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Una lettura fantascientifica di Cecità di Josè Saramago

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Un viaggio alla scoperta della frontiere della narrativa - in questo caso tra letteratura di genere e letteratura cosiddetta “alta” - attraverso l’analisi di un fondamentale romanzo dello scrittore portoghese scomparso lo scorso giugno. Alex Tonelli segue con passione i personaggi, temi e struttura, cartografando l'ennesima città di confine e omaggia una delle grandi penne del Novecento. - FF

Spesso ci si è interrogati sulla possibilità che un'opera di fantascienza possa essere o meno considerata un capolavoro della letteratura; molti scettici non riconoscono a questo genere di nicchia, identificato con i canoni dell’intrattenimento, un grande valore artistico. Dall’altro lato molti estimatori, dentro o fuori le fila dei conoscitori della fantascienza, non esitano a sostenere l’importanza fondante per il nostro immaginario di diversi testi, e la loro naturale appartenenza all’olimpo letterario.

L’esito di questa divergenza di opinioni è probabilmente irrisolvibile, considerando che il dibattito si trascina ormai da tempo in maniera sempre più ripetitiva e sempre meno interessante. Molto più affascinante è invece chiedersi se un’opera letteraria affermata, osannata, citata ovunque e figlia della penna di uno scrittore premiato con il Nobel possa essere reputata un testo di fantascienza, un testo di fantascienza “in incognito”.

Il rapporto fra la fantascienza e il Premio Nobel per la Letteratura è meno lontano da quanto si possa pensare: alcuni anni fa, tra le polemiche, l’ambito riconoscimento andò alla scrittrice inglese Doris Lessing, la quale si era cimentata nel corso della sua carriera con testi dichiaratamente di fantascienza come l’imponente Mara e Dann (ed. it. Fanucci) e proprio questi fecero storcere il naso a molti commentatori sull’opportunità della scelta dell’Accademia.

Ma torniamo alla nostra riflessione. Nel 1998 il Nobel viene riconosciuto a un autore portoghese già ben noto nel mondo della letteratura: Josè Saramago, classe 1922, molto avrebbe dato ancora alla letteratura. Saramago si è spento il 18 giugno del 2010 e queste pagine, in cui andremo ad analizzare alcuni aspetti della sua produzione, nascono anche con l’intento di tributare un omaggio e un ringraziamento all’opera di uno dei più grandi e coraggiosi narratori del XX secolo.

Tra i testi che persuasero gli Accademici a riconoscergli il Premio ci fu senza dubbio un libro pubblicato in Portogallo nel 1995 con il titolo di: Ensaio sobre a Cegueira, tradotto poi in italiano con il più semplice (ed efficace dal punto di vista del marketing) Cecità. Peraltro Saramago era già conosciuto come autore di primo piano nel panorama letterario portoghese ed europeo per opere come Memoriale dal convento (1982), La zattera di pietra (1986), Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991). Fu però proprio Cecità a portare definitivamente Saramago alla ribalta e a consacrarlo come il campione di un antropologismo pessimistico e cupo, capace di osservare in profondità la trama della società contemporanea e svelarne senza illusioni o consolazioni i drammi, le tragedie e le brutture, analizzando con nuda semplicità la natura hobbesiana dell’essere umano.

L’obiettivo di questo intervento è domandarci, osservando da vicino questo capolavoro, se Cecità possa essere in realtà considerato un testo di fantascienza, scritto appunto “in incognito” da un autore che in altre occasioni si è cimentato con la cifra narrativa del fantastico (penso soprattutto a Le intermittenze della Morte del 2005 e a L’uomo duplicato del 2003, La Caverna del 2000, La zattera di pietra del 1986). L’operazione che vogliamo compiere non è certamente quella di un’appropriazione indebita di un testo appartenente ad una tradizione letteraria ben definita ma piuttosto quella di valorizzare una vaga zona di confine fra la fantascienza e la non-fantascienza dove diventa difficile, se non impossibile, attribuire un’appartenenza dominante di genere. In queste pagine cercheremo solo di mostrare come, a una diversa lettura, le vicende narrate in Cecità possano essere viste come temi classici della fantascienza contemporanea, riconoscendo così a essa una forte capacità memetica di penetrazione nell’immaginario e nell’iconografia sociale dell’attuale.

Cecità un testo di fantascienza in segreto, dunque? Per poter rispondere a questa domanda analizziamo da vicino l’opera partendo dalla sua trama e dallo svolgersi degli eventi. L’ambientazione è squisitamente tipica della produzione di Saramago. Dove: una città non identificata e mai nominata, all’interno di un paese non identificato e mai nominato. Chi: innominati personaggi riconosciuti per alcune loro caratteristiche o per il ruolo che svolgono nell’interazione della trama. Quando: un momento qualunque, un semaforo che da giallo si fa rosso, macchine in attesa, mentre pedoni attraversano la strada, poi il verde, le macchine ripartono, tutte. Tutte, tranne una. Al volante di quella macchina siede quello che verrà nominato nel corso della narrazione come “il primo cieco”. L’automobilista alla guida di quell’auto ferma al semaforo verde, tra suoni di clacson e imprecazioni, non vede più nulla. Disperato urla:

“Sono cieco”.

L’automobilista è stato colpito da una improvvisa, misteriosa cecità, una cecità bianca, lattiginosa, densa, quasi viscida:

Il cieco portò le mani agli occhi, le agitò. Niente, è come se stessi in mezzo ad una nebbia, è come fossi caduto in un mare di latte. Ma la cecità non è così, disse l’altro, la cecità dicono sia nera, Invece io vedo tutto bianco.

L’uomo, disperato e in lacrime, viene accompagnato a casa da un passante che gentilmente si fa carico di guidarlo. Ad accoglierlo è la moglie che, spaventata, ascolta il resoconto della sua disavventura. Saramago è però autore impietoso: niente viene concesso alla disillusione sulla reale natura egoistica e approfittatrice dell’uomo, non vi è mai spazio per la pietà e per la compassione; al contrario, ogni comportamento è solo e sempre figlio del proprio individuale e assoluto tornaconto. Il buon samaritano, che così caritatevolmente si era reso disponibile ad accompagnare il cieco a casa aiutandolo, si rivela un ladro che approfitta del trambusto e del dolore dei coniugi per sottrarre loro l’automobile. Poco importa che anche il ladro ben presto venga colpito dalla bianca cecità: non è un castigo divino o una moderna legge del contrappasso, ma è invece il comune destino di tutti gli abitanti di quella città senza nome, l’indifferente abbattersi sull’umanità di un male epidemico proveniente da una Natura totalmente disinteressata al destino umano.

Il primo cieco, accompagnato dalla moglie, decide di recarsi nello studio di uno specialista, dove si trovano già in attesa: un vecchio con una benda nera, un ragazzino strabico accompagnato da una donna e una ragazza dagli occhiali scuri; questi costituiranno il nucleo dei personaggi che seguiremo per tutta la vicenda. Il medico visita il paziente, ma nessuna spiegazione sembra adattarsi a quell’improvvisa, violenta, biancastra cecità. Un virus? Un fatto nervoso? Una psicosomatizzazione?

L’epidemia intanto si anima e si diffonde: uno dopo l’altro, in un ordine apparentemente casuale, i cittadini della città cominciano a diventare ciechi rapidamente, sempre più rapidamente, tanto che il governo è costretto a correre ai ripari intervenendo nell’unico modo che conosce: la segregazione. Si decide così di chiudere i ciechi (non più visti come malati ma come untori di un’epidemia) in edifici isolati per evitare che il contagio si diffonda ulteriormente. Quantità di uomini e donne ciechi e disperati vengono ammassati in enormi palazzi sorvegliati da agenti armati, imprigionati con un’unica evidente colpa: la loro malattia.

Tra tutti i ciechi pare però esservi una persona una più intraprendente, più dinamica e capace di aiutare gli altri, anche facendosi carico della loro sorte: una donna che misteriosamente appare non esserlo diventata. È la moglie del medico specialista che, senza alcuna ragione plausibile, è rimasta immune dal contagio e si finge cieca solo per aiutare il marito e la piccola comunità umana che si è formata intorno a loro: i pazienti che abbiamo visto nella sala d’attesa dello studio al momento dell’ingresso del primo cieco.

Fra i ciechi vi era una donna che dava l’impressione di trovarsi contemporaneamente dappertutto, aiutando a caricare, comportandosi come se guidasse gli uomini, cosa evidentemente impossibile per una cieca, e più di una volta, o per caso o di proposito, si girò verso l’ala dei contagiati.

La piccola comunità guidata dalla donna vedente finisce per essere condotta dalle forza dell’ordine in un ex manicomio, uomini e donne ammassati insieme a un numero imprecisato ed enorme di altri ciechi. Ben presto però l’epidemia raggiunge dimensioni globali e anche i servizi minimi di approvvigionamento vengono a mancare; i ciechi sono lasciati in balia di se stessi, rinchiusi in edifici fatiscenti, le vie d’uscita spesso sbarrate, costretti così a una sopravvivenza animalesca.

Nell’intera trama del libro questo rappresenta il punto nodale, verso cui l’autore ha guidato la narrazione e il lettore. Saramago ha concluso quella che potremo definire la pars destruens della sua costruzione narrativa. Ciò che era proprio dell’antica società umana dei vedenti è stato distrutto, spazzato via, e non ne resta nessuna struttura (o sovrastruttura). La cecità bianca ha fatto sì che tutto fosse cancellato: istituzioni, polizia, governo, ogni cosa. I ciechi vivono per un momento in un’immacolata tabula rasa su sui è possibile scrivere nuove regole, nuove relazioni sociali, culturali, costruire una nuova società basata su dettami e valori diversi. Saramago dà la possibilità ai suoi personaggi di riscattarsi, di costruire una nuova collettività che sia fondamentalmente solidaristica, fondata sul mutuo, pietoso e caritatevole, soccorso. Le premesse vi sono tutte, e richiamano le premesse della Peste di Camus: una malattia che debilita, la convivenza forzata, il bisogno di comprensione e di condivisione. Ma come dicevamo all’inizio, Saramago è soprattutto un autore cinicamente sincero e su quella tabula rasa verrà scritta dai personaggi del suo romanzo una storia ben diversa, una forma alternativa di integrazione sociale.

All’interno del manicomio un gruppo di ciechi si impossessa con la forza e la violenza di tutte le razioni di cibo rimaste prima dell’interruzione delle forniture da parte del governo centrale: con la minaccia e il sopruso il gruppo crea un regime di potere completamente destrutturato e privo di forme identificabili di comando, in realtà basato sulla semplice e limpida legge del più forte e della violenza. Questi ciechi, definiti come “i ciechi malvagi” si raccolgono in una parte dell’ex manicomio imprigionando, prigione nella prigione, gli altri ciechi in una piccola ala dell’edificio, sottomettendoli al loro volere. Queste sono le pagine più dure e drammatiche di Saramago, i passi in cui l’autore mostra quanto abbietto e crudele possa essere il comportamento umano, una “animalizzazione” che giunge alla completa umiliazione dell’altro che, nel testo, si fa disturbante nelle pagine in cui vengono raccontati gli stupri collettivi a danno delle donne indifese e spaventate. L’uomo perde ogni parvenza di socialità, di comunione relazionale, di pietas nei confronti dell’altro e si trasforma – o forse torna a essere – una belva furente che uccide per il cibo, per la riproduzione e, sadisticamente, per il puro piacere nella sottomissione del più debole.

Durante uno degli stupri collettivi la moglie del medico, l’unica donna in grado di vedere l’orrore che si compie di fronte a lei, si ribella e in un impeto di rabbia cieca e disperata uccide il capo dei ciechi malvagi. La situazione precipita e un’altra donna, nel tentativo di difendersi, dà fuoco a un mucchio di coperte ma l’incendio si diffonde nell’intera struttura. Le fiamme avvolgono ogni cosa e, con la consueta indifferente banalità maligna delle forze della natura, non rimane nessuno scampo ai ciechi intrappolati nell’edificio. Molti muoiono nel rogo. La donna vedente e il resto della sua piccola comunità riescono a scappare e si rifugiano nella città spettrale che si para davanti a loro. La donna osserva cadaveri ovunque lungo la strada, desolazione, disperazione, morte e l’abbrutimento di quanti non ricordano neppure più il loro passato di esseri umani, esseri sociali. La storia si chiude di lì a poco. Così come era venuta, la cecità se ne va. L’epidemia passa via come una folata di vento, e uomini e donne tornano a vedere. E a dimenticare ciò che hanno vissuto.

“Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono. Ciechi che, pur vedendo, non vedono”.

Con questa frase pronunciata quasi tra sé e sé dalla moglie del medico specialista si chiude il romanzo: una sentenza che appare come un manifesto poetico, una chiave di lettura non solo per questo libro ma per tutta la produzione letteraria di Saramago.

Cecità è un testo di poco più di trecento pagine che contiene fra le sue righe dense e accurate un’infinità di spunti di riflessione e analisi. Molte possono essere le chiavi di lettura, antropologiche, sociologiche, politiche, economiche e storiche, persino psicologiche. L’obiettivo principale di Saramago però è chiaro sin dalle prime battute: il bisogno di osservare l’essere umano nel suo agire più originario, più “naturale”, spogliandolo di tutte le costruzioni sociali, le armature comportamentali che la società e la cultura (intesa qui in senso puramente antropologico) impongono attraverso differenti forme di determinazione interna ed esterna, come ben descritto dalla riflessione del filosofo finlandese Georg Von Wright nel suo Freedom and Determination.

Saramago si concentra sul puro e semplice agire, un agire anteriore a ogni schematismo sociale, a ogni ruolo, a ogni tabù culturale. A questo scopo, utilizza un preciso meccanismo narrativo per giungere al disvelamento fenomenologico del comportamento umano, un dispositivo attuato con chiarezza e lucidità. Questo marchingegno narrativo non è altro che il medesimo modus operandi utilizzato dalla fantascienza nel suo farsi indagine antropologica: l’inserimento in un panorama sociale conosciuto e comune di un pretesto narrativo, un elemento letterario tale per cui si scatena una sorta di reazione chimica in grado di far emergere e mostrare nuovi contesti sociali e orizzonti comportamentali.

Maestro di questo procedere chimico/letterario è stato per esempio Philip K. Dick. Nell’autore californiano questa reazione avveniva introducendo in un mondo creato ad hoc, una sorta di laboratorio per esperimenti sociali e antropologici, un elemento fantastico più o meno plausibile scientificamente: una Terra collocata in là nel futuro di qualche decina d’anni, il tempo che va a ritroso, androidi simulacri perfettamente identici agli umani, presidenti eletti da lotterie, droghe iper-allucinanti capaci di plasmare la realtà nelle percezioni di chi le assume, e così via. Dick non faceva poi altro che osservare, forse più spettatore che autore, come la società umana andasse a riassemblarsi intorno a questo nuovo contesto di riferimento venutosi a creare per reazione con l’elemento inatteso, quali meccanismi venivano messi in atto, quali comportamenti, quali strutture sociali, quali disfunzioni: osservare l’umano sotto le molteplici sfaccettature che si aprivano nelle situazioni di paradossale diversità e estraneità a cui l’autore lo costringeva.

Questo dispositivo, che in Dick raggiunge l’apice per efficacia e chiarezza, è per eccellenza il procedimento che costituisce il nocciolo della fantascienza stessa, una volta che ne viene defoliato il puro e semplice obiettivo d’intrattenimento e di pura azione avventurosa. Se partiamo dal presupposto, incontrovertibile per chi scrive, che la fantascienza non sia solo guerre spaziali e viaggi nelle stelle fra specie aliene più o meno bellicose, vediamo allora come il suo intento profondo, originario (anche se non sempre attuato col medesimo effetto) sia l’osservazione dell’esperienza umana a partire da contesti alieni e da situazioni paradossali.

Torniamo ora al testo di Saramago. Rileggiamo la sua struttura narrativa e osserviamo di nuovo il suo chiaro obiettivo, il radicale desiderio di scavare dentro il comportamento umano, dentro l’agire più profondo, più naturale, più immediato. Per far ciò Saramago utilizza consapevolmente il procedimento che abbiamo visto essere peculiare della fantascienza, l’unico che effettivamente può consentirgli una destrutturazione così forte del contesto consueto e la creazione di un altro-contesto che sia luogo privilegiato di osservazione. Un altro-mondo che permetta di osservare l’umano in quanto creatura agente al di fuori dalle regole di questa società. Se Saramago si avvale di un meccanismo narrativo, di un pretesto concettuale che è proprio della produzione fantascientifica, e immediatamente riconducibile a essa, ciò che ne risulta, al di là dei risultati dell’osservazione compiuta (che pure sono interessantissimi), è la realizzazione di un testo realizzato che ha il “sapore” di un testo di narrativa di fantascienza. Ne ha le medesime strutture narrative, le medesime finalità d’indagine, ma soprattutto porta con sé numerose immagini che appartengono all’iconografia fantascientifica, fondamentali per la costruzione dell’altro-mondo alieno in cui far muovere i suoi personaggi.

Non sappiamo se Saramago fosse o meno un lettore di fantascienza, ciò che però colpisce nella lettura di Cecità, o meglio, ciò che colpisce il lettore di fantascienza, è il ritrovarvi con frequenza immagini, sensazioni, situazioni, vicende che sono abituali nei testi di appartenenza apertamente riconducibile al genere. Vi troviamo alcune delle sue “fotografie” narrative più tipiche, come per esempio il panorama osservato dai protagonisti nel riemergere dall’abisso dell’ex manicomio, con la città devastata e disseminata di cadaveri che è decisamente di impronta fantascientifica. L’immaginario iconografico dei testi post-apocalittici è presente con estrema fedeltà nel libro di Saramago, che si avvale di quelle immagini per creare e potenziare il senso di alterità ed estraneità che va cercando per i suoi personaggi e per i suoi i lettori.

Alcune delle scelte di Saramago, tra cui quella di decontestualizzare volutamente lo svolgersi della vicenda senza fornire coordinate spaziali o temporali di riferimento rintracciabili, rendono ancora più forte il “sapore” di fantascienza. Pare quasi che l’autore abbia voluto ambientare la vicenda in tutte le città del mondo, o meglio, in tutte le città di tutti i possibili mondi popolati dagli esseri umani. Se alcuni commentatori hanno identificato la geografia della narrazione nella Lisbona dei nostri giorni, la potenziale ubiquità del testo resta imponente. Tutto lascia pensare che Cecità sia un libro adattabile, un libro a-temporale in cui le vicende narrate possono essere identicamente plausibili (o identicamente non plausibili) in qualunque momento della vicenda storica, fino ad arrivare alla sensazione che sia il testo stesso ad adattarsi agli occhi del lettore, quasi che il mondo ordinato da cui l’avventura parte, quel semaforo giallo, diventi il punto di contatto fra tutti i mondi ordinati degli infiniti possibili lettori, mondi in attesa di essere devastati da quanto le pagine di Cecità porteranno poi con sé.

Se dunque possiamo considerare Cecità come un testo di fantascienza per il meccanismo narrativo e l’iconografia utilizzata nel descrivere i paesaggi emotivi, cerchiamo di indagare le conseguenze che questa “appartenenza” può avere sulla funzione e sull’esegesi del testo di Saramago. Come cambia la lettura di Cecità una volta che ci si è accorti che il romanzo può essere letto come un’opera di fantascienza? Come cambiano l’interpretazione delle vicende narrate, lo svolgimento della trama e le “avventure” dei personaggi? Cecità è stato ed è considerato un testo di narrativa politica e sociale. Molte delle analisi si sono soffermate ad evidenziare come Saramago volesse compiere una critica alla società attuale e che la cecità di cui parla il libro fosse da intendere in un significato puramente metaforico: una cecità del mondo occidentale che non vede, non riesce a comprendere ciò che sta accadendo e che si nasconde dietro meccanismi invisibili di violenza collettiva interna o internazionale. In questa nostra disamina non vogliamo certo confutare questa esegesi che appare senza dubbio corretta. Ciò che vogliamo fare è invitare chi si appresta alla lettura di Cecità (o il lettore che lo ha già letto e che torna al testo con la memoria) ad avvicinarsi alle pagine dell’opera con un differente pre-giudizio narrativo.

Ogni qual volta si è sul punto di iniziare un libro ci si trova sempre su una specie di orlo, di margine, e il testo che ci aspetta è il vuoto oltre quel limite. Su quel confine ogni lettore porta con sé una sorta di pre-concettualizzazione (gadamerianamente intesa) nell’attuare il circolo ermeneutico in cui il libro va al lettore ma al tempo stesso il lettore va al libro, predisponendosi ad aspettative, a sensazioni, a paesaggi. Ecco che allora ad ogni apertura di libro ci si accosta con un’inclinazione particolare, una sorta di desiderio emotivo, un’aspettativa differente a seconda del genere e del tipo di testo che si va ad incominciare. Questa predisposizione pre-giudiziale costituisce poi tutto il filo conduttore della lettura, come una sorta di binario su cui far scorrere, interpretandole e vivendole, le differenti immagini che la trama sviluppa. È come se si costituisse una sorta di gioco emotivo e dentro le regole di questo gioco si facesse “giocare” (nel senso inglese di play) la narrazione, la sua iconografia e il suo paesaggio emozionale.

Quando ci si accosta a un testo di Saramago, consci delle esegesi tradizionali, anche giornalistiche, dei suoi testi, ci si prepara soprattutto a un testo di analisi politica, antropologica, culturale, dove tutte le immagini presenti non sono altro che (facili) metafore per riflessioni sociali. Ciò che vogliamo fare in questa nostra riflessione, e che costituisce il nostro personale tributo e omaggio alla vita e all’opera del Premio Nobel portoghese, è liberarlo, de-contestualizzarlo dalla consueta e piuttosto paludata esegesi tradizionale che lo vuole solo autore impegnato e di matrice marxista. Vorremmo in queste pagine tentare, se non per tutta l’opera di Saramago quantomeno per Cecità, di aprire questo testo a letture alternative, lasciando che i paesaggi emozionali presenti possano fiorire liberamente senza essere de-potenziati in metafore sociali.

Se allora diventa possibile avvicinarsi a Cecità a partire da pre-giudizi diversi, altrettanto validi, ecco che allora diventa possibile invitare il lettore ad aprire la prima pagina di Cecità come se stesse per iniziare un libro di fantascienza. Vogliamo invitarlo a immaginare diverse copertine, meno seriose e più colorate, più di impatto fotografico e visivo, a immaginare di aver trovato il libro in un angolo di una grossa libreria, un angolo un po’ nascosto, appartato, quasi segregato, e di aver notato in alto sullo scaffale la scritta “Fantascienza” e di intraprendere il viaggio nel paese che sta per diventare completamente cieco, biancamente cieco, con una diversa predisposizione emotiva. Si lasci il lettore coinvolgere appieno nelle immagini e nell’iconografia usata da Saramago, la viva appieno, se ne lasci suggestionare, la senta propria, come un proprio tragico presente. Non sono solo metafore quelle che incontrerà, sono veri e propri scenari che dovrà percorrere fino in fondo, immergendosi e interagendo osmoticamente con ognuno, anche i più disturbanti e violenti.

Vorremmo – pur consapevoli del titolo originale – che il lettore viva il libro di Saramago non più come un saggio ma come un romanzo (di fantascienza) in cui calarsi completamente, in cui lasciare che il fenomeno possessivo della suggestione si attui senza barriere. Lasciamo che il lettore sprofondi nel territorio emozionale dipinto da Saramago quasi indifferente al fatto che quell’orizzonte ha una funzione analitica e di indagine socio-antropologica. Avrà certamente quella funzione ma solo dopo che il lettore sarà ri-emerso dal mare delle emozioni e avrà portato con sé tutto il vissuto esperienziale (l’Erlebnis) di un mondo devastato da un’epidemia di cecità bianca.

Questo è possibile perché Saramago ha utilizzato il meccanismo della fantascienza e tutta la sua consueta iconografia per “distruggere” il mondo in cui il lettore vive, il comune contesto di riferimento, e far giocare i suoi personaggi in una nuova realtà che andava via via costruendosi (e disfacendosi). Proprio per attuare questo meccanismo che aveva una finalità e un consapevole intento analitico, Saramago ha dovuto costruire un paesaggio emozionale forte, drammatico, violentemente suggestivo, un luogo costruito con le fotografie prese dal catalogo iconografico della fantascienza. La tradizionale ed ortodossa lettura di Cecità depotenzia questo sfondo iconografico ed emozionale; il paesaggio delle suggestioni diventa esclusivamente un pretesto: il luogo di vaghe metafore; tutta l’attenzione ricade esclusivamente sull’intento sociologico del testo e in questo modo vengono depotenziati anche i risultati e persino la stessa analisi sociologica compiuta ne risulta sterilizzata.

Saramago sembra dirci nel costruire Cecità che non si può fare indagine della realtà – “Saggio” – se non attraverso un vissuto emozionale coinvolgente, osmoticamente condiviso, compassionevolmente attraversato. Per comprendere in pieno le conseguenze e i risultati dell’indagine che Saramago compie è necessario che prima si sia “vissuto” il libro come un romanzo, un romanzo delle emozioni, delle immagini, dei drammi, dei personaggi, dei paesaggi, delle sensazioni e delle brutture. Serve riemergere bagnati dalla medesima pioggia che cade sulla città per quasi tutta la durata della narrazione per comprendere qual è il vero significato di questo testo, quali le sue finalità e quali soprattutto le sue tragiche previsioni.

Concludiamo questa nostra riflessione su Cecità. Chiari erano stati gli intenti iniziali, volutamente provocatori nell’interrogarsi sul fatto che uno dei testi più apprezzati e amati della letteratura contemporanea potesse essere “segretamente” considerato un libro di fantascienza, ovvero appartenente a un genere di nicchia, spesso svalutato e raramente ritenuto “all’altezza” di capolavori assoluti.

Ci siamo soffermati ad analizzare come il testo fosse costruito a partire da un marchingegno narrativo tipicamente fantascientifico (particolarmente frequente in Dick), come fosse zeppo di immagini prese a piene mani dall’iconografia più classica della fantascienza post-apocalittica, di come desse vita, proprio grazie a questa viva iconografia, a un paesaggio emozionale violento, vivissimo, disturbante ed estremamente compassionevole nel senso latino del termine.

Questo orizzonte empatico è stato considerato dalla tradizionale esegesi contemporanea solo come un accessorio, il luogo in cui l’autore depone metafore con l’unico obiettivo di consentire un’analisi sociologica ed antropologica cruda e disillusa. La cecità biancastra non letta come dramma individuale prima ancora che collettivo, come tragedia personale e affettiva, ma vista solamente come una metafora di una cecità sociale e politica, una cecità completamente de-umanizzata. Se è vero che l’obiettivo di fondo di Cecità è l’indagine di un’umanità suscettibile di ricadere nella legge della giungla, in un agire precedente alle categorizzazioni sociali e culturali, è altrettanto inequivocabile che questa analisi non può fare a meno del paesaggio emozionale che Saramago ha descritto con così grande forza ed impatto. Serve perciò immergersi, sprofondare sino in fondo, nel dramma che i personaggi stanno vivendo sulla scena di Cecità per poter comprendere quali sono gli esiti reali della riflessione di Saramago. L’alternativa è una sterile spiegazione di meccanismi già conosciuti che nulla dicono di originale e di “umano”.

Il nostro compito è stato allora quello di prendere le pagine di Cecità e, nel gettarle nel mare della fantascienza, liberarle da una lettura troppo asettica e sterile, e tornare a farle esistere per quello che costituiscono: un romanzo dell’umano prima ancora che sull’umano. Un romanzo di emozioni, di tragedie, di drammi, di sensazioni, di odori, vissuti dall’interno, non studiati in laboratorio. Un romanzo di fantascienza che descrive un mondo fin troppo vicino al mondo che vediamo ogni mattino dalla nostra finestra. Il nostro mondo.

Questo è il mio personale tributo a Josè Saramago, alla sua vita, alla sua opera.