Ma come ogni processo, esso stesso produce prodotti di scarto. Un effetto collaterale, questo, che si risolve nella contaminazione terminale del mondo: la città del futuro è un inferno metropolitano, uno sterminato complesso di bolge per le cui strade, ventiquattro ore su ventiquattro, va in onda l’orrore dell’abbandono e della disperazione. Non è il kipple, la negazione di ogni speranza, ma la città è un Ade dominato dalla piramide del Purgatorio: la scalata al monte non porterà a Roy Batty l’agognata libertà, ma solo la consapevolezza dell’irreversibilità della propria condizione. E sulla città, per tutta la durata del film, imperversa un diluvio universale che, malgrado le sue proporzioni, non si rivela capace di spazzare via dalle sue strade tutto il marciume e la disperazione.
Non a caso, alla fine Deckard decide di cercare fortuna altrove. Nella versione del 1982, fugge con Rachael a bordo della sua auto verso un orizzonte ancora incontaminato (sequenze girate da Kubrick per l’apertura di Shining, poi inutilizzate e quindi prestate a Scott per la messa al punto di un finale in linea con le richieste della produzione). Ma già nella Director’s Cut questa prospettiva solare manca: Deckard e la sua sposa replicante si accingono ad abbandonare la città, ma davanti a loro c’è solo incertezza e dubbio. L’incertezza e il dubbio di chi non può fare a meno di opporsi a un meccanismo congegnato appositamente per strangolarlo, ma nonostante tutto resta consapevole del germe della distruzione che è connaturato in lui. È questa la loro dannazione, una forma forse ancora più subdola di quella che è toccata in sorte ai replicanti ribelli. Volendo perseverare nel parallelo teologico, si potrebbe pensare al peccato originale. Sempre che il sacrificio di Roy Batty, sul tetto del Bradbury Building preso d’assalto dalla tempesta monsonica, non sia valso anche il loro riscatto. E, magari, il nostro.
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