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Stormi in picchiata
di Marco Moretti

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Nato a Seregno (MI) nel 1966, Marco Moretti è laureato in Fisica Ambientale e appassionato di fantascienza. Suoi racconti sono apparsi su Next (ricordiamo "La vendetta biologica", nella Iterazione 13) e nell’antologia Avanguardie Futuro Oscuro ("L’abbraccio di Sedna").
Come il William Hope Hodgson de
La casa sull’abisso, in "Stormi in picchiata" Moretti recupera un frammento di apocalisse onirica. Un incubo sospeso tra classicismo iconografico e letterario, tra catastrofe ecologica e psichica. A velocità superiori al flusso di coscienza, la morte esplode al centro del nostro immaginario dell’orrore, sempre arcaico e da sempre postmoderno.
In una lettura pubblica di una versione del racconto in una sera di fine estate, l’interpretazione di Moretti è stata capace di scuotere l’atmosfera di una tranquilla biblioteca sprofondata nel Polesine, e di colpire e affascinare alcuni redattori di
Next Station. - FF/X

Inghilterra. La costiera del luogo un tempo conosciuto come Diacono di Sale. Saltdean. Davanti a me, circospetto e pieno di paure, una villa romana.
I pavimenti della grande sala erano a scacchiera, un motivo davvero insolito. Lo spazio era delimitato da un colonnato arioso. Sentivo su di me l’aria gelida: gli antichi Romani non conoscevano le finestre di vetro: ogni spazio di quell’antica dimora era aperto. Gruppi di statue ornavano i vari aditi. Riconobbi motivi che neanche la mente umana più delirante aveva osato ritrarre prima. Il Cesare Caligola, scolpito nel marmo, sembrava vivo. Alcune sculture lo mostravano nell’atto di ingerire le scorie delle sue molte amanti, mentre in un pezzo davvero unico era impegnato a discorrere con un mostro marino.
Ogni passo mi sembrava una mossa cruciale su una scacchiera ontologica; se avessi indugiato oltre, sarei rimasto paralizzato come l’asino di Buridano. Panni violacei ornavano un grande letto disfatto, la cui fattura era indubbiamente moderna. Non capivo il significato di quel luogo, che non avevo mai visto in vita mia. Forse era il prodotto allucinatorio di qualche mio dimenticato furore bacchico, il residuo di un cattivo viaggio che non voleva saperne di estinguersi, riverberando all’infinito sul pelo della mia autocoscienza martoriata.
Mi sembrava che il tempo fosse congelato. Stavo vivendo, anzi vegetando tra le quinte del Tempo. Non potendone più, uscii da quell’ambiente malsano, tornando sulla via del lungomare che pareva abbracciare l’Infinito, tra massi erratici eiettati da un vulcano in epoca preistorica.
Alzai gli occhi verso la volta celeste. Un ammasso di nubi impenetrabili la rendeva assolutamente grigia, una massa di cervella infette estratte dal cranio del gigante Ymir, viranti al nero in uno scenario di decadenza apocalittica. Strali sulfurei si coglievano all’orizzonte, proprio dove il mare plumbeo moriva, risucchiato dal denso orizzonte degli eventi di un buco nero.
Camminando lungo il viottolo, contemplai per qualche ora i cavalloni del mare ruggente. Masse di acqua grigia come palta, mostruosità eruttanti che parevano sfidare lo stesso principio della mia creazione. Più il cielo si contaminava nel nero petrolifero delle sue sfumature, più le masse bianche di calcare si stagliavano nitide. Il vento spirava talmente forte da darmi fastidio. Sibilava contro i miei timpani, portando cristalli di ghiaccio meteorico sul mio volto antico e petrigno.
Mi rapì un’improvvisa ondata di stanchezza. Bagliori remoti iniziavano ad accendere le nuvole. Fuochi fatui infiammavano le chiome del Dio della Tempesta, ne coglievo l’ultimo balenare giallastro proprio dove la tenebra diurna tendeva ad accumularsi. Tale era il muro d’ombra davanti a me, che decisi di tornare sui miei passi.
Giunto di nuovo nei pressi della villa romana, tutto mi sembrava differente. Non riuscivo a raccapezzarmi: ogni muro, ogni colonna dava al contempo impressione di familiarità e di stranezza. Voltando lo sguardo verso la grande sala dove ero già stato, rimasi abbacinato dal riflesso spettrale di una ragazza bionda che guardava intenta un lungo abito bianco appeso alla parete, ritorto in molteplici pieghe come spire di serpente. Potevo guardare attraverso quella sagoma, tanto era trasparente. In breve tempo la figura scomparve, disperdendosi nel Nulla da cui si era chissà come generata.

All’improvviso mi scosse un rumore assordante proveniente dall’etere cupissimo. Alzai di colpo lo sguardo chiedendomi cosa stesse mai accadendo. Quando compresi, rimasi paralizzato dall’orrore.
Una massa di uccelli gravava su ogni cosa, facendo brulicare di ali l’alto dei cieli. Turbini rimescolavano quella marea compatta di piume brune, e io ebbi l’impressione di trovarmi sull’orlo di un ciclone di proporzioni immani. I versi disperati che provenivano da milioni di gole mi facevano gelare il sangue nelle vene. Stava accadendo qualcosa di mostruoso, portento della Natura turbata, segno della Fine dei Tempi, annientamento di ogni utopia e di ogni umano ideale. Non ebbi nemmeno il tempo di muovermi, di fuggire via, di cercare riparo nella villa romana. Le prime formazioni di uccelli impazziti cominciarono a gettarsi giù a picco. Stridendo in modo atroce, si immersero nelle acque grigie e lutulente del mare.
Una volta inghiottiti dalle onde furenti, non cercavano in alcun modo di ribellarsi, non sbattevano le ali come l’istinto di conservazione avrebbe loro imposto. Simili a missili, conservavano la loro rigidità sprofondando fin nell’abisso.
Mi colpì un mortifero vento di empatia, e sentivo dentro di me, nel midollo, le sensazioni provate da quegli infiniti suicidi. Gli animali non facevano nulla per evitare il loro fato. Accoglievano il soffocamento, facendo entrare l’acqua caustica nei polmoni e negli stomaci, fino a morire in una lenta agonia. Alcuni arrivavano ancora moribondi sul fondo, cercando follemente di scavare col becco, fino a spirare in quella liquida oscurità inospitale.
Non era finita. Avevo gli occhi fissi sulla nemesi dei volatili, cristallizzati nella contemplazione dell’epifania tanatogena. Nuove moltitudini si mossero, un nugolo dopo l’altro, imitando i loro antesignani nella brama di annichilirsi. La catastrofe sembrava ripetersi infinite volte.
Ero sicuro che sarei presto bruciato nel delirio, tanto era la mia partecipazione viscerale a quello sconfinato massacro di esseri consegnati all’asfissia. La Natura doveva essere adirata, nella sua inumana potenza, per spingere a comportamenti così perversi. Ogni morte formava un microscopico tassello di un mosaico nero che si andava componendo nel mio cranio, un tassello rovente che si conficcava nella mia materia grigia, facendo sfrigolare la rete sinaptica. Emisi un urlo che, in quell’istante ne ero certo, nessun essere umano aveva mai emesso in tutta la storia di questo infelice pianeta, mentre le ultime orde alate sciamavano verso la distruzione del respiro nell’inferno subacqueo.

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