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Death in June live, Roma 10 dicembre 1991

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Quarta tappa nel cammino di riscoperta degli eventi live in un periodo di transizione dalla New Wave verso il Gothic e l'Industrial. Questa volta accompagniamo Sandro Battisti lungo le onde sonore del tempo fino al 1991. A Roma approdano i Death in June...

Il momento delle grandi occasioni. Ancora una volta potevo assistere a un evento cui non si poteva mancare per una serie di ragioni che, enunciate rapidamente, si condensavano nel concetto espresso molto sobriamente da un volantino in bianco e nero, con su una croce: 10 dicembre 1991, Uonna Club, Death in June in concerto. A Roma.
Chi ha avuto la fortuna di conoscere il Uonna Club sa cosa voleva dire vedere un concerto – molti di quelli che si tenevano lì dentro erano definibili come “cult” – in quell’angusta discoteca, posta nello scantinato di un palazzo sulla via Cassia, ritrovo di tutto l’ambiente dark e alternative dell’epoca tra fine ’80 e inizi ‘90; anche in quella occasione il palco era costituito da quattro (non di più) assi di legno montati alla meglio, e tutto il pubblico era praticamente addosso ai musicisti, tre personaggi: Douglas Pearce, David Tibet e un percussionista di cui non ricordo nulla.

Ripeto: Douglas Pearce e David Tibet. Insieme. La stessa sera. Al Uonna. Con non più di cento persone accalcate su se stesse e sui DIJ.
Provate a immaginare la scena apocalittica di quella sera, con l’ingresso del locale stile entrata garage, in discesa, riverbero di poche persone in attesa di quella band così particolare nel dicembre 1991, a pochi giorni dal solstizio d’inverno. Tutto poteva apparire come il propiziare un rito eretico, disturbante, qualcosa presente nella fascinazione perversa della band perché una delle potenti immagini evocate dai DIJ riguardava il nazismo, la sua parte più nera, magica, ineffabile. Ascoltando i loro dischi sembrava di percepire la guglia di un iceberg la cui parte sottostante era un magma spaventoso e mostruoso, che non doveva e non deve in nessun caso venire romanticizzato, e che invece i DIJ hanno spesso fatto (con occhio commerciale) usandolo poi come pretesto per costruirsi intorno un alone di unicità pericolosa, causa di molte accuse di apologia nazista.
David Tibet e Douglas Pearce venivano da percorsi culturali diversi, anche se non così diversi. Poste le loro basi nel dark post-Joy Division e nella rinnovata attenzione per il folk, avevano altre matrici culturali nel richiamo della cultura industrial, nell’estremizzazione totale che ha nella figura di Genesis P. Orridge, dei suoi Psychic TV e, scavando scavando, pure nell’esoterismo di Aleister Crowley – matrici presenti e operanti nel sottobosco culturale da cui entrambi gli artisti venivano fuori, con peculiarità anarcopunk per Pearce che, purtroppo, aveva derive tali che lo portarono a ricercare fonti di ispirazione nei regimi totalitari vigenti intorno alla Seconda Guerra Mondiale e oltre, traendo inquietanti ispirazioni per delle nefandezze tali che pesarono sulla sua carriera, come macigni, per anni. Da notare che Pearce, sulle note biografiche che lo riguardano, gioca un po’ con i paradossi, per cui può risultare un gay allo stesso tempo affascinato dall’ebraismo e dedito al nazismo.
Per un po’ di tempo, quindi, i due artisti camminarono insieme sotto il brand Death in June, pure se Tibet aveva anche il suo sviluppo parallelo con la band Current 93, che tuttora si dichiara impegnata in una ricerca legata allo studio crowleyano dell’energia.
Se ora voglio consegnare il nazismo alla discarica della storia, la continua ricerca di un rapporto in grado di unire il non visto – in tutte le sue espressioni energetiche – con gli aspetti vitali dell’umano e del cosmo è uno dei motivi della mia esistenza all’interno del Movimento connettivista. E in questo mio fondamento trovo affascinante l’interesse nel far fuoriuscire la parte più scura, più ineffabile e apparentemente più irrazionale – se non fosse che la Fisica quantistica, ma anche per il Paradigma Olografico, hanno posto in collegamento le immagini fornite da alcune credenze mistiche dell’antichità con le nuove scienze – che spunta prepotentemente dai lavori di Pearce e Tibet. Quello che il Positivismo pensava di aver distrutto fin dalla fine dell’800 (il fattore non scientifico) è tornato prepotentemente in superficie, e non dovremmo lasciarne il monopolio alla violenta occupazione degli spazi di regimi e governi da parte di vecchi e nuovi nazifascismi. Il razionalismo non è più visto dalle discipline scientifiche di frontiera come negazione del misticismo, bensì come complemento.

Tornando ora alla serata al Uonna, all’epoca era uscito da un po’ di tempo il disco The Wall of Sacrifice, e l’alone di mistero ed esoterismo nero che vi si respirava, sporcato da quelle fastidiose macchie di nazismo che i decenni non cancelleranno facilmente, si stendeva sulla loro aura. Misticismo nero, e voce dal profondo della Seconda Guerra Mondiale, che permettevano – e permettono tuttora – soltanto di chiudere gli occhi e andare lontano con l’anima, nell’abisso dell’orrore. Douglas Pearce era gentilissimo, le sue movenze erano misurate; Tibet, invece, era un vulcano che non permetteva alla lava di fuoriuscire, ma ne lasciava intuire l’enorme irruenza e inquietante magnetismo. Così, dopo un’intro strumentale, i DIJ snocciolarono in un’ora e mezza abbondante una serie di pezzi che, riletti ora, mi danno brividi e intense emozioni: quasi non riesco a credere di aver assistito all’esecuzione di una tale scaletta. All’intro seguirono, quindi, Hallo Angel, Leper Lord, Heaven Street, Torture by Rose, Giddy Giddy Carousel, Come before Christ and Murder Love, Break the Black Ice, Rocking Horse Night, She Said Destroy, Fall Apart, Runes and the Man, Behind the Rose, Bringing the Night, C'est un Rêve, Happy Birthday Pig Face Christus, Coal Black Smith, In Sacrilege (con Tibet in solo acustico e Douglas di spalle al pubblico). Quanto a Tibet, fui folgorato da quell’uomo. I suoi occhi erano di un rosso psichico che bruciava l’anima. Gentilissimo anche lui, nei modi lasciava sottendere qualcosa che i cristiani non esiterebbero a definire diabolico. Io, dopo averlo osservato suonare il basso elettrico in un modo dissonante – esponeva lo strumento direttamente ai woofer, generando un terremoto di feedback sonoro insidioso e appena udibile, ma catastrofico – rimasi a bocca aperta dopo l’ultimo pezzo (In Sacrilege), perché Tibet l’aveva eseguito con tutta l’anima, con una mimica che puntava a immedesimarsi nel mood del brano, a chinarsi e a espletare il proprio ego con l’ausilio di tutto il corpo, delle mani e delle dita, con qualsiasi cosa servisse a farci capire cos’era la canzone, cos’era lui, chi era con lui e in lui. Appena finito il concerto cercai Pearce, a cui chiesi di Tibet. Quest’ultimo, dopo poco, si presentò a me; gli feci i miei complimenti, ancora in estasi per ciò che aveva eseguito, e domandai come potevo contattarlo in futuro. Mi diede, scritto di suo pugno, un bigliettino con su una casella postale. Quei suoi occhi mi accompagnarono a lungo, nei giorni successivi, come se avessero fatto uno scan profondo alla mia anima; fui a lungo indeciso se scrivergli o meno, ma qualcosa dentro mi invitò caldamente a tenermi lontano da quell’uomo, e da ciò che si nascondeva – non troppo – dietro ai suoi occhi così psichicamente rossi: a quei tempi ero semplicemente attratto dall’occulto, non ero pronto a tuffarmi nelle esperienze esoteriche.

Dopo quell’acme emozionale ho continuato a seguire sia Tibet che i DIJ, non in modo continuativo, però; sono andato anche ad altri loro concerti, ovviamente eseguiti non più insieme: Douglas Pearce, diventato ormai l’unico componente della band, si è buttato ormai da tanti anni sull’acustico puro e un suo concerto diviene presto straziante, monotono, senza fine, mentre Tibet sviluppa continuamente i suoi Current 93 e dà risultati empatici stupefacenti, come trasmissione del pensiero e diffusione della propria energia, abbandonando tutto quel nero che esprimeva nel ’91, al culmine dei suoi esperimenti crowleyani.

Risorse in rete

Death in June
Current 93
Psychic TV
Aleister Crowley
Industrial