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L'intercapedine

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Questo racconto aggiunge un altro tassello allo scenario narrativo che Umberto Pace (nato ad Abbiategrasso nel 1966, residente a Milano, dove lavora come programmatore) va delineando da tempo, come ricorderanno i lettori di Next che hanno letto Credo in un solo dio sull’Iterazione 03 della nostra rivista cartacea (inverno 2005). Qui siamo in territori più introspettivi, con un lavoro di cesello sulla lingua chiamata a inseguire le scorribande di una mente distorta. L’intercapedine tra i muri è il punto di partenza per una riflessione esistenziale intrisa di angoscia. Non ci siamo chiesti tutti, almeno una volta nella vita, che cosa vi si nasconda? Allora forse la devianza mentale è ben più frequente di quanto ci piacerebbe credere a beneficio della tranquillità della nostra coscienza…
- X

Quante volte abbiamo scrutato i muri, esaminando le macchie di umidità, le piccole bolle, in caso si allargassero o cambiassero forma.
Con quanta speranza abbiamo seguito le crepe che salivano rapide verso i soffitti, se mai proseguissero, anche impercettibilmente, per congiungersi un giorno e isolare una larga falda d'intonaco e sollevarne i margini, col concorso di quest'aria greve. Il bianco smorto della pittura rappresa sullo strato di gesso si sarebbe raggrinzito in un'irreparabile vecchiaia, frammenti sempre più ampi si sarebbero accartocciati e, una volta staccati, sarebbero caduti senza rumore alla base del muro, lasciando finalmente in vista l'intercapedine.
Quante volte, non visti, abbiamo tamburellato con le dita sulla parete, l'orecchio teso a captare un cambiamento nella risposta sorda e ottusa.
Quante volte, camminando lungo questi corridoi, abbiamo rallentato ad arte, fingendo di cercare in tasca, voltandoci come sorpresi da una dimenticanza o da una perplessità, solo per osservare una connessura difettosa dello stipite, un'imperfezione della vernice che rivelasse, al di sotto, la presenza di stucco, e dunque uno dei fori da cui, ne eravamo certi, l'intercapedine era stata iniettata, ancora allo stato fluido.
Con quanta accortezza avevamo suggerito la pulizia a vapore dei pavimenti, valutando la possibilità che l'intercapedine si stendesse anche sopra e sotto di noi, e dunque ne fossimo completamente avvolti, non soltanto circondati, come del resto era logico pensare. Avevamo infatti letto, quasi per caso, di reclami per i danni causati dall'alta temperatura alle resine adesive per piastrelle, che in seguito a ripetute pulizie finivano per sollevarsi. Con un po' di fortuna, avremmo potuto sorprendere una delle piastrelle malferme prima dell'intervento della compagnia di servizio; ci saremmo fermati con qualche pretesto, il piede ben saldo, pronti ad approfittare del primo momento di solitudine. Allora ci saremmo inginocchiati, avremmo tolto la piastrella con un tremito nelle mani e avremmo visto, finalmente. Tenevamo sempre un cucchiaino in tasca, nel caso fosse necessario fare un poco di leva. Grande fu la delusione quando due idraulici, accompagnati da un muratore, vennero a riparare la perdita che aveva fatto ammuffire il soffitto del piano inferiore: il muratore, armato di scalpello e mazzuola, frantumò un buon numero di piastrelle, e proseguì l'opera mettendo a nudo un crocicchio di tubi. Non vedemmo altro che polvere, calcestruzzo a grumi, frammenti di laterizi.
La conclusione, dopo notti insonni in cui le ipotesi sbattevano alla cieca qua e là, schivando le trappole della logica, è stata che l'isolamento in orizzontale si limiti alle fondamenta e ai solai, mentre i piani intermedi ne siano sprovvisti. Non per nulla l'accesso ai locali sotterranei e alle mansarde è strettamente regolamentato, per non dire impossibile.
Non ci siamo forse spinti ripetutamente all'ultimo piano, cioè l'ultimo prima dell'ultimo, con le scuse più diverse? Le ragazze, che lassù hanno sempre volti piatti, senza nascondigli, ci guardavano indecise tra il compassionevole e l'irridente, mentre gli uomini in divisa bianca aspettavano solo un pretesto per afferrarci per il bavero e ributtarci giù da dove eravamo venuti. Non è stato facile destreggiarci nel labirinto di negozi di lusso; quanto abbiamo aspettato per un'occhiata furtiva in certi locali! E potremmo giurare che nessuna porta, botola o scala conduca più su; o noi non l'abbiamo trovata, in tutti questi anni. Quanto a scendere, se pure ne avessimo la possibilità, ce ne manca il coraggio. Laggiù non ci sono ragazze, né splendidi lampadari, né grandi schermi pieni di auto sfreccianti e vite meravigliose: solo la muffa e il buio.
Circospetti, abbiamo esplorato dietro ogni quadro, stampa, qualunque cosa nascondesse parte del muro. Certo, solo una volontà maligna avrebbe potuto far questo con intenzione: eppure, tale volontà non si poteva escludere. Perché altrimenti sarebbe stato così difficile procurarsi attrezzi adeguati e ottenere il permesso di usarli? Anche l'acquisto di un trapano è soggetto a innumerevoli restrizioni, per non parlare dei costi, che restano al di fuori della portata di chiunque debba pagare un mutuo, cioè tutti. Ci concediamo qualche accessorio per le feste: una punta al vanadio, un giramandrino. Chi è più in là negli anni s'è fatto ormai una piccola cassetta a scomparti, piena di questi aggeggi scintillanti e inutilizzabili. Se ne vanta tra conoscenti, destando una certa invidia.
Quante notti abbiamo trascorso armeggiando coi sintonizzatori delle radio, l'orecchio teso a captare una voce comprensibile, una canzone, qualche nota; dalla marea di rumore non filtrava che un'eco lontana di risa cristalline, di frasi in una lingua sconosciuta che parevano amabili, a giudicare dal tono, come di amici che si ritrovino dopo anni. Tuttavia, è facile equivocare, nella distanza. Consumavamo le ore inebetiti da fruscii, scariche gracchianti, un crepitare di foglie secche nel fuoco. Così efficace è l'intercapedine, che uno sbadiglio all'estremità opposta del più lungo dei corridoi basterebbe a sovrastare ciò che dice e canta al di là di essa.
Quante volte avremmo voluto capire i nostri figli, e indovinare il rovello delle donne che abbiamo amato; amato inutilmente, poiché tale amore non è valso a tenere lontane vecchiaia e infelicità da quei visi d'alabastro. Il rovello le ha consumate, mentre consultavamo cataloghi di materiale elettronico. Se solo avessimo sentito il passo pesante delle sciagure che stavamo per attirarci e la brezza rinfrancante delle buone azioni che tralasciammo. Ma tutto questo resta al di là dell'intercapedine.

Molti sono ciechi o malaccorti e vivono come se l'intercapedine non esistesse, il che vale a dire che non sono vivi, ma si trascinano in una tranquillità opaca, tra occupazioni monotone e ripetitive, slanci immotivati, passioni inconcludenti. Si dibattono, corrono veloci, ma a noi paiono fermi, anzi fissi in un rigore di morte; cambiano di continuo abbigliamento e abitudini, colore dei capelli e degli occhi, eppure noi li vediamo spenti in un indifferente grigio.
Quelli che più sentiamo vicini sono gli altri, i cattivi. Dissimulano l'esistenza dell'intercapedine con le astuzie più sottili. Che la neghino apertamente è raro, poiché il silenzio è la più efficace ed economica delle negazioni. Se ne parlano, lo fanno in forme risibili o assurde, tali da destare sconforto e riprovazione negli intelligenti. In questo modo trovano l'assenso per lo più dei creduli e degli sciocchi, col risultato di svilire tutta la questione. Ma, come noi, essi sanno, o si comportano come se sapessero. Talvolta si lasciano sfuggire una frase ambigua, a mezza bocca, pare che vogliano dare a intendere chissà che, rivolgendosi a chissà chi; pronti a tornare sui loro passi, se richiesti di un chiarimento.

Era inevitabile: le nostre manovre sono state notate. Non potevamo dare spiegazioni: gli scettici non vi avrebbero prestato fede; quanto agli altri, ogni confidenza era un rischio. Del resto ci sarebbe difficile spiegare ciò che noi stessi troviamo oscuro. Siamo certi, è vero, ma solo di un presentimento e della sua fondatezza, non del suo contenuto. Travestire i nostri sforzi da passatempo ci ripugnava. D'altra parte riconoscevamo che i buoni padri di famiglia, gli onesti lavoratori, i cittadini coscienziosi, non sprecano le ore libere tastando i muri e fissando di soppiatto gli infissi: la preoccupazione della comunità era comprensibile.
Sono venuti quelli dell'IGRES, i Consorzi Uniti Salvamondo; abbiamo compilato moduli e fatto colloqui. Sono loro ad occuparsi dei disadattati, per lo meno se non rappresentano un pericolo evidente per l'ordine pubblico; piccole manie, fissazioni innocue per la proprietà privata, gesti inconsulti non esibiti davanti a terzi sono di loro competenza. Dispongono infatti di un certo numero di entusiasti, dediti all'insegnamento della felicità senza scopo di lucro; si contentano della speranza di accattivarsi nuovi associati e la comunità realizza così un notevole risparmio. La procedura è semplice: formano dei gruppi di salvataggio, ci si incontra due volte alla settimana, ogni tre mesi si fa un bilancio dei progressi e di ciò che manca da fare. Un direttore di scialuppa organizza le attività; se la discussione langue offre stimoli, invita ad approfondire. Iniziamo ogni incontro sorridendoci l'un l'altro, a lungo, in silenzio. Si recitano delle formule benauguranti e così anche alla fine, prima del congedo. Bazzecole che abbiamo imparato in fretta e in fretta dimenticheremo, una volta terminata la rieducazione, come tutto ciò di cui non si vede l'utilità e che non sia imposto dall'abitudine.

Ci sono i momenti di disperazione; allora ci accasciamo in un angolo, dove non si disturba: perché altrimenti ci rimetterebbero in piedi a forza. Pensiamo che stiamo per diventare vecchi, che l'udito verrà meno, e con esso questi già fiochi avvertimenti sprofonderanno nel nulla. Resteremo soli tra le fanfare. E come si fa, tra facce sorridenti, con la nostra bocca storta e la smorfia della stanchezza che non se ne va? Si dovrà avere la buona grazia di morire. Tuttavia ci ha sorpreso questo pensiero, che il nostro isolamento sia, per ciò che sta là fuori, una sorta di protezione. Così ci si consola.

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