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L’orrore della guerra è una costante nell’universo letterario di Umberto Bertani, milanese classe 1964 ("Ho iniziato alle medie, imbrattando fogli quadrettati" scrive, "ora imbratto pixel, ma l’entusiasmo è il medesimo"). Se nei racconti Border e Ultima corsa (pubblicati rispettivamente in Next 01 e 05 nel 2005 e nel 2006), Bertani aveva presentato un orrore covare in attesa di prede umane, qui raggiungiamo un nuovo livello nell’escalation cosmica della devastazione. La sete di morte vive trasfigurata nello spettro di un’inesorabile entità sovrannaturale che non è disposta a perdonare nessuno, umani o alieni. Con un ritmo adrenalinico, l’autore ci spinge in una corsa alla scoperta dell’inferno che ci attende. Nel passato come nel futuro. - X
Sweet child in time You’ll see the line The line that’s drawn between The good and the bad See the blind man, he's shooting at the world The bullets flying and they're taking toll
La voce dei venti del nord venne avanti ululando. Era un mostro vomitato dal più profondo degli inferi, Schistocerca mortifera, locusta gigante africana, con frammenti putrefatti di ossa e carne umana tra le mascelle chitinose, sangue rappreso a ornare le ali membranose: un’ombra grigiastra in planata parallela. Il corpo color sabbia era immenso, pulsante; muscoli ipertrofici flettevano le ali causando una corrente ascensionale che permetteva un volo rapido, letale. Ma il vero incubo era la testa. Due ciclopiche antenne sporgenti sovrastavano i rossi globi oculari, il cranio ovale si muoveva a scatti, seguendo l’impulso deciso dell’urto sensoriale. L’essere oscurò il pallido sole che illuminava la pianura; quando fu in vista della città che sorgeva sulle rive del fiume si abbassò eseguendo una violenta cabrata, mentre le gigantesche zampe posteriori artigliate scintillavano di luce malvagia. L’uomo vide per primo la macchia che si stagliava contro il cielo azzurro occupando buona parte della visuale. Cadde in ginocchio ferendosi la pelle contro i sassi aguzzi sul greto del torrente. Una violenta corrente profumata di foresta gli accarezzò le labbra, e l’odore dei pini gli stuzzicò le narici. Provò a chiudere gli occhi perdendosi in quegli aromi liberi, ma non ci riuscì. L’ombra continuò la sua corsa toccando terra a una velocità spaventosa. Sollevò i palmi aperti protendendo un urlo silenzioso verso il mostro che si avventava contro di lui, sibilando. La gola asciutta rimandò un rantolo sottile. Il vento gelido lo fece cadere all’indietro. Si contorse nella terra umida, e l’ultima cosa che vide fu lo sguardo spaventato della sua donna che si volgeva a osservare la creatura. Allora l’essere colpì. I rostri scavarono solchi profondi nel suolo e sollevarono come fuscelli le persone radunate in riva alle acque trasparenti. Dalla terra ferita sgorgarono violenti schizzi di sangue che andarono a inondare le ali poderose. Il mostro bevve avido dalla caverna senza fondo al centro delle placche ossee frontali. L’onda rossastra imbrattò le quattro zampe anteriori mischiandosi alle parti umane strappate a forza. Poi venne l’urlo. I pochi sopravvissuti al primo attacco si rialzarono barcollando, i corpi oscenamente inzuppati, gli sguardi persi nel vuoto dell’orrore. Il suono lacerante li falciò come spighe di grano maturo, un immane fragore scoppiò dalla non-gola del mostro investendoli in pieno. Fu come se una forza immane premesse i cervelli in una morsa di ferro. Crollarono come foglie secche, senza neanche la possibilità di urlare.
14-02-1945 I polmoni vuoti inghiottono aria disperata. L’incubo è riapparso più violento che mai. La maschera di gomma morbida preme sul volto incidendo solchi rossastri nelle guance; la sgancio con un gesto nervoso della mano guantata, tentando di riavermi dal panico. Centinaia di scintillanti gocce di sudore mi coprono la fronte, colando negli occhi spalancati. Piccole stelle luminose costellano il complesso pannello di controllo. Al di là del vetro spesso del cockpit, un buio assoluto circonda il velivolo come un sudario senza fine. Ogni volta che il sonno prende il sopravvento mi ritrovo nella pianura in riva al fiume. È cominciato dopo l’ordine operativo che ha dato il via alla missione. La locusta ha affondato gli artigli nel terreno facendolo sanguinare e trasformando le notti in un vicolo cieco senza speranza. Mi giro verso il comandante, che osserva in silenzio; il suo sguardo tradisce una profonda preoccupazione. È a conoscenza di ogni singolo particolare dell’incubo. Voliamo assieme da tre anni, e condizione basilare di un equipaggio affiatato è condividere dubbi, timori, cieco terrore. Annuisco lentamente. Sono bastati pochi istanti di sonno durante il volo per farlo tornare. Pochissimi istanti sospesi.
L’alba violacea è rischiarata da due soli che sorgono su un orizzonte frastagliato da imponenti catene montuose. Grosse formazioni di cirri strisciati schizzano sospinte da venti poderosi. Un fiume di metano reso liquido da una pressione ben oltre l’immaginazione scorre tranquillo nella pianura. Numerose creature veleggiano a qualche centimetro dal suolo ghiacciato, escrescenze carnose vibrano nella densa atmosfera, una danza sottile apparentemente senza senso che racchiude la ricerca quotidiana di nutrimento attraverso un circolo preciso di sintesi chimica. A tratti gli esseri si sfiorano, un leggero tamburellare di peduncoli sul derma scivoloso, sufficiente per uno scambio frettoloso di DNA, un peregrinare senza fine di geni e memorie. Il mostro chiude le ali e apre gli artigli di scatto, un meccanismo collaudato, perfetto nella sua essenza di distruzione terminale. Annulla lo spazio che lo separa dal terreno, precipita facendo vibrare le particelle in sospensione, raggiunge una velocità prossima al suono, attacca con perfezione inumana. Le ali racchiudono nell’abbraccio la luce stremata delle due nane bianche. Gigantesche chiazze d’ombra distolgono l’attenzione degli esseri dall’incedere sospeso. La morte sopraggiunge carica d’odio. Il primo passaggio libera lo sfogo degli artigli, un silenzioso squarciare rotto solo dal sibilo convulso delle correnti. La falciata longitudinale apre solchi senza fine tra le schiere sospese; un brivido pare attraversare le membrane sensoriali ma è troppo tardi, troppo tardi. È la volta del suono, quel suono, il tuono possente della distruzione. È una spazzata convulsa, senza speranza, un urto che non può essere tollerato dal delicato equilibrio che regge la vita in un mondo al limite. La carne implode, si frantuma su sé stessa in un abbraccio compresso di morte schiacciata, istantanea.
Decimo giorno dopo il salto, ottava era dei Tanti N’Garth sussulta all’interno del bozzolo di vibroschiuma, spalanca gli occhi racchiusi dalla complessa terminazione di comando fusa al cranio da un tessuto polimerico simbiotico. L’incubo è tornato, vivo e reale. Nessuna tossina artificiale, nessuna droga psicotropa, niente di niente è riuscito a cancellarlo. Impartisce un ordine mentale e in una porzione del HUD proiettato sulla retina si apre una finestra di playback olografico. N’Garth rabbrividisce ancora. L’impulso lo investe come un’onda di calore alla nuca. Appena una frazione di secondo dopo la voce metallica del processore annuncia un incoming sensoriale di comunicazione. – Due di tanti N’Garth, rapporto. Rete neurale condivisa, sensazioni, emozioni, l’equipaggio scivola frenetico attraverso l’esperienza di N’Garth e non è un dolce risveglio. – Stress emotivo indotto, fattore tre di cinque. Nessuna tonalità. – Cause, rimedi, eventuale sostituzione. Un leggero brivido lungo la colonna vertebrale. – Probabile mancanza autocontrollo REM, innalzamento livello sette somministrazione fenotiazine, sostituzione stimata non necessaria. Una parvenza di autorità. – Prossimo report informativo ora settima. Il sospiro di sollievo rimane appeso. – Due di tanti N’Garth. La voce è un tremolio appena percettibile. – Avanti Uno di tanti. – Deludere è pericoloso, come sai. Lui lo sa. – Il fine ultimo di questa unità è la soddisfazione dei Tanti, nessuna delusione. – Bene, chiudo. Riallinea la percezione sulla navigazione simbiotica. La nave risponde inviando a N’Garth le statistiche aggiornate di rotta. Manca davvero poco e poi sarà tutto finito, forse anche l’incubo. Scaccia il pensiero dell’insetto preistorico dalla mente, prova a tenerlo in un angolo, relegato da invisibili corde mentali. Non serve.
14-02-1945 Le tabelle di volo esibiscono cifre precise, gli indicatori delle potenze e dei livelli segnalano una perfezione difficilmente eguagliabile. Cavalchiamo la macchina perfetta, sintesi elaborata del genio umano. Lo sguardo si posa sulla porzione levigata di carlinga che posso scorgere alla mia sinistra, fibre metalliche di ultima generazione, blindatura estrema dei motori, affusolate antenne radar che rendono il Lancaster BMK III l’esemplare supremo di una stirpe unica di bombardieri a lunga gittata. – È ora, Tommy. Il colonnello scruta ancora con attenzione. Leggero, il sospiro si perde nella cabina pressurizzata. Le dita si appoggiano sul volantino della cloche, annuisco e una morsa ghiacciata stringe lo stomaco. Il bombardiere scivola d’ala per qualche centinaio di metri correggendo la rotta. Lentamente, obbedendo alle disposizioni impartite dal comandante, una grossa sezione della pancia si spalanca verso l’esterno facendo turbinare aria cristallizzata nella stiva di armamento. La città dritta di prua manda bagliori rossastri che bucano l’oscurità, centinaia di briefing operativi sono stati portati a termine, ore trascorse tra il fumo delle onnipresenti sigarette, sedute estenuanti a valutare l’impatto, la logica precisa del massacro. Non esiste ormai nessun tipo di bersaglio strategico in questo paese, abbiamo deciso di privarli dell’unico bene prezioso che ancora possiedono. Vite umane.
Dietrich non crede ai propri occhi, può capitare che nella vita di un uomo possano scatenarsi prodigi direttamente riconducibili alla volontà di dio, questo è sicuramente uno di quei momenti. Stringe convulsamente il manubrio della bicicletta cercando un appiglio reale in mezzo a quell’assurdità, le sirene dell’allarme antiaereo urlano rabbiose nel buio rischiarato dagli incendi. L’ondata di bombardieri ha lasciato il cielo di Dresda da appena due ore. Non è possibile che gli Alleati abbiano deciso di colpirli di nuovo con così poco preavviso. Poi capisce. Il bombardamento di mezz’ora, il cessato allarme, le strade che si riempiono di soccorsi e gente che esce dai rifugi, gente che sa di avere avuto la vita salva ancora una volta. Le strade si riempiono di carne. È l’una e ventotto del giorno di san Valentino. I Lancaster arrivano a ondate indisturbate, nessuna contraerea, niente di niente; iniziano a sganciare 650.000 bombe incendiarie tra le duemila e le tremila libbra l’una. Dresda vive la firestorm, l’aria prende fuoco in combustione spontanea, le persone sono letteralmente risucchiate dalle case, attraverso le finestre, dai rifugi; tutto è convogliato da venti a 300 kmh verso il centro della fornace, le molecole cessano di esistere, una palla di fiamme tonanti di potenza mai neppure immaginata. Dietrich osserva il prodigio, sente le lacrime salirgli agli occhi di ragazzo. In qualche modo si ritiene fortunato per aver avuto la possibilità di guardare per qualche decimo di secondo qualcosa che sarà ricordata nei secoli. La luce lo investe per prima.
Decimo giorno dopo il salto, ottava era dei Tanti – Due di tanti N’Garth, rapporto. Lui modula la voce evocando una calma che non gli appartiene. – Procedura ultimata, flotta in posizione, attendo il suo ordine, Uno di tanti. La risposta non si fa attendere. – Ancora una volta per la gloria dell’Impero e il supremo bene dei Tanti, attivare. N’Garth percepisce l’onda emotiva salire lungo le terminazioni nervose. È una cascata inebriante, un frastuono di voci sussurrate che esultano all’unisono, il sibilo dei Tanti, il ruggito della vittoria. N’Garth assapora il momento, l’attimo prima dell’attacco, la consapevolezza della forza, della conquista. Loro sono la razza umana, loro sono i Tanti, il resto dell’universo è meglio che si inchini al volere dell’Impero. Mentre impartisce mentalmente il comando, riesce persino a dimenticare per un istante l’animale alato.
Il villaggio è adagiato ai piedi delle creste frastagliate, tre lune scintillano nell’atmosfera rarefatta riempiendola di ombre danzanti. Come sempre Nihoi è la prima a levarsi sulle zampe per provvedere alla sveglia del branco. Estroflette le branchie ventrali e respira a pieno una boccata densa di umori notturni. Rimane affascinata dallo spettacolo dell’alba sul pianeta, quando le lune lasciano il posto a un sole possente, quasi a portata di tocco, un avvenimento che riesce sempre a riempirla di una gioia irrefrenabile. Le sentinelle sulle colline danno fiato ai corni, Nihoi dà libero sfogo a un brivido della criniera irsuta. È l’inizio di un nuovo ciclo-del-giorno che la porterà alla maturità e all’ingresso nel ristretto circolo degli adulti pensanti. Si avvicina al limite del villaggio e abbraccia con lo sguardo la sua gente, i piccoli che danzano la gioia del vivere attorno ai fuochi, i maschi adulti che iniziano la preparazione del ciclo. Improvvisamente il suono muta, si trasforma in un barrito basso, sfuma lentamente negli ultrasuoni, diviene un grido, viene udito da tutto il branco, viene capito da tutto il branco. Nihoi corre sorpresa, annaspa. Non crede a quello che le sta capitando. Un istante prima i due cuori battono di felicità, un istante dopo è la paura gelida di metallo. Poi vede. Attraverso le sfaccettature dello spettro distingue perfettamente la massa immane, l’ombra che si sovrappone alla corona solare e taglia la luce ai suoi simili. Sa cosa sta accadendo ma fatica a credere che possano essere arrivati a tanto. Ricorda gli emissari del popolo grigio, le parole senza senso, parole di violenza e sottomissione. Ancora adesso fatica a comprendere e farsene una ragione. La creatura parte in una corsa senza fiato verso il limitare delle colline, deve rendersi conto di quella follia, vuole fronteggiare l’orrore che le sta capitando. L’invasione è massiccia, pianificata con cura, le grandi navi madri prendono posizione, formano una catena di energia psichica. All’interno del bozzolo nel settore comando N’Garth osserva i piccoli esseri che è venuto fin quaggiù per schiacciare, non prova pietà, solo l’inebriante desiderio di vittoria. Il sussurro è una richiesta precisa. La distruzione ha inizio.
In alto, mentre torrenti di energia solida frustano un mondo lontano, la locusta emette l’urlo spezzando il vuoto senza fine. Flette le ali grigiastre dominando le correnti d’alta quota, l’orrido cranio coglie l’aroma inconfondibile proveniente dal terreno ferito a morte. Tempo di abbeverarsi ancora una volta. Plana.
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