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L'urlo del papa: i corpi ibridi di Francis Bacon

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Francesca Fuochi dedica un'accurata ricognizione critica all'opera e alla vita del controverso artista Francis Bacon e ai suoi punti di contatto con l'immaginario fantascientifico contemporaneo.

Indicò una riproduzione sulla specchiera di uno dei papi urlanti di Francis Bacon come se si riconoscesse in quel pontefice folle che aveva intravisto il vuoto nascosto dietro il concetto di Dio. Preso da uno strano impulso, un giorno aveva dato quella riproduzione a Cruise e gli era piaciuta tantissimo.
"Richard, dimmi un po': contro cosa sta urlando?"
"Contro l’esistenza. Si è reso conto che Dio non esiste e che l’umanità è libera. Ammesso che si sappia cosa significhi essere liberi".
(J.G. Ballard, Regno a venire, 2006)

Nel panorama artistico del Novecento, irrompe la figura di un pittore artisticamente efferato e dalla vita tumultuosa, un fuorilegge senza dio, un outsider che non si può racchiudere in nessuna facile etichetta, definito dal critico Robert Hughes "un pittore della sodomia, del sadismo, del terrore e della morte, il più duro, il più implacabile artista lirico del ventesimo secolo dell’Inghilterra, forse di tutto il mondo". È Francis Bacon.

La sua stessa vita è un collage caotico di stenti emotivi e degrado, di amore portato all'eccesso e disagio psichico, da un'infanzia in cui Francis è costretto ad assumere dosi di morfina a causa dell'asma congenita, a un'adolescenza nel nome del disprezzato e delle frustate del padre per la sua evidente omosessualità, per cui viene espulso dal college e cacciato definitivamente di casa nel 1926.
Lasciata Dublino, la sua città natale, Bacon peregrina tra Londra, Berlino e Parigi, mantenendosi con lavoretti precari prima e con l’attività di interior designer poi, e concedendo favori sessuali a uomini facoltosi. Questi sono gli anni della formazione artistica, completamente da autodidatta, durante i quali approfondisce surrealismo ed espressionismo, studia l'arte rinascimentale e del Seicento, ma in particolare rimane folgorato dal capolavoro di Fritz Lang, Metropolis, dal quadro La strage degli innocenti di Poussin e dall'urlo sulla scalinata di Odessa di La corazzata Potemkin di Eisenstein. È un altro, tuttavia, l'incontro fatale che gli mostra "tutto un territorio ancora, in un certo senso, non esplorato, di forme organiche relative alla figura umana che la distorcono completamente": le tele di Picasso, che lo iniziano alla pittura.

A 24 anni, nel 1933, espone la sua prima tela, Crucifixion. Fin da allora si manifesta in nuce la sua poetica, spinta man mano negli anni successivi alle estreme conseguenze. In quest'opera ogni valore devozionale del tema sacro viene annullato, la tela è dominata da una sorta di ectoplasma dalle ali fosforescenti e le braccia tese, ritto su una superficie cupa e monocromatica, delimitata da linee rette che suggeriscono una profondità misurata ma angosciante, riducendo il soggetto a "una lumaca che lascia una traccia della presenza umana".
Poco altro si sa del periodo anteriore al 1940, poiché l'artista stesso distrugge molti dei suoi lavori. È comprovata, invece, un'esistenza burrascosa, protesa sempre più al limite – nelle relazioni, nel bere e nel gioco (in particolare la roulette) – nella Londra del tempo, vivacemente attraversata da impulsi innovatori, benché il puritanesimo anglicano spadroneggiasse relegando formalmente tra i reietti i soggetti provocatori o trasgressivi. In quegli anni persisteva una grossa resistenza verso opere artistiche anticonformiste, al di fuori dagli schemi cristallizzati della tradizione e della morale, insieme a una radicata avversione di matrice religiosa contro la creatività e la fantasia.
Sono gli anni nei quali Bacon inizia ad interessarsi di fotografia e a subire il fascino del cinema espressionista, grazie ai film di Walter Ruttmann e F.W. Murnau, dei quali analizza il metodo di trasmettere l’angoscia esistenziale dei protagonisti con assoluta immediatezza.

La consacrazione artistica avviene nel 1945, quando la Lefevre Gallery di Londra espone il trittico Three Studies for Figures at the Base of Crucifixion, raffigurante cerulee creature urlanti, deformi, costrette in uno spazio reale ritagliato da una cornice geometrica che le rende ancor più stranianti, bestiali mutazioni della forma umana in un delirio di istinto animale. Oltre a riprendere la struttura classica del trittico (tipologia che congeniale a Bacon), le tre figure ritraggono la sua interpretazione delle Furie, le tre dee della vendetta della mitologia greca (Aletto, Megera e Tisifone), simboli del lancinante rimorso che scaturisce dai fatti di sangue più feroci, che puniscono crimini commessi oltre la giustizia umana.
Bacon dipinge l'opera alla fine della Seconda Guerra Mondiale: in una tela dall'acre forza visionaria, i tre esseri deformi sono metafora sul piano collettivo della corruzione dello spirito umano, la repulsione per la disumanità, ma anche un lamento per i morti e i sopravvissuti alla guerra, e sul piano personale una rivincita dei soprusi da lui stesso subiti. Lo sfondo del trittico è una sorta di palcoscenico di sangue carminio in cui i personaggi ridotti a carogne di vermi si accasciano, si piegano e frantumano, urlando il fallimento del loro esistere.

In un secolo terribile, apertosi pittoricamente con Les demoiselles d'Avignon di Picasso – cinque donne nude in un bordello – tocca a Bacon trasmettere il lato più oscuro o crudele del Novecento, attraverso i suoi corpi deturpati e macellati: "Come posso dipingere rose rosse nel secolo degli orrori?" dichiara Bacon nel secondo dopoguerra, ammettendo di aver cercato in tutti i modi di dipingere la bellezza di un sorriso, senza mai riuscirci.
Da allora si susseguono i dipinti divenuti celeberrimi ed esposti fin da subito nei musei di tutto il mondo. Tele dalla superficie grezza ma satura di colore, disseminata da grumi contorti di carne senza volto, larve umane di un tetro pallore ultraterreno, creature abbandonate al centro di uno spoglio spazio indeterminato. In altri lavori le figure emergono da un ottenebramento solforico, in cui imprecisabili forze trasformano le anime umane in mostri latranti di tormento. Le intelaiature nelle quali sono spesso collocate danno al pubblico l'idea di osservare uno zoo popolato di bestie umane, anzi, disumanizzate e brutali. Si pensi a Man Kneeling in Grass, Crouching Nude, Crouching Figure.
Bacon rimase sempre difficile da caratterizzare, scostandosi da tutti i sentieri battuti e rifiutando qualsiasi etichetta, benché trapeli l’assimilazione dell’influsso da Parmigianino a Tiziano, da Rembrandt a El Greco; è possibile che abbia appreso da Eadweard Muybridge, il pioniere della fotografia d'arte, la disposizione spaziale e da Michelangelo l'ampiezza e la grandezza delle forme. Opere che portano ai massimi esiti la lezione di Goya del suo periodo più oscuro, angosciato e visionario, lo strazio dell'urlo di Munch che dirompe oltre il corpo e le forme, l'aggrovigliarsi delle masse umane di colore di Schiele.

Nel 1946, Painting esemplifica una maturazione ancor più complessa e profonda. In questo capolavoro si staglia un individuo con un sorriso, o piuttosto una smorfia, e un ombrello sul capo, incastrato tra carcasse bovine e quello che sembra un banco dei testimoni. Bacon raccoglie qui molti dei temi e delle tecniche, ma anche degli assilli formali, che lo ossessionarono per tutta vita: l'uomo, l'animale e la carne che si fondono, sintetizzati nel suo verdetto "Siamo potenziali carcasse". Non vi è intento narrativo, ma un'istantanea rappresentazione assoggettata a qualche forza malefica, messa in risalto ancor più da una sorta di recinto in primo piano che isola dallo sfondo altrettanto allucinatorio, minaccioso, poco profondo. Il contrasto è reso non solo in maniera visiva, ma pure tattile grazie alla stesura piana e uniforme dello sfondo (lillà intenso, rosa e magenta incrementano il risultato), rispetto all'uomo e alle carcasse che sembrano materia fisica, imbrattata, viscere coagulate, per mezzo dell'applicazione con stracci, dita e spazzole o direttamente dai tubi.

In Bacon è ben distinguibile una netta tensione tra due poli: da un lato, la volontà di raffigurare e dunque di non essere astratto (egli rifuggiva fortemente l’astrattismo), dall'altro, di non "illustrare" o realizzare un'immagine lontana dalla rappresentazione. Raffigurare senza illustrare, ovvero utilizzando soluzioni capaci di rendere una registrazione più fedele possibile ma al contempo "straziante", non meramente realistica nell'apparenza, ma che pulsi di vita in tutta la sua disperata forza anche nell’artificio artistico. Si consideri lo splendido Man with Dog, autentica ode dell'assenza e del transiente: il padrone ridotto a uno spettro decapitato che fugge, ostaggio d'un guinzaglio invisibile che rincorre la fotografia mossa d'un cane proteso a sua volta sul gorgo soprannaturale di un tombino, che risucchia lo sguardo dello spettatore.
Fedele alla lezione di Valéry (“dare la sensazione, ma senza la noia di raccontarla”), l'arte deve carpire la realtà nel suo punto di massima concentrazione vitale, colpire direttamente il sentimento al di là della schermatura delle buone maniere, scuotendo percezioni diverse dalla mera osservazione dell'oggetto. Bacon, infatti, coglie il corpo nella frazione in cui si sta creando il movimento, lasciandolo esplodere verso l'esterno per mirare alla verità della carne.

Nel 1953, Bacon aggiunge alla sua produzione i numerosi ritratti dei papi, iniziando da Study after Vélázquez's Portrait of Pope Innocent X, noto anche come The Screaming Pope e considerato il suo capolavoro assoluto, basato sul ritratto papale dipinto da Velázquez – di cui era grande estimatore – nel 1650.
Ossessionato da questa immagine, tra il 1951 e il 1965 Bacon produsse circa quarantacinque variazioni del soggetto. L'ispirazione per la testa di Innocenzo X proviene proprio da una suggestione giovanile, il fotogramma tratto da La corazzata Potemkin che raffigura il panico di un ferito, i cui occhiali si frantumano si cospargendosi sul suo viso macchiato di sangue – un'immagine che racchiudere la sua filosofia: "la pittura è il modello del proprio sistema nervoso proiettato su tela".
Il Papa di Bacon troneggia in un mondo indefinito di tormento perpetuo, un inferno dal quale non c'è scampo, paralizzato dal dolore e dal terrore sul suo trono d'oro, che è stato tramutato da simbolo di autorità a strumento di tortura. La composizione ha il suo punto focale nell'urlo primordiale emanato dalla bocca del Papa, elemento che è il vero protagonista della tela: quasi tutto il viso spettrale e fin troppo simile ad un cadavere soccombe al buio, riducendosi solo a una bocca che si spalanca deforme in un grido. Lo sfondo è una cortina di ombre da cui emerge la figura del pontefice, davanti al quale, prima dello spettatore, scivola un velo, la cui trama deriva da esperimenti con i raggi X a cui Bacon spesso ricorre in quegli anni.
La carica scenografica, simbolica ed emotiva di questa tela diviene emblema di Bacon e della sua produzione, nonché delle possibilità insite nelle discipline artistiche di rendere emotivamente molto più del visibile. Il suo esempio colpì Carmelo Bene, il quale fa riferimento proprio a Bacon per spiegare visivamente il suo intento: così come Bacon trasforma la mole corporea facendola esplodere oltre i confini della carne, in un tentativo estremo di fuga dei corpi da se stessi, allo stesso modo Bene dà vita ad una deformazione dell'interpretazione vocale e verbale, una disarticolazione dell'atto linguistico che permetta di comunicare direttamente da un'interiorità (l'attore sul palco) a un'altra (lo spettatore).

Bacon, grande estimatore della fotografia, attinge copiosamente all'uso di immagini fotografiche, che "spesso funzionano come detonatori di idee". A differenza dei suoi contemporanei, non incolla sulla tela foto o loro frammenti, ma ne trae spunto per le sue raffigurazioni. In un periodo in cui cinema e fotografia aspiravano in modi diversi alla registrazione del reale, la pittura non può più limitarsi a una mera raffigurazione della realtà o a un accostamento di forme astratte, bensì deve preoccuparsi della presentazione di uno stato d'animo colto in fieri, nell'istante. Un altro suggerimento tratto dalla fotografia proponeva è lo studio del rapporto tra la figura e lo spazio pittorico, un rapporto sempre definito, in cui cubi e linee isolano figura e ambiente, come gabbie trasparenti.
Riprendendo lo schema del trittico, nel 1962 Bacon realizza Three Studies for a Crucifixion. Qui il corpo non è solo carne, bensì carne da macelleria pervasa da una particolare isteria trasmessa dalle torsioni innaturali, un "corpo senza organi", secondo l’espressione mutuata da Artaud. Il riferimento ad Artaud è d'obbligo, poiché la pittura di Bacon non è altro che un teatro della crudeltà, dei nervi scoperti, della "atletica affettiva della peste" di artaudiana memoria.
Elogiando Buñuel, d’altra parte, Bacon afferma che "qualsiasi cosa in arte deve sembrare crudele, perché la realtà è crudele", scatenando uno scontro di energie, Deleuze (riprendendo l’immagine di Artaud) afferma nel 1981 che la figura di Bacon non è "figurativa" perché non illustra "forme", bensì capta "forze".
E una delle forze colte da Bacon è l'orrore, non quello tradizionale che scatena ribrezzo e paura, ma qualcosa di più sottile e meno manifesto, che si cela dietro una composta apparenza: l'orrore è una pura sensazione che irrompe dagli antri reconditi dell'io, o, come scrive Ceronetti, dagli "gli abissi tenebrosi dell'essere". Oltre la maschera, al di là del "fascino discreto della borghesia" (per citare nuovamente Buñuel), il vero volto dell'uomo è una carogna emaciata in decomposizione.

Negli anni '60 i suoi ritratti cominciano ad avere le sembianze degli amici più intimi della swinging London del tempo: Isabel Rawsthorne, Henrietta Moraes, Lucian Freud, George Dyer. In particolare, il suicidio di Dyer nel 1971, il suo modello più dipinto e amato, lascia un segno profondo, con un immediato impatto sulla sua opera.
Le teste appaiono contorte, le figure isolate, rinchiuse nella tensione centripeta del corpo (come se la tela girasse disperatamente inchiodata ad una ruota invisibile distorcendo i corpi dai capelli fino alle dita dei piedi e più giù nel fondo dell’essere, mentre lo spettatore, incantato e inghiottito, è trascinato nello stesso vortice), lo sfondo spesso è blu china, le mani sono serrate, la bocca spalancata. La riproduzione conduce oltre le quinte dell'animo umano, una raffigurazione che non è idealizzata, ideologica o psicoanalitica, ma nichilista e in perenne mutamento.
Non vi è, però, niente di narrativo, tragedia o dramma, benché non si possa negare che il senso del tragico trapeli in opere quali le sconvolgenti effigi postume di Dyer, in cui emergono segnali di una lacerazione intima.
I ritratti di Dyer e Freud vogliono più di altri palesare brutalmente la fragilità della carne – e insistono che carne mortale è tutto ciò che siamo. In ciò sta la dicotomia tra l’intensità degli esseri e oggetti ritratti e la neutralità dei loro sfondi: i primi raffigurati con sovrapposizioni di tratti e colori (una specie di grumi magmatici), i secondi stesi in modo uniforme a dare l'idea di uno spazio teatrale quasi astratto, monotono, ove l'evento si manifesta nell’emergere di una presenza, ossia il soggetto raffigurato. Gli sfondi, dunque, sono parte integrante dell'opera, una sorta di valorizzatori, quasi a voler mettere in pratica la frase di Baudelaire secondo cui una metà dell'arte è "l’eterno e l'immutabile" e l'altra è la modernità, ossia "il transitorio, il fuggevole, il contingente". Deleuze definì la pittura di Bacon "aptica", ovvero che "tocca", per indicare un tipo di riproduzione che va oltre quella puramente ottica, per cui "lo sguardo, avanzando come il tatto, fa prova nello stesso luogo della presenza della forma e del fondo". Questo è il senso finale dell'isolamento assoluto delle figure e della loro costrizione in uno spazio serrato, claustrofobico, che tra tondi, ovali e parallelepipedi asimmetrici stringono e cingono la figura, tanto che la sua centralità nel quadro è un caso puramente topografico.

Bacon considera lo "scempio di immagine" l'unico modo di registrare la realtà, infierisce con ancor maggiore veemenza sui suoi stessi autoritratti, a rispecchiare l’interiorità dell'artista divenuto prigioniero del suo caotico studio, ormai simile a una scultura cadente di detriti cromatici e di resine, una tavolozza smembrata di porte insudiciate di pennellate nervose, lattine di pelati sventrate e colme di tintura, spoglie di giornali a terra, un cuscino inzaccherato di umori e il biancore freddo d'un paio di occhiali.
Le sue effigi deturpate suscitarono l’ammirazione del filosofo rumeno Emil Cioran, che asserì: "Non posso vedere un quadro moderno senza rallegrarmi per la scomparsa della faccia. Per quasi tutte le nostre scoperte siamo debitori alle nostre violenze. Persino Dio non lo scorgiamo nell’intimo di noi stessi, bensì al limite esterno della nostra febbre, esattamente nel punto in cui, la nostra rabbia fronteggia la sua".
Le potenze invisibili che agiscono nei quadri di Bacon sono forze che generano isolamento, deformazione e dissipazione. Le teste, più che i volti, sono esposte a pressione, dilatazione, contrazione e stiramento e originano grida, spasmi, mutilazioni, insanabili sofferenze. Bacon dipinge la testa cancellando il volto, diluendo nell'animalità i tratti così sbalzati. Nessuno scopo allegorico, ma una figura moltiplicata e sfaccettata carpita in una zona di indefinibilità, dove uomo e animale si impastano l'uno nell'altro. In questo modo egli rende la sensazione, "ciò che agisce direttamente sul sistema nervoso, che è fatto di carne", "l'unità del senziente col sentito": "L'occhio non fa altra esperienza che della scissione tra il visibile e l'invisibile; ci mostra il recta del mondo".
Questa è la frattura esistenziale ed epocale di cui parlò anche Michel Foucault in Che cos'è l'illuminismo?, sottolineando come l'essenza dell’atteggiamento moderno sia l'arduo gioco tra la verità del reale e l'esercizio della libertà, poiché "il valore del presente è indissociabile dall'accanimento con cui lo si immagina diversamente da come è e lo si trasforma per captarlo in quello che è".

Durante tutto il 1957, Bacon completa diverse varianti sul dipinto di Vincent Van Gogh The artist on the road to Tarascon, sperimentando lo stratificarsi di più superfici viscose abbacinate da una luce stridente. Il colore è acceso e sgargiante, la superficie maggiormente piatta e meno dipendente dalla prospettiva, i soggetti si trovano all'aperto. Nonostante il cambiamento di scenario, lo spazio mantiene una venatura claustrofobica e angosciante, convalidando la tesi che la sua pittura è un'eterotopia, per citare la formulazione di Foucault. “Un'eterotopia – spiega Foucault – è un'antiutopia. Infatti, se l'utopia è una speranza senza luogo, l'eterotopia costituisce un'eccedenza di realizzazione. Eterotopici sono quei luoghi che non necessitano di riferimenti geografici, sono i luoghi dell'attraversamento, spazi di crisi e di condensazione di esperienza”.
Questa serie di dipinti segna in un certo senso l'inizio della fine, benché Bacon abbia dipinto per altri trentacinque anni: l'autore e la sua opera divengono parodie di se stessi. "Io sono la persona più artificiale che si possa incontrare", ebbe modo di sostenere il pittore. Attivo nondimeno fino alla fine, Bacon muore il 28 aprile 1992 a Madrid per insufficienza cardiaca.

Se fin dalla sua consacrazione, Francis Bacon fu considerato un'icona e un artista di primo piano – successo aumentato dalla fama di "maledetto" e outsider – in grado di influenzare le arti del suo e successivo tempo, la sua poetica e il suo rappresentare la trasfigurazione dell’inquietudine, del dolore attraverso la carne, nonché l'irriconoscibilità di se stessi deformati dalle lacerazioni interiori, diventano spunti di eccezionale potenzialità straniante soprattutto in campo cinematografico.
Tra i registi debitori di tale lezione e accomunati da una sorta di metafisica dell'orrido, David Lynch ammette apertamente il fascino di Bacon. Il suo ascendente di tale pittore, insieme all'incontro con il film degli anni Trenta Freaks di Tod Browning, modellano le matrici espressive del suo cinema: sguardo lucido e spietato al limite del cinismo, l’indagine encomiastica dell’anomalia, dell’ambiguità dell’essere, dei doppi, del raccapricciante sotto l'apparenza, che tradusse in immagini e scene di tormento mentale e di alienazione a cui i protagonisti dei suoi film sono sottoposti a causa della loro situazione – emblematici in tal senso l'uomo elefante di The Elephant Man e Strade perdute, in cui si riconoscono chiaramente molti riferimenti visivi all'opera di Bacon.
Anche David Cronenberg mostra tracce della fascinazione baconiana per le carni e la loro corruzione, per incubi di menti malate che non distinguono tra finzione e realtà, spingendo il delirio dell'irriconoscibilità del sé ancora oltre, verso i territori più oscuri del "fantastico": l'umano non è più del tutto umano, ma un mutante, un ibrido (si pensi a eXistenZ e il corpo attaccato alla macchina da un cordone ombelicale, o alla creatura in movimento in cui si tramuta Seth Brundle in La mosca).

Se molte altre possono essere le citazioni e l’elenco delle influenze esercitate da Francis Bacon, in questa sede mi sembra interessante menzionare quella su J.G. Ballard. Lo scrittore si interessò alla pittura di Bacon – che ebbe modo di incontrare saltuariamente di persona – in particolare a partire dagli anni Cinquanta, rimanendone talmente folgorato da citarlo nel suo famoso I believe.
Scrive Ballard in Visioni: “Ricordo che scoprii Francis Bacon nei primissimi anni Cinquanta, quando era virtualmente sconosciuto e stava ancora lavorando a gran parte dei suoi capolavori. Veniva trattato con lo stesso disprezzo riservato ai surrealisti”.
La pittura di Bacon e la scrittura di Ballard (cosa che diventa particolarmente evidente da La mostra delle atrocità e – soprattutto – da Crash in poi) accedono entrambe alla sensazione. Il corpo non è messo in posa e in attesa di qualcosa che avvenga dall'esterno, bensì aspetta qualcosa proveniente dal suo stesso interno, un'esplosione che attraverso le urla, la bocca e gli organi permetta la fuga della carne da se stessa – aspirazione vana, poiché non vi è alcun orizzonte di liberazione, bensì l'eterna prigionia nella propria stessa esistenza, fino all'estrema decadenza, disfacimento, alterazione. Il corpo è in continua lotta con la propria struttura materiale, deformandosi e gridando dalla vita alla morte, fino a tramutarsi in altro da sé, uno specchio deforme dell’io in cui l’uomo non si riconosce più come tale. Le loro "icone neuroniche sulle autostrade spinali" gridano, danno vita ad una straziante e raccapricciante "mostra delle atrocità" (per citare emblematicamente il rinomato romanzo ballardiano), in un conflitto di amore-odio con il proprio io e il proprio corpo mutante, gettato in maniera impudente sulla scena, torchiato da movimenti convulsi, compresso dentro una gigantesca scatola di materiale plastico (le strutture baconiane e la televisione in Ballard) e così allo sguardo apatico dello spettatore.

Spettatore che siamo anche noi stessi. Noi, intrappolati in quelle stesse stanze claustrofobiche e spoglie delle scenografie baconiane, alla berlina di qualsiasi occhiata indiscreta e indifferente, sotto una luce esangue e funerea, unici testimoni del nostro ultimo residuo di umanità.