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La Fortezza Europa e Il fossato di Greg Egan: vent'anni dopo
di Andrea Bernagozzi

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In questo articolo incentrato su uno dei racconti più vividi del maestro australiano della hard science fiction, Andrea Bernagozzi (astronomo presso l’Osservatorio della Val D’Aosta, autore nel 2007 di La fantascienza a test) dimostra come sia possibile coniugare le istanze del gioco intellettuale legato all’attualità scientifica con la critica sociale e la denuncia civile. - X/SP

Il contesto
Un classico giornalistico di fine dicembre è la visione retrospettiva di quello che è successo di importante nell’anno che si sta chiudendo. È sempre interessante sfogliare questi inserti di quotidiani e periodici, soprattutto per scoprire come certi fatti accaduti relativamente poco tempo fa, qualche mese appena, possano finire rimossi o quasi dalla nostra memoria.
Per esempio, ricordate i titoli sui provvedimenti di espulsione dalla Francia dei rom presi la scorsa estate dal presidente Nicolas Sarkozy? La responsabile della Commissione Europea per la giustizia, Viviane Reding, aveva accusato l’Eliseo di violazione delle regole sulla libera circolazione e comportamento discriminatorio nei confronti della minoranza gitana. Il caso si è poi chiuso in autunno con un nulla di fatto. In estrema sintesi, l’Europa non ha preso provvedimenti concreti perché la Francia si è impegnata a modificare le proprie procedure, con buona pace di chi sarebbe stato espulso in modo irregolare: una percentuale non indifferente, secondo Amnesty International.
Manuel Castells, docente alla University of Southern California, notava su Internazionale che l’82% dei francesi si dichiarava soddisfatto delle misure di Sarkozy. Ricordando la crescita costante della percentuale di cittadini spagnoli che chiedono leggi più restrittive sull’immigrazione (36% nel 2000, 75% nel 2010), il dibattito in diverse nazioni sulla regolamentazione del velo parziale o integrale di tradizione islamica (non necessariamente norma religiosa), il referendum che in Svizzera ha sancito il divieto per la costruzione di nuovi minareti, il sociologo spagnolo concludeva duramente che l’Europa si poteva ormai definire razzista e xenofoba.
Siccome anche l’Italia è in Europa, non guasta un’occhiata in casa nostra. Dagli scontri di Rosarno agli immigrati asiatici e africani saliti sulle gru, ben prima dei ricercatori universitari, per protestare contro la mancata regolarizzazione dopo una sanatoria considerata truffaldina, passando per le tragiche navi dei disperati e le polemiche per gli accordi anti-immigrazione tra Italia e Libia, lo scenario appare preoccupante. La retorica dei nostri emigranti partiti decenni or sono in cerca di fortuna con la valigia di cartone è stata a sorpresa superata dall’attualità, quando il Canton Ticino ci ha improvvisamente ricordato che anche noi possiamo essere ospiti indesiderati. 45.000 lavoratori frontalieri italiani del Profondo Nord, quello anche (non solo) delle scuole addobbate con il Sole delle Alpi e dell’ampolla dell’acqua del Po, sono stati bollati come ratti italiani su cartelloni affissi ai muri di Lugano e Bellinzona. Sono seguite le scuse immediate dell’ambasciatore elvetico e i manifesti si sono rilevati una campagna pubblicitaria più che un’iniziativa politica concreta, ma la notizia ha confermato il clima pesante che si respira in Europa quando si affronta la questione dello straniero.
Con risvolti paradossali e drammatici, come lo scuolabus del campo nomadi di Strada dell’Aeroporto, a Torino, vietato ai figli dei rom di etnia bosniaca (islamici) dai genitori dei loro compagni di scuola: non torinesi, ma rom anche loro, però di etnia serba e croata (ortodossi). La motivazione ufficiale è la sporcizia dei piccoli bosniaci, ma l’ostilità ha portato addirittura a erigere una rete metallica per separare camper, roulotte e baracche delle due comunità.
Ed è stridente il contrasto tra il sorriso della donna nera, probabilmente africana, fotografata sulla copertina della brochure dell’Unione Europea dedicata alla migrazione (Un’opportunità e una sfida: Migrazione nell’Unione europea, 2010), e i dati riportati dal giornalista Luca Rastello nel saggio La frontiera addosso (Laterza 2010), dove l’autore stima in 16.000 il numero degli immigrati morti nel tentativo di entrare clandestinamente in Europa, dalle Canarie alla Grecia. Significa più di quattro vittime al giorno in media: il bilancio di una guerra di trincea combattuta a bassa intensità alle frontiere della Fortezza Europa, come la chiama qualche commentatore.
Politica, società e xenofobia sono stati un tema portante per le vicende continentali nel 2010, anche se adesso sono passati in secondo piano, scalzati nella nostra memoria dagli eventi più recenti. Al di là della cronaca, espressioni come paura dello straniero e Fortezza Europa possono avere un significato particolare per chi segue la fantascienza. Dov’è che ha già sentito parole molto simili a queste? O meglio, dov’è che le ha lette?

L’autore
Chi scrive, che non è un critico letterario o uno studioso accademico, ma un semplice appassionato di fantascienza, pensa per esempio alla Fortezza Australia, un movimento xenofobo e razzista immaginato dallo scrittore Greg Egan nel suo racconto Il fossato, comparso originariamente come The Moat sulla rivista australiana Aurealis (n. 3, marzo 1991) e pubblicato in Italia nell’antologia Axiomatic tradotta da Riccardo Valla nel 2003 per Urania (n. 1470). Nella stessa collana è comparso nel 2010 l’ultimo romanzo di Egan, Incandescence, sempre tradotto da Valla (n. 1562).
Greg Egan ha avuto il suo picco di popolarità negli anni Novanta, quindi anche se probabilmente è noto a tanti tra i frequentatori abituali di Next Station, vale la pena ricordare brevemente la sua figura, con l’aiuto dello speciale curato nel 2001 da Anna F. Dal Dan ed Emiliano Farinella, Eganiana: La hard SF di Greg Egan su Delos 66, e della prefazione di Salvatore Proietti (Greg Egan e i dilemmi della scienza postumana) a Oceanic, DelosBooks 2006 (Odissea 6). Nasce a Perth, in Australia, il 20 agosto 1961, e di lui si conoscono i tratti biografici essenziali. La sua attenzione alla privacy è infatti quasi maniacale: non frequenta le convention di fantascienza, non si sa nemmeno che faccia abbia. Per la sua riservatezza viene spesso accostato ad altri due “orsi” della letteratura decisamente più importanti, J.D. Salinger e Thomas Pynchon. In realtà Egan non si sottrae al mondo, solo pretende di essere lui a decidere quando e come comunicare. Il suo sito web personale (www.gregegan.net) è ricco di informazioni sulla sua produzione letteraria, sia di fantascienza sia di altro genere.
Laureato in matematica, è programmatore di computer per professione e per passione (non va confuso con Gregory K. Egan, professore di informatica della Monash University, sempre in Australia). Ha lavorato a lungo per un istituto di ricerche mediche e in quel periodo ha approfondito la propria conoscenza della biologia.
Egan comincia la sua carriera scrivendo opere di taglio fantastico, ma non fantascienza. In questa prima fase, spicca il romanzo An Unusual Angle del 1983. Ma è pubblicando su Interzone, rivista inglese piccola, ma di grande qualità, che Egan diventa uno scrittore di fantascienza affermato. Su Interzone, curata da David Pringle, compare buona parte della sua prima produzione di racconti, a cavallo tra anni Ottanta e Novanta. Il suo talento non passa inosservato e presto arriva a scrivere per la prestigiosa rivista statunitense Isaac Asimov’s SF Magazine.
Nel 1992 Egan pubblica il suo primo romanzo di fantascienza, Quarantine (in italiano La Terra Moltiplicata), un audace thriller sulla meccanica quantistica. Nel 1994 segue Permutation City (id.), in cui immagina la creazione e il funzionamento delle “Copie”, trascrizioni di coscienze umane in termini di software registrato su supporto elettronico. Alcuni critici lo catalogano come autore cyberpunk, ma Egan si considera uno scrittore di fantascienza hard, la fantascienza incentrata sugli enigmi della ricerca tecnoscientifica (le ‘scienze dure’, da cui il termine inglese).
Nel 1995 compare la sua prima antologia, Axiomatic, che comprende la maggior parte della sua produzione breve degli anni precedenti, con racconti comparsi anche su riviste minori come le australiane Eidolon e Aurealis. Nello stesso anno esce anche Distress, un romanzo in cui, tra la ricerca della Teoria del Tutto e impianti di software nel corpo umano, Egan si inserisce nella corrente utopica della letteratura fantastica creando Stateless, l’isola senza Stato abitata da anarchici in cui è possibile capovolgere il tipo di vita condotta fino a quel momento.
Nel 1997 è la volta di Diaspora, un romanzo nel quale il livello di astrazione è ancora più alto e la cui lettura è piuttosto ardua per chi non possegga buone conoscenze scientifiche. L’umanità si è suddivisa in esseri incorporei registrati su computer, esseri in corpi robotici rimpiazzabili, pochi mortali fatti di carne e sangue. Una catastrofe di dimensioni cosmiche costringe i tre gruppi a viaggiare per l’universo.
Nel 1998 Egan pubblica l’antologia Luminous e soprattutto su Isaac Asimov’s SF Magazine il romanzo breve Oceanic, in cui postula che il sentimento religioso abbia una base biologica. Con quest’opera Egan vince nel 1999 il suo primo e finora unico premio Hugo.
L’atteggiamento razionalista è parte integrante anche del romanzo Teranesia, pubblicato nel 1999, dove la biologia di misteriose farfalle mutanti è la chiave per risolvere un mistero che minaccia di cambiare il mondo. Nel 2002 esce Schild’s Ladder (La scala di Schild), un romanzo sospeso tra enigmi cosmologici e riflessioni sul concetto di persona. Il suo romanzo più recente, il già citato, Incandescence, è del 2008: in parte ambientato su un pianeta in orbita attorno a un buco nero, conferma Egan come autore di punta della fantascienza hard, ma secondo la critica non è all’altezza della produzione degli anni Novanta.
Affrontando l’opera di Egan nel suo complesso, si può dire che presenta due filoni. La narrativa breve è costituita soprattutto da storie ambientate in un “futuro prossimo”, scritte in uno stile vicino al mainstream. La narrativa lunga è costituita invece da opere ambiziose, molte ambientate in un “futuro remoto”, in cui la speculazione filosofica sull’evoluzione post-umana tra ingegneria genetica, robot e download della coscienza è spinta volutamente a livelli estremi, per diversi critici e lettori anche a scapito della comprensibilità.

Il racconto
Axiomatic è considerata una delle più belle antologie mai pubblicate da un autore di fantascienza hard, ma i suoi meriti vanno molto al di là. Ogni racconto esplora in modo acuto e sorprendente le implicazioni di concetti di fisica, matematica e biologia. Non si tratta di aridi giochi intellettuali, perché Egan sa comprendere e restituire l’impatto filosofico, etico e umano di una letteratura delle idee. Così si resta decisamente spiazzati dalla naturalezza con cui l’autore mostra le conseguenze su individui e comunità di speculazioni a prima vista lontane dalla quotidianità. Un ottimo esempio di questa abilità di Egan è il breve racconto Il fossato, che appartiene alla categoria delle storie del “futuro prossimo”. Si tratta di un piccolo gioiello che Giuseppe Lippi, da oltre vent’anni curatore di Urania, mi confessava in un’email di ritenere “una piccola miniera speculativa”. Per chi non l’avesse letto, attenzione: seguono spoiler!

Sono il primo ad arrivare in ufficio e perciò ripulisco la facciata dai graffiti prima che i clienti comincino ad arrivare. Non è un grande lavoro; abbiamo fatto tinteggiare l’esterno con vernice impermeabile, e perciò bastano una spugna e un po’ di acqua calda. Quando ho finito, non ricordo cosa dicessero le scritte, questa volta; ho raggiunto lo stadio in cui posso guardare gli slogan e gli insulti senza leggerli.

Il racconto, ambientato a Sydney, è narrato in prima persona. Il protagonista è Matheson, titolare con il collega Ranjit dello studio Matheson & Singh. Sono specializzati nella difesa dei diritti degli immigrati nell’Australia di un futuro non meglio specificato, ma che dal contesto si capisce essere molto vicino ai nostri tempi. In particolare, lo studio si occupa di una ben precisa categoria di immigrati:

Alcune isole del Pacifico perdono rapidamente la loro terra, anno dopo anno, e altre vengono rapidamente erose dalle cosiddette tempeste dell’effetto serra. Ho sentito infiniti cavilli sull’esatta definizione del termine "rifugiati ambientali", ma non c’è molto posto per l’ambiguità, quando la tua casa svanisce letteralmente nell’oceano. In ogni caso, occorre sempre un avvocato per superare i tortuosi processi burocratici per ottenere lo status di rifugiato.

Il continente australiano è il riferimento naturale per le popolazioni degli arcipelaghi dell’Oceano Pacifico costrette alla fuga dal collasso ambientale, ormai di proporzioni devastanti. La pressione è grande e la questione dei rifugiati è all’ordine del giorno nell’agenda politica. L’opinione pubblica australiana è divisa. All’estremo opposto di chi, come Matheson, è a favore dell’accoglienza, ci sono i “gruppi antiprofughi” di dichiarata matrice razzista, responsabili dei graffiti offensivi che imbrattano la parete esterna dello studio dell’avvocato. Tra i gruppi razzisti spicca Fortezza Australia, balzato agli onori delle cronache per aver appeso sui bus manifesti in cui gli abitanti della Melanesia erano ritratti come cannibali, con collane di ossa umane, intenti a cucinare bambini bianchi urlanti in grossi pentoloni.
I rifugiati ambientali non sono ben visti anche dai partiti politici progressisti. La senatrice Margaret Allwick, leader dell’Alleanza dei Verdi, propone una legge per regolamentare in maniera molto restrittiva l’immigrazione in Australia, perché la fragile ecologia del paese non può sopportare un’ulteriore aumento della popolazione. Le città sono sovraffollate, l’allargamento delle aree urbane minaccia habitat importantissimi e diventa sempre più difficile trovare nuove sorgenti d’acqua. Per mettere sotto controllo il tasso delle nascite dei cittadini australiani occorreranno decenni, mentre “il flusso migratorio è un fattore che può essere regolato molto in fretta”. Durante un dibattito televisivo, Matheson assiste incredulo allo scambio di battute tra un giornalista e la politica:

— Molti commentatori hanno manifestato sorpresa per il fatto che i Verdi si trovino alleati, su questo argomento, con alcuni gruppi di estrema destra.
La senatrice aggrotta la fronte. — Sì, ma il paragone non regge. I nostri motivi sono del tutto diversi. È stata la distruzione dell’ecosistema a causare in primo luogo il problema dei rifugiati; sottoporre a un ulteriore sforzo il nostro delicato ambiente non ci aiuterebbe a lungo termine, no? Dobbiamo proteggere ciò che abbiamo, per il bene dei nostri figli.

Matheson convive con Rachel, patologo forense. Una sera, mentre i due sono a cena in un ristorante, lei racconta di aver visto “una cosa stranissima, al lavoro”. Esaminando il tampone vaginale di una donna che aveva subito violenza sessuale poche ore prima, Rachel ha individuato sperma e sangue del violentatore. Ma l’esame del DNA mostrava l’esistenza nel campione di un unico genotipo, quello della vittima: non c’erano tracce del DNA dello stupratore. Un risultato per il quale non c’è spiegazione.
Benché nessuno abbia richiesto di continuare le analisi per risolvere il mistero, Rachel rivela a Matheson di aver fatto autonomamente altri test. Ha isolato alcuni spermatozoi dello stupratore per ottenere un profilo del loro DNA:

— [...] Ho cercato di amplificare un gene con l’enzima polimerasi delle catene. Un gene che tutti posseggono. In effetti si tratta di un gene che ogni organismo del pianeta, dal lievito in su, possiede.
— E cos’è successo?
— Niente. Non una traccia.

Nessuna mutazione o malformazione può giustificare il fallimento degli esami. La spiegazione più semplice è che i reagenti utilizzati siano inefficaci, come se qualcosa impedisse loro di legarsi al DNA. Matheson pensa a una contaminazione, ma Rachel è molto più radicale:

— Bene... tu conosci la struttura del DNA: due fili elicoidali di zucchero e fosfati, uniti dalle coppie di basi che portano l’informazione genetica. Le coppie di basi naturali sono adenina e timina, citosina e guanina, ma qualcuno ha sintetizzato nuove basi e le ha incorporate nel DNA e nell’RNA, e verso la fine del secolo, un gruppo di Berna ha costruito un intero batterio che si serviva di basi non standard.
— Intendi che hanno riscritto il codice genetico?
— Sì e no. Hanno mantenuto il codice, ma hanno cambiato l’alfabeto; hanno preso ciascuna delle vecchie basi e le hanno sostituite con una nuova, in modo coerente.

Ancora Rachel spiega le motivazioni dei ricercatori dell’istituto svizzero:

— L’intero scopo di quell’esperimento era quello di evitare le paure legate alle tecniche del DNA ricombinante, perché se quei batteri fossero sfuggiti, i loro geni non si sarebbero mai trasmessi ad altri ceppi selvatici. In ogni modo, l’intera idea risultò antieconomica. C’erano modi più semplici per venire incontro alle esigenze di sicurezza ed era impossibile convertire ogni genere di batterio che i biotecnologi potevano avere il desiderio di usare.

Matheson non comprende il collegamento tra il caso che Rachel sta segretamente studiando e l’esperimento scientifico di cui gli sta parlando:

— Allora — chiedo io — che cosa intendi dire? Dici che quei batteri sono ancora in circolazione e lo stupratore aveva qualche malattia venerea mutante che ha rovinato i tuoi test?
— No, lascia perdere i batteri. Supponi che qualcuno sia andato più avanti. Supponi che abbia fatto la stessa cosa con organismi pluricellulari.
— Perché, l’hanno fatto?
— Non apertamente.

Rachel spiega che gli esseri umani con DNA alternativo avrebbero l’aspetto di una persona qualsiasi, però nelle loro cellule gli alimenti ingeriti sarebbero utilizzati per sintetizzare le basi nuove invece di quelle standard. Anche se si tratta solo di una teoria, Matheson è scioccato e si chiede quali possano essere le motivazioni dell’ipotetico esperimento. La patologa allora nota che i virus infettano le cellula per riprodurre il proprio materiale genetico, ma un virus fatto di basi standard non potrebbe mai essere riprodotto da una cellula con DNA modificato. Matheson nota che, per esempio, nessuno in Africa potrebbe permettersi di ordinare “bambini su misura” che non prendano l’AIDS. Rachel è d’accordo:

— Ovviamente, sarebbe solo per un’élite ricca [...]
— Certo, ma questa élite ricca con immunità per tutta la vita, in gran parte rispetto a malattie che difficilmente prenderebbero in qualsiasi caso, non potrebbero neppure avere figli, vero? Almeno con mezzi normali.
— Tranne che tra loro.
— Tranne che tra loro. Be’, mi sembra un effetto collaterale piuttosto drastico.
Lei ride e all’improvviso si rilassa: — Hai ragione, naturalmente, e te l’ho detto: non ho prove, è tutta fantasia. I reagenti che mi occorrono arriveranno tra un paio di giorni e allora potrò cercare le basi alternative e cancellare questa idea pazza una volta per tutte.

Il giorno dopo, Matheson torna in ufficio alla undici di sera per recuperare due file che gli servono con urgenza. Quando arriva, sorprende un ragazzino di dodici anni intento a imbrattare l’esterno dell’ufficio con i graffiti razzisti, nell’indifferenza dei passanti. Matheson lo blocca e gli chiede perché faccia così:

Lui sbuffa. — Potrei fare a te la stessa stronza domanda.
— Riguardo a cosa?
— Riguardo ad aiutarli a stare nel paese. A rubarci i posti di lavoro. A portarci via le case. A incasinarci tutti.
Rido. — Mi sembra di sentire mio nonno. Loro e noi. Sono il tipo di stronzate del ventesimo secolo che hanno rovinato questo pianeta. Pensate di poter costruire una palizzata attorno a questo paese e dimenticare tutto ciò che ci circonda? Tirare una riga artificiale su una carta geografica e dire che quelli dentro si salvano e quelli fuori no?
— Niente di artificiale, solo l’oceano.
— No? Saranno lieti di saperlo in Tasmania.

Mentre lo lascia andare, Matheson riflette sulle parole e sull’atteggiamento del giovane:

Non ci può essere comunicazione, non ci può essere discussione. Le lobby antirifugiati parlano sempre di “preservare i nostri valori comuni”; questo è davvero ridicolo. Siamo due anglo-australiani, probabilmente siamo nati nella stessa città, ma i nostri valori non potrebbero essere [più] diversi neppure se venissimo da due pianeti diversi.

Entrato in ufficio, l’avvocato sta copiando i file di cui ha bisogno quando s’interrompe la corrente. Attende un’ora senza che l’erogazione riprenda, poi torna a casa, non in collera o depresso, semplicemente stufo. Diverso tempo dopo, Matheson riflette sugli eventi narrati. Condivide i suoi pensieri con il lettore nel risolutivo paragrafo finale, in cui i diversi temi affrontati nel racconto convergono in maniera sorprendente in un’angosciata visione. Vale la pena perciò riportarlo in versione integrale:

Le cose vanno meglio, di questo non c’è dubbio.
La proposta di legge Allwick non è stata approvata. I Verdi hanno un nuovo leader, perciò c’è un po’ di speranza anche per loro.
Jack Kelly è in prigione per contrabbando d’armi. La Fortezza Australia continua ancora a collocare i suoi manifesti idioti, ma c’è un gruppo di studenti antifascisti che passa il tempo libero a strapparli. Dato che io e Ranjit abbiamo risparmiato a sufficienza per comprarci un sistema d’allarme, non ci sono più graffiti e da qualche tempo anche le lettere minatorie diventano rare.
Io e Rachel ci siamo sposati, siamo felici insieme e siamo lieti dei nostri lavori. Lei è stata promossa a direttrice del laboratorio e il lavoro della Matheson & Singh è in pieno rigoglio, e le rende parecchio. Davvero non potrei chiedere di più. A volte parliamo di adottare un figlio, ma in realtà non ne abbiamo il tempo.
Non parliamo quasi mai della notte in cui ho trovato l’autore dei graffiti. La notte in cui il blackout del centro cittadino durò sei ore e vari campioni dell’istituto di medicina legale si guastarono a causa dello spegnimento dei congelatori. Rachel si rifiuta di dilungarsi in qualche teoria paranoica sull’accaduto. “Le prove sono scomparse” dice lei. “Inutile soffermarsi ancora sulla cosa.”
A volte però mi chiedo quante persone condividono le idee di quel ragazzino folle. Persone che non ragionano in termini di nazioni o di razza, ma che hanno tracciato le proprie linee per separare noi e loro. Che non sono pagliacci in tuta mimetica, pronti a sfilare davanti alle telecamere; persone intelligenti, preveggenti, con molte risorse a disposizione. E capaci di tacere.
E mi chiedo che tipo di fortezza stiano costruendo.

Il commento
Egan è un autore di fantascienza hard, per cui non sorprende che la scienza abbia un ruolo fondamentale nella sua produzione artistica. Matheson, il protagonista di Il fossato, è pienamente consapevole dell’importanza della scienza nella sua esistenza, sia riguardo alla questione della catastrofe ecologica, che abbraccia un ambito globale, che su quella dell’ingegneria genetica, che invece riguarda il caso locale del campione di laboratorio. Artisticamente, entrambi sono segnali di un mondo in disfacimento, fisico e morale, dove le responsabilità dell’uomo, inteso come singolo, comunità e umanità nel suo insieme, sono nette. Così due concetti generalmente concepiti come positivi nella cultura occidentale come lo sviluppo sostenibile e l’ingegneria genetica per la medicina preventiva acquistano nel racconto un senso opposto.
È in nome della sostenibilità che il senatore dei Verdi propone di non accogliere chi fugge dalle aree disastrate, perché l’aumento della densità di popolazione metterebbe a repentaglio la possibilità delle generazioni future in Australia di soddisfare i propri bisogni: un completo ribaltamento, quasi parodistico, della definizione di sviluppo sostenibile data dal famoso rapporto Brundtland nel 1987, appena quattro anni prima della pubblicazione del racconto. Allo stesso modo, la ricerca genetica contro le malattie, in particolare quelle virali, diventa lo strumento per mettere in atto un ipotetico, folle sogno isolazionista.
Ciò non implica che per Egan studi come quelli su ecologia e biotecnologie siano intrinsecamente pericolosi. Lo scrittore australiano si è apertamente dichiarato contrario all’idea che una ricerca, una scoperta o un’invenzione possano essere etichettate come “buone” o “cattive” (così mi scriveva in un’email del 2008). Tranne rari casi, però, la scienza può essere usata a proprio piacimento in un senso o in un altro. Sono questi stravolgimenti estremi le “stronzate del ventesimo secolo” che hanno minato le basi del futuro prossimo in cui vivono i protagonisti della storia.
Adesso, all’inizio del secondo decennio del ventunesimo secolo e a vent’anni esatti dalla pubblicazione del racconto, non si può non restare sorpresi da quanto l’attualità ricalchi le intuizioni in esso contenute.
Certo impressiona l’utilizzo da parte di Egan del termine “rifugiati ambientali” in un racconto del 1991, l’anno prima dell’Earth Summit di Rio de Janeiro, dove fu stilato l’accordo sulla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che avrebbe poi portato alla stesura del Protocollo di Kyoto. Allo stesso modo è inevitabile un parallelo tra la finzione del racconto e la realtà del recente passato dell’Australia. Alla fine del 2007 il laburista Kevin Rudd è stato eletto a sorpresa nuovo premier, dopo undici anni di governo della coalizione conservatrice e un periodo di prosperità senza precedenti, con livelli record di occupazione e tasso d’inflazione bassissimo. Il premier uscente, John Howard, era il grande favorito. Ma gli elettori lo hanno punito anche per la sua inerzia e riluttanza a occuparsi dell’effetto serra e delle emissioni di anidride carbonica. Il governo di Rudd sarebbe caduto nel 2010 e ora guida la nazione la laburista Julia Gillard, con un governo di minoranza cui i Verdi danno appoggio esterno. Chissà se la prima donna a diventare premier dell’Australia somiglia alla senatrice Margaret Allwick inventata da Egan…
Ma se l’Australia è lontana, down under, che cosa possiamo dire sull’Europa? Anche se non ci sono atolli che rischiano di scomparire nel Mediterraneo, non manca chi cerca di attraversarlo per raggiungere le sponde settentrionali del Mare Nostrum, alla ricerca di sicurezza prima che di fortuna. Nel già ricordato La frontiera addosso, Luca Rastello riporta dati delle Nazioni Unite secondo i quali alla fine del 2008 l’Italia ospitava circa 47.000 persone riconosciute ufficialmente come rifugiati politici. Il riferimento principale sono ancora i trattati della Convenzione di Ginevra. Rifacendosi alle definizioni contenute in quei documenti, può chiedere rifugio chi scappa da persecuzioni e carneficine, mentre chi parte perché non sarebbe in grado di mantenersi in patria va classificato come migrante economico e come tale potrebbe vedere scartata la sua richiesta di protezione.
Nel dubbio, meglio impedire da subito che un aspirante rifugiato raggiunga il territorio europeo. Ecco quindi gli accordi bilaterali tra Italia e Libia per contrastare l’immigrazione clandestina, in base ai quali chi è respinto dalle nostre coste può finire in una prigione di Gheddafi in pieno deserto, anche se per le Nazioni Unite si tratta di persone che avrebbero avuto diritto all’asilo se solo fossero sbarcati a Lampedusa; pochi sanno poi dell’esistenza della Frontex, l’agenzia dell’Unione Europea con sede a Varsavia fondata pochi anni fa per presidiare le frontiere continentali attraverso reparti speciali e servizi di intelligence (www.frontex.europa.eu). Fortezza Europa, dice appunto qualcuno.
Manuel Castells ritiene che i politici, per guadagnare voti o almeno per non perderli, cavalchino la xenofobia crescente nella popolazione europea. Le cause di questo aumento sono state analizzate da diverse ricerche: gli immigrati toglierebbero posti di lavoro, farebbero abbassare gli stipendi, porterebbero delinquenza e degrado, fomenterebbero il fondamentalismo. Responsabilità ancora più gravi in questo periodo di crisi economica e instabilità politica. Sono parole molto simili a quelle del dodicenne razzista del racconto di Egan. Improbabile che Castells abbia letto Il fossato, ma come Matheson sfida il giovane antagonista a disegnare la linea che separa ‘noi’ da ‘loro’, così il sociologo spagnolo invita provocatoriamente politici e cittadini che li hanno eletti a chiudersi in trincea e tenere per ‘noi’ i posti di lavoro, l’istruzione pubblica e la sanità, per poi sostenere come le motivazioni sopra elencate siano emozioni non suffragate da dati. Per esempio, non solo nessuna economia europea potrebbe resistere senza il contributo dell’immigrazione, ma questa avrebbe addirittura contribuito a aumentare l’offerta di lavoro grazie alla domanda di beni e servizi per i nuovi residenti.
Detto che l’immigrazione è un problema epocale (ma c’è stata un’epoca, dalla storia alla preistoria, senza migrazioni?), è ovvio che la Fortezza Europa delineata da alcuni analisti è comunque qualcosa di politicamente più serio e fondato del movimento cialtronesco della Fortezza Australia del racconto di Egan. Al di là dell’assonanza fonetica che indubbiamente colpisce, nell’Europa civile e tollerante dell’inizio del ventunesimo secolo non ci sono manifesti dove gli stranieri sono dipinti come cannibali. Al massimo come topi che si cibano di formaggi, perché Euclide insegna che per un punto passano infinite linee: è solo questione di tempo perché qualcuno possa decidere di volerne tracciare una, più o meno arbitrariamente, così che anche noi ci troviamo improvvisamente dalla parte che per qualcuno è quella sbagliata.
E come il ragazzino dei graffiti, sono dodicenni molti dei bambini rom del campo nomadi di Torino dove è stata costruita la rete metallica per separare serbi e croati da bosniaci. A uno di questi, in sella alla sua bicicletta, un giornalista chiede perché le due comunità si fanno la guerra. Perché siamo diversi, risponde subito il giovane. Incalza il giornalista: qual è la differenza? Non lo so, risponde sgommando via.

Fantascienza e società
Se quanto scritto finora in relazione al racconto di Egan può sembrare un flusso di suggestioni, assonanze, associazioni in parte arbitrarie, è perché, in effetti, lo è. Chi scrive ha già dichiarato di non essere un letterato né un critico, ma un appassionato che vuole segnalare una bella storia di fantascienza perché merita di essere conosciuta; soprattutto, vuole condividere ciò che quella lettura gli ha lasciato e che, come probabilmente è esperienza comune tra gli appassionati di fantascienza, può capitare di incontrare nuovamente, a sorpresa, in quell’esperienza che per convenzione è chiamata “vita reale”. Si tratta quindi di una serie di sensazioni e informazioni con il minimo comun denominatore di convergere tutte verso il racconto Il fossato, o meglio, verso l’immagine mentale di quel racconto che nel tempo si è fatto chi redige queste righe.
Si sa che la fantascienza non ha lo scopo di predire il futuro. I telefilm di Star Trek non sono importanti perché il telefono cellulare ricorda il comunicatore della Flotta Stellare, mentre il film 2001: Odissea nello Spazio mantiene intatto il suo valore anche se non abbiamo hotel in orbita intorno alla Terra, basi sulla Luna e astronavi in viaggio verso Giove.
Questo non significa che la fantascienza non possa avere uno scopo, magari diverso a seconda della personale interpretazione e visione artistica dell’autore. Egan, per esempio, per sua ammissione (e-mail del 2008) considera la buona fantascienza come uno strumento per immaginare il futuro, o meglio i tanti futuri possibili, che si basa sugli stessi valori con cui la scienza indaga il mondo, cioè curiosità e onesta intellettuale. Insieme, scienza e fantascienza mettono a disposizione della cultura cui appartengono un insieme di fatti verificati e congetture da verificare. Quindi la fantascienza, come la scienza, pur non avendo un obbligo morale né un binario da seguire, può contribuire a preparare la società alle trasformazioni che verranno.
Anche se il processo descritto può sembrare una semplificazione eccessiva, un po' come la visione meccanicistica della realtà imperante tra Settecento e Ottocento. A contare sono però le idee: se i contenuti immessi nel sistema sono significativi, il risultato può rendere conto della complessità della realtà.
Capita così che uno scrittore sicuramente non facile, spesso accusato di scrivere in modo oscuro o almeno non lineare, se non addirittura illeggibile – come ha dichiarato Valerio Evangelisti in La cospirazione fantascientifica, prefazione al volume Di futuri ce n’è tanti: Otto sentieri di buona fantascienza, di Riccardo Mancini e Daniele Barbieri (Avverbi 2006), anche online su Carmilla – sappia usare la "testa" della società in cui viviamo, cioè concetti scientifici rigorosi e attuali al limite dello specialistico, per esprimere la "pancia", intesa come l’insieme di sensazioni, percezioni e istinti perennemente attivi come un software in background, per usare una metafora alla Egan. Un continuo ribollìo che contribuisce a determinare opinioni e posizioni dei singoli individui e della società che formano tanto quanto le fredde equazioni. Si tratta di un processo naturale e quindi non necessariamente marcato negativamente, tantomeno dallo scrittore australiano. Ma, forse proprio per questione "di pancia", ci capita di notare più spesso queste pulsioni quando portano a risultati drammatici, se non tragici. D’altra parte, ci vuole tanta “testa” per realizzare gli esseri umani a DNA alternativo e il progetto, pur altamente razionale e scientifico, non è certo presentato nel racconto sotto una luce positiva.
Egan, uno dei maggiori rappresentanti della fantascienza hard degli ultimi vent’anni, l’autore preferito da scienziati come il grande fisico teorico Nicola Cabibbo recentemente scomparso, potrebbe essere soprattutto un grande indagatore di ciò che ci rende umani? La parola a studiosi e critici, quelli veri e non chi scrive, improvvisato autore per Next Station più per "pancia" che per "testa".

Appendice: Diaspora
Il fossato parla di xenofobia e razzismo. Non sono la stessa cosa: il razzismo discrimina le persone sulla base di presunte differenze razziali, mentre la xenofobia, dal greco xenos, “straniero”, e phobos, “paura”, è letteralmente la paura dello straniero. La fantascienza è sicuramente la letteratura del confronto con l’altro, cioè lo straniero nel senso più cosmico e fantastico immaginabile: un’esperienza estranea alla quotidianità che può lasciarci perplessi al punto da innescare riflessioni anche su noi stessi. Valutare somiglianze e differenze tra noi e l’altro può infatti aiutarci a comprendere meglio la nostra identità, a chiederci se il posto che pensavamo di occupare nel mondo non debba essere ripensato, i nostri valori ricalibrati. In fondo, nota Bernhard Waldenfels, filosofo dell’alterità, ciascuno di noi è portatore di un altro dentro di sé (La Stampa, 25 nov. 2010). Basti pensare al nostro cervello e al nostro corpo, che funzionano senza che ne abbiamo un reale controllo; per non parlare dell’inconscio, la cui individuazione spinse Sigmund Freud a dire che nessuno è padrone perfino in casa propria.
L’alieno, il simbolo stesso della fantascienza anche al di là della comunità dei cultori del genere, è un vocabolo italiano che deriva dal latino alius, che a sua volta deriva dal greco allos e significa proprio “che è altro da noi”, ricordavo nel mio La fantascienza a test (Alpha Test, 2007). Per molto tempo l’alieno, nel senso dell’extraterrestre, è stato rappresentato come il cosiddetto BEM: Bug Eyed Monster, mostro dagli occhi d’insetto. E proprio al mondo degli insetti è ispirata, in modo del tutto inatteso, un’interessante riflessione di Zygmunt Bauman, sociologo e filosofo della postmodernità, noto come il teorizzatore della “società liquida”.
In un articolo comparso su La Stampa (Le vespe ci spiegano la società liquida, 27 sett. 2010), Bauman riporta la recente scoperta di ricercatori della Zoological Society of London sulla vita sociale delle vespe di Panama. Avvalendosi di tecnologie di avanguardia, il gruppo di studiosi ha tracciato i movimenti di centinaia di vespe di 33 colonie diverse per un totale di 6000 ore di osservazione, scoprendo che il 56% delle vespe operaie cambia alveare nel corso della loro vita. Fino a quel momento si era pensato che le colonie fossero rigidamente organizzate in strutture sociali aperte solo agli insetti appartenenti a quell’alveare per nascita e che eventuali intrusi fossero scacciati, se non eliminati. Al contrario, la scoperta di Panama mostrava che le vespe che cambiavano colonia erano accettate dagli insetti dell’alveare di elezione al pari delle vespe operaie autoctone. L’inevitabile conclusione è che gli alveari oggetto della ricerca sono di norma popolazione miste, con veri e propri fenomeni di migrazione e integrazione.
Tutto avviene in modo naturale, senza bisogno di ricorrere a commissioni governative, disegni di legge, corti supreme e centri di permanenza temporanea per autorizzare la presenza dell’altro, ironizza il filosofo polacco. Che poi traccia un parallelo tanto audace quanto suggestivo tra il traffico delle vespe tra una colonia e l’altra e quello degli esseri umani attraverso le frontiere statali. “La popolazione di quasi ogni paese, ormai, è una somma di diaspore”, e su questa somma Bauman individua le caratteristiche della modernità liquida, dal multiculturalismo alla progressiva svalorizzazione delle distanze, dalle linee di confine sfocate alla crescente incapacità di difenderle per definire una territorialità. Dagli insetti agli esseri umani, il mescolarsi delle popolazioni è la norma e non l’eccezione.
Diaspora? Dov’è che un appassionato di fantascienza ha già sentito questa parola?