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Terre morte
di X
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Il cielo all’orizzonte si è ormai scurito, azzannato dalle fauci della sera, quando in prossimità dello svincolo di Metaponto decelero e mi appresto a imboccare la 106 Ionica. Dall’autoradio la voce camaleontica di David Bowie si lancia in una sequenza di acrobazie melodiche a cavallo di un riff elegante, spietata linea di basso che percorre obliquamente la mia percezione. Come la direttrice trasversale della regione, anche questa sua costola litoranea è pressoché deserta. I cartelloni pubblicitari ai bordi delle strade lanciano i loro sofisticati richiami commerciali nel vuoto pneumatico sopra l’asfalto, sirene dell’era del consumo abbandonate a un progressivo esaurimento.
Mi ritrovo a pensare allo scopo del mio viaggio. Venti poesie per descrivere un itinerario che non è solo uno spostamento geografico, ma soprattutto un tragitto interiore nei luoghi della memoria distrutti dal disastro del Cinque. Venti poesie per il prossimo numero di Onda IX, e forse un’ossatura per la mia prossima silloge. Al momento posso contare su un misero abbozzo di Metaponto e Siris, frammenti estrapolati da vecchie istantanee sbiadite, nient’altro. E la scadenza è per la fine di questa settimana.
Il paesaggio che si specchia sulla 106 è ancora più desolante dello scenario che ha accompagnato finora questa mia discesa agli inferi. Penso che mi sto lasciando suggestionare un po’ troppo da tutta questa situazione – gli avvisi, il silenzio, l’abbandono – e torno a concentrarmi sulla strada. Sono ancora indeciso se recarmi direttamente in albergo e rinviare la visita a mio padre all’indomani, oppure arrischiare una timida deviazione e consumare subito la spinta personale del mio lungo viaggio. Supero un incrocio custodito da una jeep dei Carabinieri – semafori spenti incombono fieri sul crocevia, totem di un’epoca post-industriale che svettano con arcaica maestosità nel crepuscolo – e la coppia di pattuglia mi degna di uno sguardo enigmatico, il messaggio dei loro occhi criptato dalle lenti a specchio dei Ray-Ban d’ordinanza.
Un paio di chilometri più avanti mi decido a svoltare prendendo una scelta che è più un riflesso condizionato che il frutto di una valutazione immediata. La mia consapevolezza non fa nemmeno in tempo ad accennare la sua protesta per il cambiamento di programma, che su questa secondaria interpoderale il destino mi viene incontro sulle ali della notte.
Emersa dalle ombre lunghe della sera, la minaccia informe mi si para innanzi con la crudele calma degli eventi irrevocabili. La correzione di traiettoria e velocità giunge in ritardo. Sento gli artigli delle gomme graffiare l’asfalto crepato, poi il ruggito si spegne nello schianto.
Dall’autoradio, frammenti di rock vecchi di trent’anni vengono a galla dal ronzio cacofonico che si mescola nelle bande a radiofrequenza. Lascio che la mia anima si addormenti avvolta nel rumore di fondo che invade l’etere…
Rumore bianco.
Un oceano grigio. Note che increspano la superficie.
Onde quantiche, nella notte che avanza.
La gabbia delle possibilità.
– Amico?
Il vuoto.
– Ehi, amico!
Una lenta dissolvenza.
– Amico, dico a te! Niente di rotto?
Quando riapro gli occhi, per una frazione di secondo le mie sensazioni colgono una realtà distorta, traslata verso il labile confine con il surreale. Nessuna traccia dell’indaco spirituale che fino a un attimo fa ha riempito il firmamento con la potenza di un crepuscolo in riverbero. Una luce dorata acceca i campi di grano ondeggianti sulla mia testa, adesso. E il cadavere composto della vettura è un sarcofago cromato abbandonato nel letto di cemento di un canale di deflusso.
Un timido sciabordio sorge da qualche parte, vicino a me. La voce dice: – Tutto bene?
Mi scuoto dal torpore, mentre le immagini vengono riassorbite nella sfera della percezione – e vedo un piccolo angelo davanti alla mia faccia.
– Amico… scusa, non ti avevo visto, vieni fuori di lì – mi dice porgendomi la sua mano quasi inconsistente, confusa col sogno com’è. La sua pelle ha il colore della cenere e i suoi occhi brillano di una luce antica.
A fatica mi tiro fuori dalla carcassa dell’auto. Resto attonito a contemplare il suo corpo di metallo vinto e inerte, tristemente abbandonato.
Matematica di aggressione e desiderio disinnescato… Realizzando lo stato della macchina – intrappolato come in una prigione psichica nel profilo contorto del paraurti anteriore – mi viene voglia di sacramentare. Mi trattengo, forse ispirato da quella assurda forma di reverenza che riesce a impadronirsi dell’animo dei sopravvissuti. Tiro fuori il cellulare per comporre il numero del soccorso stradale, ma una scarica di statica è tutto quello che riesco a strappare ai numi delle telecomunicazioni.
– Quegli aggeggi non funzionano qui, amico – mi informa il bambino. – Potrai chiamare aiuto quando saremo giunti a casa…
– È lontana da qui?
– Non preoccuparti, amico – mi rassicura premurosamente. – Lania si prenderà cura di te, io mi occuperò della macchina.
L’euforia elettrica scema e io mi decido a seguirlo. Alzo lo sguardo al cielo: l’orologio del mondo sembra tornato indietro di almeno un giro di lancette. La luce di un’ora prima risplende intorno a me e penso che il trauma deve avere innescato qualche oscuro meccanismo sensoriale, acuendo le mie percezioni. È più facile che credere che il tempo abbia potuto invertire la sua rotta.
Ma la sera non tarderà, anche stavolta. Così non c’è altro che possa fare. Mi inerpico sul pendio, maldestro, dimentico dell’agilità degli anni di gioventù. La mia guida, invece, si muove tra i campi con la sicurezza di uno spiritello silvano, un piccolo fauno conoscitore dei luoghi e dei loro arcani.
– Che ci fai da queste parti? – gli chiedo prestando attenzione alla misura dei suoi passi.
– Da queste parti? – mi chiede il ragazzino, senza capire. – Ci vivo…
La nostra camminata tra le spighe sembra protrarsi per l’estensione dilatata di un pellegrinaggio. L’aria salmastra combinata agli strascichi della botta mi ha seccato la gola. Quando scorgo la geometria mediterranea di mura bianche emergere dalle onde dei campi, comprendo che il viaggio è giunto alla fine. Sento montare il fervore estatico del devoto alla meta.
– Siamo arrivati – conferma la mia giovane guida. – Entra pure, io ti raggiungo dopo…
– Dove vai?
Ma lui è già svanito nelle ombre della sera. Resto a fissare immobile il debole barlume di una lampada a olio che rischiara l’interno dell’abitazione, animando di riflessi i vetri delle finestre. Nell’aria, per la prima volta, realizzo l’odore intenso della cenere e della sabbia bruciata che da lungo tempo deve avere sostituito l’aroma variegato delle colture intensive. E il silenzio. Le cicale hanno smesso di levare i loro canti alla luna, più o meno nello stesso momento in cui le radiazioni hanno cominciato a erodere il rigoglio delle piantagioni. Non ne resta che l’eco del ricordo, ormai.
Avanzo timidamente verso il portico e la porta socchiusa. Sulla soglia, una voce suadente mi accoglie.
…confondendo memoria e desiderio, risvegliando le radici sopite con la pioggia di primavera. – dice sprofondando l’anima in ogni parola e nelle pause che scandiscono la musicalità dei versi.
Il rumore dei miei passi la interrompe. Il tempo sembra essersi riversato fuori dalle stanze di questa casa con la stessa facilità con cui la sabbia soffiata dal vento le ha invase, colmando quel vuoto. Nella penombra un movimento di grazia sovrannaturale.
– Mi scusi – esordisco non proprio brillantemente. – Ho bisogno di aiuto: ho avuto un incidente, e…
La ragazza mi guarda con distacco. Qualcosa nell’espressione vaga del suo viso riesce a catturare la mia attenzione. Dico: – Stia tranquilla, suo fratello non si è fatto nulla. Mi ha accompagnato lui, qui…
– Mio fratello… – ripete lei. – Si occuperà lui della macchina. Beva qualcosa. Vuole che chiami qualcuno? Dal presidio ci metteranno un po’ ad arrivare…
– Un bicchiere d’acqua andrà bene, grazie.

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