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Istanbul, città del futuro

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Un reportage letterario dal Bosforo, una raccolta di barlumi futuri colti lungo le strade della Porta d'Oriente.

Volendo pensare lo scibile come un sistema nervoso diffuso, l'urbanistica ne rappresenterebbe un ganglio scoperto, una connessione nervosa di architettura, sociologia, filosofia che – dall'idealismo di Le Corbusier alle più recenti ArchiStar come Rem Koolhaas – si è spinto verso una vera e propria congestione teorica di modelli interpretativi: città-cosmo, sistema, albero, città-meccanismo, organismo e così via.
L'immaginario fantascientifico qualche volta ha seguito le tendenze urbanistiche, qualche volta no; alcuni esempi sono l'unicum urbano de La città e le stelle di Arthur C. Clarke, le città devastate e le topografie metafisiche di Philip K. Dick, la claustrofobica “Città di Concentramento” di J.G. Ballard, fino allo Sprawl di William Gibson e alla recentissima Beszel/Ul Qoma di China Miéville, senza escludere l'archetipo di città futuristica filmato nelle sequenze di Blade Runner e riprodotto in un'infinità di altre pellicole.
Al di là di qualsiasi modello o narrazione interpretativa, il rapporto tra le città e chi le abita rappresenta una delle connessioni più significative e interessanti nel progettare, su qualsiasi livello, il futuro. E in una contemporaneità in cui lo slogan “No Future” smette di essere una provocazione punk-rock e sembra diventare paradigma della quotidianità globale, esiste una città che, nonostante tutto, ha ancora il potere di proiettarci nel futuro: Istanbul.

Facile pensare a Istanbul come emblema urbano dei dualismi, sospesa com’è tra due continenti, sviluppo e decadenza, impero e repubblica, laicità e religione, internazionalismo e difesa di una giovane e fragile identità nazionale.
Quella che fu Costantinopoli ha un volto e un corpo che la distinguono dalle altre metropoli e il suo carattere è proprio nel manifesto paradosso di non averlo, o di non volerlo mostrare o ancora, banalmente, di non averne uno solo. Da questa prospettiva, Istanbul appare come la disincantata ammissione dell’ambiguità del genere umano. Senza per forza voler attraversare il Bosforo, per averne esperienza basta percorrere lo spazio che separa Sultanhamet da Beyoglu, ovvero dall'esotismo da cartolina dei minareti della Moschea Blu e dei labirintici Bazar fino a Istiklâl Caddesi, la lunga via che, percorsa nel caos umano che la popola di notte, ha la forza di proiettarti in un non luogo che estende i propri confini da Parigi a New York passando per Genova.
Una natura paradossale confermata dalle case bruciate e i vuoti pieni di macerie tra un edificio e l’altro del quartiere Fatih. Entropia e rinascita contemporanee. Essere o non essere qui non è un problema. Forse è stata proprio questa luminosa decadenza a colpire gli occhi e la mente di Samuel R. Delany, che a Istanbul ha ambientato “Aye, and Gomorra”, racconto incluso nell’epocale antologia Dangerous Visions a cura di Harlan Ellison nel 1967 e vincitore del premio Nebula per lo stesso anno, in cui l'omosessualità è raccontata attraverso la metafora dei viaggi spaziali:

La pioggia era cessata, e prendemmo il traghetto su per il Corno d’Oro. Appena sceso, Kelly chiese di Piazza Taksim e Istiqlal e gli venne indicato un dolmush, che scoprimmo essere un taxi, però va in un solo posto e raccoglie sempre più gente lungo la strada. E costa poco.
Lou cambiò strada sul Ponte Ataturk per vedere il panorama della Città Nuova. Bo decise di scoprire cos’era in realtà il Dolma Boche; e quando Muse scoprì che poteva andare in Asia per quindici centesimi (una lira e cinquanta krush), be’, Muse decise di andare in Asia.
Mi infilai nella confusione del traffico allo sbocco del ponte e salii oltre i muri grigi e gocciolanti della Città Vecchia, sotto i fili del tram. Ci sono delle volte in cui urlare e far casino non riempie il vuoto. Ci sono dei momenti in cui bisogna camminare per conto proprio perché fa così male essere soli.
Percorsi una quantità di piccole strade piene di asini e cammelli bagnati e donne velate; e una quantità di grandi strade con autobus e bidoni della spazzatura e uomini in giacca e cravatta.

Delany coglie alla perfezione la sfumatura di tristezza che Orhan Pamuk ricorda fin dalla sua infanzia a Istanbul, e che l’autore turco pone al centro della sua tavolozza dei colori per dipingere una città che, nell'ultimo secolo, ha vissuto il crollo di un Impero e una rivoluzione nazionalista, più precisamente quella “condizione della mente che la città ha assimilato con orgoglio, o almeno così pare. Per questo è considerato un sentimento sia positivo che negativo”.
Istanbul appare anche in Neuromante (1984), sempre sfocata dalla stessa, malinconica pioggia, anche se nel romanzo di William Gibson si può cogliere una nota diversa, qualcosa che ha meno a che fare con la poesia dei sentimenti e più col sanguinoso registro del conflitto e con le fredde trame del potere. Qualcuno ricorderà i protagonisti Case e Molly, partire da una piovosa Beyoglu e giungere presso Topkapi, il palazzo dei Sultani:

Adesso la Mercedes attraversava frusciando Istanbul, mentre la città si svegliava. Passarono la stazione del metrò di Beyoglu, sfrecciando quindi attraverso un dedalo di secondarie deserte, tra condominii fatiscenti che a Case ricordavano vagamente Parigi.
«Cos'è questa roba?» domandò a Molly quando la Mercedes parcheggiò presso i giardini che circondavano l'harem, fissando con occhi apatici il barocco conglomerato di stili che era il Topkapi.
«Era una specie di bordello privato del re» spiegò la sua compagna, scendendo per sgranchirsi le gambe. «Ci teneva un sacco di donne. Adesso è un museo. Un po' come il laboratorio di Finn. Tutta quella roba è semplicemente ammucchiata là dentro, grossi diamanti, spade, la mano sinistra di Giovanni Battista…»
«In vasca nutritiva?»
«Oh, no, è morta. L'hanno infilata dentro una mano di ottone, con uno sportellino sul fianco, in modo che i cristiani potessero baciarla perché portasse loro fortuna. L'hanno sottratta ai cristiani un milione di anni fa, e non hanno mai spolverato quel dannato affare perché è una reliquia infedele».
Un cervo nero di ferro arrugginiva nei giardini dell'harem. Case le camminò a fianco, osservandole la punta degli stivali che schiacciava l'erba incolta, irrigidita dal gelo del primo mattino. L'inverno era in attesa, in qualche punto poco lontano dei Balcani.

Guardando le spade e i pugnali dei sultani ottomani cui Gibson fa riferimento, così intarsiati di pietre preziose e ornamenti, si può pensare che su quelle lame non sia mai scivolata una sola goccia di sangue, trattandosi per lo più di oggetti cerimoniali. Falso. Chi li stringeva in mano o li portava attaccati alla cintura poteva decidere con una sola guerra lo sgorgare di immense cascate ematiche, così come del resto le oscure entità politico-economiche e tecnologiche raccontate in Neuromante possono disporre del destino degli esseri umani senza colpo ferire.
Nelle ipotesi di futuro di Delany e Gibson, Istanbul rimane comunque sullo sfondo. È uno scenario, non ha l'anima del protagonista di una narrazione. Per porla al centro di una prospettiva basterebbe dunque cercarne l'essenza, al di là delle idee di superficie che la contornano come decadenza, dualità, molteplicità e paradosso.
Ma l’anima di Istanbul è in definitiva un dilemma insolubile. La sua sostanza e, forse, la sua ragione d’essere è tutta qui: non essere a nostra immagine e somiglianza, mai del tutto. Siamo troppo convinti di vivere in città che siano emanazioni dirette di chi le abita. Questa metropoli pare aver maturato un’identità sua, che tiene gelosamente celata, così come pure una sua propria volontà.
Istanbul è l'emblema di una realtà che credevamo solida – fatta di strati di pietre, storia e sangue – e da cui invece ci stiamo scollando. E la perdita di questo senso è una delle autostrade che sta portando l'umanità verso il suo futuro a tutta velocità. Che poi sia tornata a essere sul suolo di una nazione che potrebbe decidere gli equilibri prossimi di Oriente e Occidente, si può ignorare.
La nostra corsa verso la non-realtà è già iniziata e non si può fermare.

Le traduzioni sono di:
- Paolo Busnelli per “Aye, and Gomorra”, di Samuel R. Delany, Robot N° 35, Armenia Editore
- Semsa Gezgin per Istanbul, di Orhan Pamuk, Einaudi
- Giampaolo Cossato e Sandro Sandrelli per Neuromante, di William Gibson, Mondadori

Fotografie di Francesca Dattilo.