>Racconti
Silvestroscopio

::::MAGAZINE::::

  • PAGINE:
  • [1]

Con tre titoli pubblicati da Urania negli ultimi quattro anni e un numero imprecisato di racconti usciti su riviste, in antologia (Infected Files per Delos Books) e in collane elettroniche, Dario Tonani (milanese, classe 1959) ha saputo confermarsi come una delle voci più personali, innovative e autorevoli della fantascienza italiana. Dopo L’algoritmo bianco, questo mese Urania ha dato alle stampe Toxic@, l’atteso seguito di Infect@. Allo stesso universo appartiene un racconto in uscita nel prossimo numero di Robot, mentre altre storie usciranno in rapida sequenza su Urania e antologie varie. Come se non bastasse, 40K Books ha appena annunciato l’edizione inglese di Cardanica, tradotto per il mercato americano degli e-book. Per lo stesso editore uscirà a breve il quarto racconto dello stesso ciclo, con un pianeta alieno a metà fra steampunk e visione da incubo. Ma anche per lo scenario di Mondonove, nuovi sviluppi sono probabili. I lettori possono trovare Toxic@ in edicola fino a fine mese e intanto gustarsi questo racconto (già apparso su Io come), tagliente e claustrofobico, come da marchio di fabbrica dell’autore.

Paco districò lo stivale dalla poltiglia e avanzò di un altro passo. A dispetto dei suoi nove anni, non fosse stato per la robaccia che si appiccicava alle suole sarebbe già arrivato in cima. Era salito alla discarica che ancora non…
Nevicava, ma non in senso stretto: dal cielo cadevano fiocchi di schiuma candida che sui polpastrelli diventavano una pastella oleosa.
Milano, periferia est della città, impianto di riciclo n. 22, mattatoio di chine. Un terrapieno alto venti metri imbiancato di bava traslucida e sferzato dal bagliore rotante dei lampeggianti; sul pendio forme appena accennate, colori sfatti.
Cartoni morti. A migliaia.
Latrare di cani da guardia in lontananza.
Paco si fermò a riprendere fiato e strizzò gli occhi nella luce crepuscolare.
Gabbiani volteggiavano in tondo spalmando il cielo del loro bailamme. Qualcuno nel becco teneva una macchia sfilacciata di colore, il brandello di una placenta strappata…
Migliaia di cartoni morti, forse milioni. Ammucchiati in terrapieni tutti uguali, lambiti dall’ultima luce del giorno.
Per essere sicuri di ucciderli, i cartoni vanno percossi un po’ come si fa coi cuccioli di foca. Allo scopo di agevolare l’operazione si usa prima irrorarli di gas refrigerante, in modo che si fa più facile spezzarne la placenta cristallizzata. Il risultato è una macilenta granita di colori. Oppure, ma è una procedura che richiede perizia e mano ferma, si può sfilare la placenta mentre sono ancora vivi...
Paco scivolò un paio di volte e si tirò in piedi, i guanti senza dita zuppi di quella strana crema di sapone. Guadagnò la sommità del terrapieno e si voltò: alla luce morente del crepuscolo, la vista dell’impianto toglieva il respiro. Calcestruzzo grezzo, forme squadrate e lampeggianti arancio, come inflorescenze tossiche, in corrispondenza di ogni saracinesca. Sul piazzale, le operazioni di carico e scarico si erano interrotte come sempre appena prima del tramonto, ma le luci allo iodio rimanevano accese tutta notte a inquadrare le enormi cifre gialle che contrassegnavano le aeree di parcheggio dei camion.
Placentificio 22.
Reticolati che si perdevano nei campi per chilometri.
Pescò la torcia dalla tasca del lungo pastrano cerato, si chinò sui talloni e sparò intorno il fascio di luce. Una selva di occhietti ciechi ammiccò nel crepuscolo. Dove accidenti lo aveva lasciato? Lassù doveva esserci un vecchio Gatto Silvestro spelacchiato, il suo cartone preferito. Il suo avatar di “gommaccia”. Il suo Silvestroscopio!
Eccolo! Uno dei pochi cartoon rimasto intero. La testa faceva ribrezzo, gli occhi erano due orbite vuote, il muso semisciolto contratto in una smorfia. Puzzava di verdura marcia e trementina, come tutta la porcheria che aveva sotto i piedi.
Ma era un Silvestroscopio; ti accomodavi dentro e guardavi il mondo in modo diverso. Lo vedevi alla maniera dei cartoon, più rosa e meno grigio. E il cielo notturno... beh, il cielo notturno era uno spettacolo.
Lo sfilò dal resto dei cadaveri tirandone il muso con entrambe le mani. Il corpo era flaccido e oleoso, pareva un costume di carnevale lasciato a macerare nella salamoia. Dietro, lungo la schiena, qualche talentuoso addetto al ricevimento doveva averne estratto la placenta praticando un taglio chirurgico che andava dalla base del collo all’inguine. Il cartone era stato quindi eviscerato della sua “anima” e di tutta la poltiglia di contorno. Una buccia vuota, un po’ pesce e un po’ peluche sventrato…
I cani, di nuovo quel latrare nervoso.
Paco si liberò del pastrano, sollevò un piede e lo infilò nella gamba del cartone; poi, in bilico su una zampa di gatto, introdusse anche l’altro. Passò quindi alle maniche e infine, usando gli artigli, incappucciò la testa in quella del Silvestro. Il tanfo di guasto lo prese alla gola. Lì dentro, nel Silvestroscopio, non si respirava. Dovette chiudere gli occhi per non perdere l’equilibrio, boccheggiava e lacrimava. Si passò l’avambraccio sul muso con la speranza di far cessare il prurito al naso. E si bloccò.
Qualcuno stava svoltando l’angolo dei magazzini di carico: un addetto della sicurezza, due pastori tedeschi al guinzaglio.
Panico. Si acquattò nella fogna di cartoni, rischiando di finire lungo e disteso nel loro marciume. Sentiva il suo respiro come un mantice rotto. Gli pizzicava il mento. Attraverso i fori delle orbite, poi, non riusciva a girare gli occhi come avrebbe voluto. Guardare fuori era un tripudio di cromie psichedeliche, ma anche un’impresa.
Il tipo con i cani puntò la torcia in direzione dei terrapieni. Uno dopo l’altro ne sondò i fianchi.
Cartoni morti. A migliaia. Tutto quello che non si era potuto avviare al riciclo era laggiù, bucce vuote accatastate l’una sull’altra, come frutti marci...
La torcia lo inquadrò, inzuppandolo di luce giallognola (lui la vide come una melassa di oro smaltato). I cani abbaiarono, l’uomo, al traino delle bestie, si mise ad arrancare su per il terrapieno.
Paco scattò in piedi e si gettò a capofitto sul pendio opposto.
Scivolò, cadde, riprese a correre a gambe larghe. Ma il costume lo ostacolava: le zampone erano troppo grandi e non facevano presa sul pavimento viscido di cartoni morti. Attraverso le orbite di quell’assurdo costume non riusciva a vedere altro che una sottile e ballonzolante fettina di orizzonte (rosso fuoco). Né tantomeno dove stesse mettendo le zampe. Urlò, cadde, rotolò di nuovo.
Szaaaac!
Qualcosa lo colpì alla spalla. Si sentì invadere da un gelido torpore. Fece per alzarsi, ma le zampe non rispondevano. Con la testa a valle, stava scivolando adagio verso la base del terrapieno. Tossì. Dopo un istante lunghissimo, finalmente si fermò.
Gli mancava il fiato e non riusciva a mettere a fuoco le immagini. Fece per muovere le labbra, ma riuscì solo a versarne fuori un filo di bava.
I colori fuori si spensero di colpo. Il Silvestroscopio doveva essersi guastato.
Una sagoma scura entrò nel suo campo visivo; ringhiò e mostrò le zanne. Alle sue spalle, un’altra ombra la tirò indietro. Nella mano che aveva lasciato cadere il guinzaglio teneva ora una bomboletta spray, nell’altra un bastone sollevato sopra la testa.
Uno spruzzo di gelo vaporizzato sul muso. Non fu più in grado di serrare le palpebre. Lo sguardo si ghiacciò sul nulla. Un attimo, e uno dei cani si avventò sul suo addome (dopotutto era un gatto). Strappò un brandello di gommaccia che cominciò a sbatacchiare furiosamente da una parte e dall’altra. Lasciò cadere il boccone, abbaiò e tornò alla carica con un morso rabbioso.
Pelle rosa e... sangue emersero dalle viscere del cartone. Entrambi i cani si accucciarono arretrando sulle zampe anteriori, l’uomo abbassò il bastone e gridò qualcosa che Paco non riuscì a capire.
Un istante dopo, il ragazzino sentì che lo stavano sfilando a forza dal suo Silvestroscopio.

  • PAGINE:
  • [1]