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Una passeggiata nell’opera di Tullio Avoledo

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Ripercorriamo l'opera letteraria di Tullio Avoledo con Alex Tonelli (e un'incursione di Salvatore Proietti), analizzando il lavoro dell'autore de L'elenco telefonico di Atlantide e cogliendo l'occasione di pesare l'influenza di Philip K. Dick e dell'immaginario SF anche sulla letteratura contemporanea italiana. - FF

Tutto ebbe inizio il 16 gennaio del 2003; era un giovedì freddo e piovoso e nelle edicole italiane usciva il Sette del Corriere della Sera. In copertina il volto di un signore di mezza età completamente sconosciuto ai più, e un titolo laconico: Tullio Avoledo: un nuovo Faletti? È così che il grande pubblico dei lettori italiani si accorge di questo autore friulano che aveva da poco pubblicato per i tipi della Sironi (piccola casa editrice milanese a due passi dall’Università degli Studi) il suo primo romanzo, dal suggestivo titolo L’elenco telefonico di Atlantide.

Tullio Avoledo, nato nel giugno del 1957 a Valvasone in Friuli e laureato in giurisprudenza, lavora da anni presso una banca di Pordenone. Il mondo bancario, rigidamente formale, politicizzato e governato da regole segrete, è stato spesso il contesto in cui ha fatto muovere i personaggi dei suoi romanzi. La leggenda vuole che L’elenco telefonico di Atlantide sia il risultato di un corso di scrittura creativa svolto dall’autore alcuni mesi prima della stesura del romanzo; furono gli esercizi assegnati ai partecipanti a portare Avoledo all’idea del libro e alle sue prime bozze. Se così fosse davvero non potremmo che ringraziare pubblicamente il docente di quel corso per aver fatto da levatrice a questo piccolo gioiello di narrativa.

La domanda più difficile a cui tentare una risposta circa L’elenco telefonico di Atlantide è quella sul suo genere: Fantascienza? Giallo? Spionaggio? Fantasy? Chiunque legga questo affascinante libro darà una risposta diversa, e questa risposta dipenderà, come un severo pregiudizio, da ciò che avrà voluto leggere. Un lettore di gialli ci ritroverà un giallo, un lettore di fantascienza un libro di fantascienza e così via, come se Avoledo avesse creato un libro che si plasma e trova la sua forma definitiva ridefinendosi sulle sembianze del lettore. Un libro simbiotico, potremmo dire, che tuttavia mantiene in modo significativo una cornice squisitamente fantascientifica, come se il mood di fondo del romanzo si fosse maturato nell’humus fertile del genere SF.

La trama è complessa e riassumerla non è di fatto possibile, e la narrazione al tempo presente aggiunge un ulteriore elemento straniante. Cerchiamo qui almeno di dare un quadro del contesto in cui si muovono le vicende narrate. Il protagonista è Giulio Rovedo (come non notare l’assonanza…), vive a Pista Prima, importante città del nord est italiano, lavora come legale per una banca del Friuli e abita in un misterioso e triste condominio denominato “Il Nobile”. Una vita tranquilla quella di Rovedo: lavoro, famiglia, moglie e figli, uno spaccato perfetto della alienata classe media italiana, la nostra alienata vita quotidiana, un uomo qualunque pieno di sarcasmo e di delusione per i sogni non realizzati, la monotonia e l’assenza di speranza. Un giorno, tuttavia, qualcosa accade. In realtà di cose ne accadono molte: la banca in cui il protagonista lavora, dal nome, un po’ farsesco, di Cassa di Credito Cooperativo del Tagliamento e del Piave, sta per essere assorbita da una fantomatica società chiamata Covenant Foundation; al “Nobile” arriva un nuovo, molesto e stravagante, vicino; la responsabile del personale della CCCTP, Cecilia Manzi, prima seduce il povero Rovedo e poi ne informa la moglie che lo sbatte fuori di casa. Piccole vicende apparentemente normali e insignificanti ma che assumono nella trama (o forse solo nella mente del protagonista) significati ulteriori, oscuri e minacciosi, indizi ermetici di una trama segreta, di un complotto esoterico. Rovedo crede che i manager della Covenant Foundation stiano in realtà mettendo in atto un piano oscuro per ritrovare l’Arca dell’Alleanza (sì, quella di Indiana Jones) e riportare al potere niente meno che gli antichi dei egizi (Anubi, Ra & C.), con espliciti riferimenti all’esoterismo nazista, il tutto innaffiato (non casualmente) dalla scoperta della Fonte della Giovinezza Eterna. Persino Martin Mystère (citato più volte nel romanzo insieme a Dick e Le Carrè) troverebbe complicato l’intrigo creatosi. Non sveliamo nulla del finale, se non che tutte le credenze che il lettore si sarà fatto durante la lettura del poderoso volume verranno prese, appallottolate, e gettate vie.

In un’intervista rilasciata a Federico Guerrini e Marco Capelli di Progetto Babele, Tullio Avoledo ci dà alcuni ulteriori dettagli sulla figura di Rovedo:

“Rovedo è un povero. Lavora in banca, è laureato ma in realtà appartiene al mondo dei poveri. Per questo è così cattivo e incazzato col mondo. […] Comunque il sarcasmo di Rovedo è il mio, ma non credo lo si possa definire cinico, in realtà è un moralista deluso. Niente di peggio di un moralista deluso”.

E ancora, nella medesima intervista, sulle banche e sul loro ambiente terribile e violento:

“La violenza che ho descritto nel romanzo è grottesca, esagerata. Quella che respiri ogni giorno nell’ambiente lavorativo è più sottile ma molto più insidiosa. È come un agente chimico velenoso ad azione lenta. Ma non è una caratteristica esclusiva delle banche. Succede lo stesso in qualsiasi grande azienda in cui le persone sono diventate ‘risorse umane’, ‘costo aziendale’”.

In questa nostra breve passeggiata nella produzione narrativa di Tullio Avoledo non ci soffermeremo in dettaglio su ognuna delle sue opere. Cercheremo piuttosto di fare una carrellata sulla sua produzione narrativa, lasciando al lettore la scelta del libro da cui farsi affascinare e sedurre. La collaborazione con la casa editrice Sironi dura fino al 2005 e porta alla pubblicazione di altri due romanzi, Il mare di Bering del 2003 e Lo stato dell’unione del 2005.

Avoledo non smentisce la regola non scritta per la quale il secondo romanzo di un autore-rivelazione è piuttosto deludente. Così Il mare di Bering tradisce un poco le aspettative (forse troppo alte) del lettore. In questo libro Avoledo si cimenta a pieno titolo con il genere dell’ucronia, ovvero fa accadere gli eventi in una realtà alternativa simile alla nostra ma con qualche variante di natura geo-politica, accentuando così l’elemento fantascientifico già presenti nell’Elenco.
Protagonista del romanzo è Mika, venticinquenne un po’ scapestrato senza un lavoro fisso e che campa vendendo tesi di laurea. Suo padre, un tempo ribelle (sessantottino?) oggi è un bancario rancoroso e senza ideali (un perfetto Rovedo) che nulla chiede più alla vita. Mika vivacchia in una routine ripetitiva e rassicurante sino a che un ricco magnate del nord-est italico non gli commissiona una laurea ad honorem per la giovane e bella amante. Coinvolgendo due vicini malavitosi, Mika si infila in un ginepraio di vicende un po’ grottesche e un po’ complottiste. Pian piano che la narrazione prosegue ci accorgiamo che le vicende narrate sono inserite in una realtà alternativa, dove il potere è in mano a donne (leaders in gonnella spietate e crudeli) e che il testo più stampato è l’opera omnia di un certo Joseph Goebbels.
A una domanda diretta su questa realtà alternativa basata sulla leadership delle donne Avoledo, nell’intervista già citata, risponde:

“Era solo un gioco, un’ipotesi scherzosa, ma secondo me non troppo lontana dalla realtà. Fra Bill Clinton e quella sputafuoco di sua moglie chi comandava veramente, secondo te? E guarda la famiglia Bush Jr: un uomo e tre donne. Guarda una foto di gruppo e dimmi chi comanda in quella famiglia. Per trovare maschi in posizioni veramente dominanti devi uscire dall’occidente”.

Avoledo pare aver trovato già in questo suo secondo libro una cifra stilistica costituita da uno stile espositivo estremamente fluido e piacevole e da una grande abilità nel mescolare episodi della più comune quotidianità a vicende più grandi, ampie e che coinvolgono (forse solo apparentemente) i destini del mondo intero. Questo Il mare di Bering riesce però solo a metà a trovare quell’originalità e quella freschezza che erano l’elemento caratterizzante (e in fondo la ragione del successo inatteso) dell’Elenco.

Nel 2005 esce, ultimo per la Sironi, Lo stato dell’unione, spaccato perfetto del sentimento separatista di alcune aree del Nord Est italiano letto in chiave fantapolitica. Il titolo cita un dimenticato film del 1948 di Frank Capra, in cui il regista di La vita è una cosa meravigliosa mostrava le molte sfaccettature drammatiche del Potere e della Politica made in USA. Protagonista del romanzo di Avoledo è Alberto Mendini, pubblicitario cinquantenne un tempo sulla cresta dell’onda e ora ingrassato, quasi calvo e disilluso, ma che non smette di inseguire i sogni luccicanti degli anni d’oro: denaro, macchine di lusso e soprattutto donne e donnine. La vita sembra offrirgli una seconda chance quando l’assessore alla cultura della Regione (che parrebbe proprio una sorta di Friuli) gli chiede di organizzare la campagna per l’“Anno dell’identità celtica”; poco importa se da quelle parte i Celti non ci sono mai neppure passati.
Entrato nel progetto dell’“Identità Celtica”, Mendini scopre ben presto che tra le sue pieghe si annida un’organizzazione separatista che mira a fondare uno stato indipendente del Nord-Est su principi violentemente razzisti guidata da un novello Hitler, il Governatore austriaco del Mittelmark. Il protagonista si trova così coinvolto in una vicenda surreale con morti che parlano, esperimenti di psicofonia, astronauti americani (che si chiamano Neil) esiliati in Italia e che sostengono che lo sbarco sulla Luna del ’69 è tutto un trucco degli americani, giovinette assatanate e partiti politici dal nome evocativo di “Italia in marcia”.
Non ci vorrà molto a Mendini per capire che quella offertagli dall’assessore non è la sua seconda possibilità ma un vortice di menzogne e pericoli dal quale sarà ben difficile uscire fuori tutto intero. E come per estensione la spirale di inganni e minacce si estenderà ben oltre la singola vita di Mendini, allargando le sue spire sempre più, fino a un finale in cui l’Apocalisse sarà globale, assoluta.
Dei primi romanzi di Avoledo Lo stato dell’unione è quello che ha la più chiara e evidente risonanza con la narrativa di Philip Dick, autore a cui Avoledo si richiama spesso e in maniera manifesta, e che sarà nei libri successi (soprattutto L’anno dei dodici inverni) fonte di palese ispirazione narrativa e stilistica.

Nel 2005 Avoledo lascia la piccola casa editrice milanese per approdare a uno dei grandi nomi dell’editoria italiana, Einaudi, che ristampa le tre opere precedenti. Il primo nuovo libro con la Einaudi è un testo decisamente atipico: Tre sono le cose misteriose. Se, infatti, finora le opere di Avoledo giocavano su temi e su generi legati al fantastico (nel senso più aperto possibile), questo è totalmente un romanzo realistico e senza nessuna deriva surreale o onirica, scritto per collocarsi a pieno titolo fra i romanzi “seri” della narrativa italiana e non fra quelle “canzonette” dei romanzi fantastici.

“Ci sono tre cose misteriose,/ anzi, quattro, che non posso intendere:/ la traccia dell’aquila nel cielo,/ la traccia della serpe sulla roccia,/ la traccia della barca in mezzo al mare,/ la traccia dell’uomo nella donna”.

Questi sono i versi tratti dal libro biblico dei “Profeti” che angosciano il protagonista del romanzo; sono i versi che era solito ripetere l’amico e collega, Nathan, saltato in aria con la moglie e la scorta per aver incastrato il “Mostro”, un capo di stato colpevole di genocidi. Il protagonista, Sostituto Procuratore senza nome del Tribunale Internazionale per i crimini di guerra, è ora solo ad affrontare la requisitoria contro l’imputato, il Mostro che, nascosto in un paese della Svizzera con la moglie e il figlio, protetto da un drappello di guardie, si prepara con angoscia crescente al giorno dell’udienza e alla sua requisitoria. Tutto è apparentemente pronto, le prove sono dettagliate: filmati, testimonianze, documenti, le foto delle fosse comuni; ma prima dell’udienza finale il protagonista sente il bisogno di affrontare altro, di chiudere un lungo cerchio che è passato anche attraverso la morte dell’amico e collega. Il protagonista fa i conti con la realtà, quella per lui vera di ogni giorno, della scorta, della paura di attentanti e della morte, del desiderio di voler stare col figlio e vederlo crescere, del rapporto con la moglie Chiara, dei loro silenzi, dei loro imbarazzi, delle domande che restano inespresse.
Il romanzo si svolge in pochi giorni, in un crescendo continuo di tensione che non si scioglie mai e che pesa, cupo e tetro, sul lettore, in ogni pagina. Una narrazione costruita su due fili intrecciati, annodati, da un lato la preparazione della requisitoria con i dettagli delle stragi compiute dal Mostro, dall’altro l’indagine personale e intima del protagonista nella propria realtà, un lento disvelamento sincero delle menzogne su cui la propria quotidianità era costruita.
Tre sono le cose misteriose è stato insignito di alcuni importanti riconoscimenti come il Premio Super Grinzane Cavour del 2006 ed è arrivato in finale al premio Stresa lo stesso anno. Tuttavia, resta nel lettore affezionato di Avoledo la sensazione di un testo voluto, cercato con una certa insistenza, ma non spontaneo, quasi costruito. È come se Avoledo, approdato a una grande casa editrice, abbia voluto cimentarsi con un testo adulto, ricercato, con l’intento di un’affermazione ulteriore che non fosse più del vasto pubblico di affezionati lettori (e compratori) dei suoi libri ma che fosse soprattutto un riconoscimento dell’intellighenzia culturale italiana. Ovviamente questa è solo l’impressione personale di chi scrive, semplice lettore, ma che potrebbe trovare una certa conferma nel fatto che in tutti i romanzi successi Avoledo abbandona questo stile “realistico” e ritorna prepotentemente (e sempre in modo più marcato) al genere fantastico e fantascientifico attingendo a piene mani alle atmosfere dickiane.

Il secondo romanzo per Einaudi è del 2007, Breve storia di lunghi tradimenti. Giulio Rovedo (ve lo ricordate?), impiegato bancario dalla vita borghese e mediocre, con una moglie inflessibile e stanca, si trova coinvolto, suo malgrado, in una enorme fusione aziendale che coinvolge anche la sua banca. Per qualche strana ragione gli viene chiesto (ordinato) di recarsi in Indonesia per sbrigare alcune faccende di lavoro; ad accompagnarlo è Cecilia Mazzi, giovane, provocante e misteriosamente piena di talenti, nuova responsabile del personale della banca. Sullo sfondo quello che sembra essere un complotto, una trama segreta, di dimensioni planetarie ma che si rivela, forse più in questo romanzo che altrove, una costruzione e una paranoica invenzione.
Breve storia di lunghi tradimenti potrebbe essere una sorta di riscrittura di L’elenco telefonico di Atlantide, visto però da una prospettiva nuova, non più dall’alto del complotto e delle misteriose trame che gravano sulla vita del protagonista, quanto piuttosto dal basso, osservando le scelte quotidiane, i sentimenti di ogni giorno, le delusioni di Rovedo ma anche delle persone che lo circondano, persino della super-woman Cecilia Mazzi, i dubbi e le follie del tradimento coniugale, le delusioni e la rabbia della moglie, lo sguardo perso dei figli, sino ad un finale doloroso, che pur mantenendo fede alla promessa fantastica del romanzo, chiude la vicenda come un comune dramma borghese, fatto di miseria e di profonda solitudine.
Tra i romanzi di Avoledo, questo Breve storia di lunghi tradimenti è certamente un’opera matura, complessa e toccante. Sembra quasi che Avoledo abbia trovato il giusto compromesso fra i temi narrativamente fantastici, anche se un po’ naif, dei primi libri, con la pomposità un po’ forzata di Tre sono le cose misteriose, in uno stile personale e peculiare che caratterizza con grande forza (ed efficacia) le opere successive che portano l’autore friulano alla piena maturità di scrittore.

Tra le opere senza dubbio più complete, affascinanti, suggestive di Avoledo vi è La ragazza di Vajont del 2008, un testo denso, non di immediata lettura e interpretazione, dove ancora una volta l’elemento fantastico serve per disegnare una trama in cui sono le emozioni (la malinconia su tutte) a essere le vere protagoniste.
Leggendo questo La ragazza di Vajont emerge con chiarezza ed evidenza che l’intenzione dell’autore non è più quella di raccontare una storia, avvincente, divertente, grottesca come nelle sue prime opere, di intrattenere, ma piuttosto di soffermarsi ad osservare una quotidiana vicenda in un mondo altro, distopico, doloroso, una vicenda che è la storia di un uomo e dei suoi sentimenti per una ragazza: la ragazza di Vajont.
Il protagonista si aggira fra le rovine di un mondo alla deriva, schiacciato da un’antica pulizia etnica che non ha lasciato nulla di intatto e i cui esiti sono devastazione e miseria. Un mondo altro, rispetto al nostro presente, un mondo deturpato dove l’Africa è un territorio radioattivo e le invenzioni tecnologiche più importanti mai avvenute.
Il luogo delle vicende è un’Italia irriconoscibile, regredita a una tecnologia anni ‘70 e attraversata da un odio sommesso mai placato. È come se l’Italia del progetto dell’”Identità Celtica” si fosse realizzata e se ne vedessero le tetre conseguenze. Il protagonista è un uomo dalla memoria difettosa, personaggio che mischia ricordi a presente e forse anche a speranze di un futuro irreale e che ha avuto un ruolo centrale nella presa di potere della dittatura che domina in Italia: storico dell’Olocausto nazista, i suoi testi sono divenuti manuali tecnici per la ripetizione fedele e spietata dell’orrore.
Immerso nella neve un piccolo paese, Vajont, un centro di sfollati costruito per accogliere i superstiti della tragedia della diga, divenuto poi ricettacolo di uomini senza patria, senza destino e capitati lì per caso, è lo scenario in cui si muovono i personaggi, ambigui, grotteschi ma umanamente così reali.
In questa quotidianità fatta di visite mediche, cura o forse origine di un male segreto, il protagonista maschile si imbatte in lei:

“un ciuffo di capelli biondi le vela lo sguardo. Così che gli occhi sembrano guardarti da lontano, dalle profondità di qualcosa”.

E gli incubi che si nascondono, quasi fisicamente, nella lunga cicatrice sul petto dell’uomo riaffioreranno, sprigionandosi da un cuore che non è più il suo.

La ragazza di Vajont è un libro pieno di emozioni, un libro triste, melanconico si sarebbe detto una volta, un libro che è una riflessione sullo stare dell’uomo esistenzialmente nel proprio tempo e in questo tempo (qualunque esso sia, crisi economica o meno che sia) cercare, nonostante tutte le brutture e gli orrori intorno, di costruirsi un ritaglio di pace, di felicità. Come direbbe Michel Houellebecq (fonte palese dello stesso Avoledo): cercare la possibilità di un’isola.

Del 2009 è L’anno dei dodici inverni, il testo sfacciatamente e dichiaratamente più dickiano di Avoledo, tanto da far sì che l’autore californiano sia apertamente non solo citato ma in qualche modo presente in una specie di cameo narrativo con, niente di meno, una religione a lui ispirata.
La trama: 1982, una grande casa immersa in un inverno gelido e nevoso. Un uomo, un vecchio, bussa alla mano d’ottone a forma femminile della porta di color verde. La casa è abitata dalla famiglia Grandi, Emilio, Esther e la piccola Chiara, nata l’inverno precedente. Il vecchio alla porta dice di chiamarsi Emanuele Libonati e di voler scrivere un saggio sui bambini nati nel natale dell’anno passato e Chiara è una di questi. Tornerà il vecchio a casa Grandi una volta all’anno per una visita di poche ore in cui osserverà Chiara crescere e farsi grande. Libonati diverrà in queste sue visite amico dei Grandi e ne raccoglierà, come un confessore itinerante, le segrete delusioni, le confessioni e i desideri più intimi.
Pochi anni dopo Emilio Grandi muore a causa delle radiazioni di Chernobyl, Libonati, che tante cose misteriosamente sa del futuro, lo aveva avvertito, ma inutilmente. Esther e Chiara sono sole e la loro vita cambia, sterzando verso una povertà e una miseria improvvise. Ma a un certo punto la loro vita pare cambiare, quasi improvvisamente, svoltando verso una prosperità e una ricchezza piovute dal cielo senza alcuna ragione. Alcuni fatti, alcune vicende paiono non essere mai accadute ed altre accadute al loro posto, compravendite di profitto effettuate, allontanamento di amici che nascondevano orchi dentro di sé, nuovi incontri, amori… fino al matrimonio felice di Chiara.
A fianco a questa trama se ne sviluppa un’altra: 2028, Londra, città devastata da una guerra combattuta con armi da videogioco (Fallout 3), un vecchio bussa alla porta del tempio della Divina Bomba (tempio costruito seguendo alla lettera i racconti, i mondi immaginati, le storie e le profezie del Profeta, Philip K. Dick), ha una proposta per uno scambio. Salvare una vita, rendere una vita diversa, migliore, più felice, anche se questo significa far scomparire quella vita, così importante, così amata, dalla propria storia, dalla propria biografia, dalla propria memoria. In cambio consegnerà alle alte gerarchie della Chiesa della Divina Bomba una lettera che un ragazzo sconosciuto gli consegnò nel lontano 1982 e che comincia così… “Dick’s last will…”.
Così Libonati, anziano poeta, grazie alla tecnologia impossibile della Chiesa viaggia nel tempo, per pochi minuti soltanto ma in quei minuti interviene nelle vite di Esther e Chiara cambiandole, inserendole in un nuovo percorso, un cammino che avrà esiti felici e prosperosi. Una diversa linea temporale che ne annullerà l’altra, precedente e drammatica, quella in cui Emanuele Libonati, professore, avrà conosciuto e si sarà innamorato di Chiara Grandi, e per lei avrò perso tutto, la moglie, i figli, gli amici. Tutto pur di vivere la fiamma di quel sentimento assoluto, quell’amore che brucerà veloce sino alla vampata finale e tragica: la morte di Chiara.
Per tutto il resto della vita Libonati non farà che pensare a questa ragazza e a un amore che è troppo grande, tanto grande da sacrificarsi pur di dare la felicità mancata a Chiara e con essa ridarle la vita.
Ancora una volta Avoledo usa gli strumenti e le infinite possibilità della narrativa di genere, del fantastico, della fantascienza, per costruire una storia di ogni giorno, una vicenda che potremmo leggere, paradossalmente, negli occhi delle persone sedute di fronte a noi in metropolitana, la storia di un amore che non si può dimenticare, la storia di un sentimento che travalica il tempo e in esso apparentemente viaggia, la storia di una seconda opportunità, una chance (questa sì preclusa a noi uomini di carne e ossa) di rimediare agli errori commessi, alle scelte sbagliate, la possibilità di donare di nuovo una felicità assoluta, di martirizzare il sentimento per preservarlo in eterno e nel farlo, renderlo sacro, divino. L’anno dei dodici inverni è un libro di fantascienza, e allo stesso tempo è un libro dei nostri sentimenti.

"Facendosi la barba, quel mattino, Francesco Salvador si era tagliato due volte. Non gli capitava spesso. Quel giorno era più nervoso del solito. Anche se ancora non lo sapeva, quello sarebbe stato l’ultimo giorno felice della sua vita”.

Pubblicando nel 2008 L’ultimo giorno felice per la piccola Edizioni Ambiente, Avoledo accetta la sfida di un’opera a tema, o meglio, di un romanzo che si vada ad inserirsi in un progetto editoriale che raccoglie le principali firme del giallo (e non solo) italiano, commissionando loro un lavoro con una semplice linea guida: Verde e Nero, Verde & Noir.
Francesco Salvador è un brillante architetto, sposato con una bella moglie, padre felice di due bambini, possessore di un grosso SUV e di una giovane e disponibile amante. Un perfetto infelice uomo borghese del nord-est che scopre all’improvviso che la patina di ricchezza in un cui vive è frutto di un sistema credule, corrotto e mafioso. Lo aveva sempre saputo, forse, ma aveva tentato di negarlo fino al giorno in cui il sistema stesso non bussa alla sua porta e gli chiede il conto. Quel giorno, in gita tra le isole incontaminate della laguna veneta, Salvador vive l’ultimo giorno felice della sua vita.
In questo breve romanzo ritroviamo molti dei contenuti e dei tratti stilistici, curati e attentissimi, di Avoledo. Nel seguire l’ultimo giorno felice di Francesco Salvador in un intricato e delittuoso intreccio eco-mafioso e rivisitiamo i paesaggi e i luoghi cari ad Avoledo, tra tutti il Friuli. Vi è però in questo libro un tema poco presente nelle altre opere, o forse non così marcatamente presente e deliberatamente esposto. La componente etica assurge in questo romanzo a un ruolo da protagonista. Non si tratta di un’etica moralistica ma di un’osservazione cruda e giudicante di una certa borghesia del nord-est, arricchita e senza scrupoli, indagata in queste pagine nel suo autodistruttivo compiacimento.
Un opera politica, molto più delle altre, dove, certamente, la componente sociale resta fondamentale ma dove il protagonista è sempre il singolo di fronte alle sue sventure quotidiane. In questo L’ultimo giorno felice il focus dell’obiettivo è indirizzato verso uno schietto atto d’accusa di un modo di vivere, individualista, egoista e basato solo sulla felicità dell’attimo presente. Felicità che un bel giorno, l’ultimo, scompare. Per sempre
. Per un mini-dibattito su questo libro, ristampato a inizio 2011 dalla Einaudi, lascio anche la parola al co-curatore di Next-Station Salvatore Proietti, che ne dà una lettura a caldo, e che lo ha molto apprezzato:

La trama di L’ultimo giorno felice – insolitamente breve e tutto sommato lineare – è, in superficie, poco direttamente “politica” (infinitamente meno, per esempio, di Lo stato dell’unione): una storia familiare, centrata sul rapporto fra un figlio socialmente “arrivato”, ambiguamente pieno di autogiustificazioni per una vita sostanzialmente vuota, tronfio e soddisfatto figlio di una contemporaneità “da bere”, e un padre morente, aggrappato a un rapporto atavico con la terra. Sullo sfondo, le prospettive dello sfruttamento del materiale degli argini di un fiume, e dello smaltimento dei rifiuti industriali, emblema di pratiche che tanti dissesti hanno generato nell’Italia (sur)reale in cui viviamo. L’economia semi-criminale dell’imprenditoria italiana rimane un’allusione, obliqua e mai investigata a fondo nelle sue dinamiche interne. Anche in questo contesto Avoledo rimane uno scrittore poco interessato al realismo classico. Piuttosto, il dissesto socio-economico viene esplorato sotto forma di dissesto psichico, di rapporti interpersonali inquinate dalle scorie del rancore, dell’amarezza, della gelosia e dell’avidità. Le emozioni, allora, sono la cartina di tornasole di un disastro più generale. E di scorie e detriti della memoria sono pieni i momenti più riusciti del romanzo. Avoledo, così, scrive un romanzo che dirige il faro contro il degrado presente senza evocare rimpianti per un passato (per le generazioni e le culture che hanno reso possibili i nostri sfaceli) impossibile da idealizzare, in cui anche gli affetti portano in sé il germe della delusione. Per restare al fantastico, siamo nei territori rabbiosi di Lino Aldani (no future, no present, no past), che andrebbero riletti, piuttosto che in quelli melensi di Mauro Corona, pseudo-maestro di vita buono per tutti gli usi dei talk-show. E in qualche momento, mi pare di intravedere qualcosa del Dick realistico, come L’uomo dai denti tutti uguali. Come Dick, Avoledo si sta costruendo un suo personale repertorio, e sono certo che personaggi e oggetti dell’Ultimo giorno felice torneranno a farci visita.

Gli ultimi progetti a cui Avoledo ha lavorato e sta lavorando sono un romanzo scritto a quattro mani con il tastierista e fondatore dei Subsonica, Davide Boosta di Leo, dal titolo Un buon posto per morire, edito sempre da Einaudi e la recentissima adesione al progetto di Dmitry Glukhovsky, Metro, con il romanzo Le radici del Cielo.
In Un buon posto per morire Avoledo e Di Leo raccontano di un futuro in cui un asteroide, il Sole Nero, si sta velocemente dirigendo verso la terra minacciando con il suo impatto di estinguere ogni forma di vita sul pianeta. La storia corre veloce verso una trama di un fanta-thriller: omicidi, indagini, leggende millenarie, invenzioni futuristiche, un pizzico di distopia, agenzie paragovernative, il tutto in un incalzante sequela di colpi di scena e con un finale mozzafiato degni del miglior (peggior?) Dan Brown. Un libro di intrattenimento questo Un buon posto per morire la cui pretesa è di far divertire, ritrovando il piacere di una narrazione veloce, fluente e avvincente. Ovviamente non è però l’Avoledo scrittore a cui abbiamo dedicato questa passeggiata ma una sua versione minore in salsa videogioco.
Pubblicato in Italia dalla Multiplayer, il progetto di Dmitry Glukhovsky è iniziato con il poderoso Metro 2033 e proseguito con Metro 2034; da lì si è sviluppato per coinvolgere autori che non fossero solo russi, con romanzi ambientati e ispirati dalle medesime atmosfere apocalittiche di Metro. Citando un bell’articolo apparso su Fantasy Magazine del sempre attento Emanuele Manco potremmo dire che agli autori internazionali è stato chiesto di raccontare cosa sarebbe successo nei loro paesi a seguito dell’apocalisse di Metro.
Il libro, che dalla casa editrice danno in uscita per Novembre 2011, è ambientato fra Roma e Venezia e a questo proposito Avoledo dice in un’intervista a Cristina Donati e Francesco Coppola apparsa su Fantasy Magazine:

“Roma mi serviva per le catacombe e per la presenza del Vaticano: se c’è una forza capace di sopravvivere per la capillarità dei contatti e per l’esperienza che possiede, è il Papato. Venezia è una città affascinante, l’ho immaginata senza più acqua, ho raccontato come può essere l’attraversare canyon di fango secco, vedere le palafitte dei palazzi crollati che formano una specie di foresta di alberi pietrificati, le gondole affossate, gli anelli preziosi, buttati in mare durante secoli di cerimonie, che riaffiorano scavando”.

Della trama già si conosce qualcosa ma crediamo di poter attendere una prossima uscita di questa nostra fanzine telematica per aggiornare il lettore in modo più approfondito su come il nostro autore friulano ha interpretato le vicende di Metro 2033 e di come è stata la nostra, italica, apocalisse.

Si va concludendo questa nostra passeggiata nell’opera di Tullio Avoledo, non abbiamo voluto, come in altre occasioni, compiere un’indagine esegetica profonda ma piuttosto tornare con la memoria, e con infinito piacere, ai libri di questo imprevedibile scrittore, ricordandone le sensazioni, le trame, le emozioni che nascondevano in sé.
Tullio Avoledo è uno di quegli autori che scrivono per essere semplicemente letti e riletti, non è necessario che sulla sua opera si compia chissà quale opera di ermeneutica del testo, semplicemente è sufficiente accostarsi alla magia della lettura e avere, con un’assoluta chiarezza, la certezza di scrigni che si aprono e di mondi che si presentano, di sensazioni e di avventure, di inaspettata fantasia e di riconoscimento (catartico) della propria individuale biografia.
Se tutto questo è compiuto dall’autore friulano grazie anche all’uso sapiente dell’elemento fantastico, non può che essere un’ulteriore testimonianza del potere espressivo e narrativo che la desinenza “fanta” (fanta-qualunque cosa) ha in sé e che può ancora esprimere.
Avoledo ha saputo così creare, anche grazie all’uso di più di un pizzico di fantastico, una forma di narrativa che è una comunicazione diretta, schietta e sincera, con il lettore: ogni libro, più riuscito o meno che sia, è sempre una promessa, la promessa di un viaggio nelle emozioni e nella fantasia, nella nostra vita e nel più imprevedibile altro-universo.