Sorseggiamo limonata ghiacciata seduti sul portico della vecchia casa. Le stelle intessono in cielo la trama scintillante della notte. L’atmosfera, nel raggio di chilometri, resta cristallizzata in una immobilità totale. Si sente appena la risacca delle onde lambire la spiaggia, qualche centinaio di passi più in là, nel buio. L’unica nota di movimento nei dintorni è data dalle scie luminose intrecciate dalle lucciole nelle tenebre. – Non è più molta la gente che passa da queste parti. Non fatico a crederlo. – Scommetto che si era perso – sorride candidamente. – È facile smarrire la direzione nelle terre morte… – Come? – Questi campi inariditi, lo scenario desolato… è facile perdersi, se non si conoscono i luoghi. Qui un tempo viveva molta gente: dopo l’incidente quasi tutti hanno deciso di andar via. E adesso le strade sono in uno stato di abbandono quasi totale… Le lucciole continuano a ordire traiettorie fluorescenti nella notte, ripetendo la consueta danza della morte artisticamente mascherata da schermaglia amorosa. – Non è proprio che non conosca questi posti. Quaggiù ci sono cresciuto. Ero di passaggio. Pensavo di fare una visita a mio padre. – Non credo di conoscerlo. – La ragazza mi scruta con dolcezza, dandomi l’impressione di aver afferrato tutti i risvolti oscuri delle mie parole. – Immagino che sia successo prima dell’incidente… Annuisco. – Già, prima di tutto questo. Voi, piuttosto, cosa ci fate ancora qui? Perché non avete abbandonato la terra insieme agli altri? Prima che mi risponda, colgo un riflesso argentato sulla sua guancia, subito assorbito dalla vivacità degli occhi. – Ha qualche importanza? – ribatte. Non credo. – Piuttosto, non ti ho ancora chiesto il tuo nome… – Anche questo… – Replica Lania. – Ha qualche importanza?
Il suo corpo nudo sporgeva avanti come un bizzarro oggetto da esposizione: la sua anatomia era una ardita combinazione di violenza e desiderio, epifanie di piacere incandescente creavano un’intensa eccitazione attraverso la sapiente modulazione di dolore e sessualità. Nel silenzio planetario seguivo la ninfa lungo gli argini rocciosi, per i palazzi di carne e di ossa che componevano la struttura della sua armonia organica. Gemiti sommessi, pulsazioni cardiache e la successione aritmica del respiro scandivano la continuità fisica della scena. Un silenzio ancora più intimo e viscerale tornò a regnare tra le pareti intonacate, in quella morena terminale delle emozioni che tratteneva in sé i residui della memoria e del rimpianto. Scivolando lungo le morbide linee del suo corpo, realizzai la perfezione della figura di donna incastonata nella connessione delle superfici delle stanza, elemento costitutivo della geometria temporale perduta delle terre morte. Passai il resto della notte a guardare il cielo, ascoltando la musica temporale dei quasar.
Al mattino, nella luce candida e lattiginosa che piove dal cielo, mi sveglio sotto lo sguardo antico di un vecchio intabarrato. Mi scruta impassibile dall’altra parte della finestra. La faccia riarsa dal sole è l’unica parte del suo corpo esposta al giorno: il tempo, i campi e la fatica vi hanno scavato solchi profondi come crepe nell’argilla. Parla, ma non sento la sua voce. L’azzurro dei suoi occhi riverbera gelido nella mia anima. È tempo di andare. Ancora una volta mi lascio guidare attraverso i campi di spighe secche inondate dall’oro liquido del cielo. Seguo il vecchio su per i pendii screpolati, in dirupi scoscesi e tra pianori argillosi. Finalmente, ci addentriamo nella frescura ombrosa di una pineta. Continuo a seguirne i passi sui residui vegetali del sottobosco e quando infine lo perdo di vista mi lascio guidare dall’eco dei suoi movimenti. Il sentiero si inerpica sulla schiena di un promontorio. Ormai non riesco più nemmeno a sentire i passi del vecchio che mi precede. Cammino, trasportato da una forza di richiamo che mi era sconosciuta. Cammino e continuo a salire. Un passo dopo l’altro, appoggiandomi ai tronchi dei larici e dei pini. Un passo dopo l’altro, pensando alla visita che da anni avevo promesso al ricordo di mio padre. Scrivere è come morire, penso: eccomi qua. Cammino e continuo a salire e nel frattempo una manciata di parole emerge da abissi oscuri, da cui credevo di essere fuggito per sempre.
Esala dai campi deserti, spargendosi per coste e per valli, lo stanco sospiro d’autunno. Echi remoti riverberano lungo gli antichi sentieri, linee occulte tracciate nei boschi. E dalle pietre dimentiche avvolgenti si levano in coro i canti perduti dei morti.
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